Via da Las Vegas
di Beppe Donadio

la vita è strana. passi dieci anni a fare il giro dell'europa perchè pensi che elton john sia l'unica forma di canzone che si possa ritenere degna di tale nome (il nome è "canzone", inteso come musica e testi insieme).
poi ti accorgi che stai ascoltando solo elton john, e allora compri altri dischi, perchè qualcuno ti dice che il pianoforte non si suona così, e perchè qualcuno ti dice che "non puoi ascoltare solo elton john". vero. in parte.
poi torni alle origini, e ti convinci che a quella musica devi tutto, o molto della tua vita, e in una notte d'estate romana ti accorgi che "don't let the sun go down on me" c'entra in quella piazza come "roma nun fa la stupida stasera", e non sfigura affatto.

c'è bill evans, che ha fatto la storia del jazz. quello sì che è un genio dell'armonia.
c'è chick corea, quello sì che è un pianista.
tutto vero. ma in parte.
il mondo è pieno di pianisti validi, raffinatissimi, preparatissimi e a volte incomprensibili (cosa che agli occhi di qualcuno ne accresce la grandezza), o dannati e consumati dal tempo e dalla vita dissipata (cosa che solitamente ne accresce la portata artistica e rende insonni le notti di giovani donne in cerca di eroi).
il dramma odierno è che non c'è più la figura di mezzo, quella che le enciclopedie chiamano “pianista rock“ o “pianista pop“, quello che scrive le canzoni al pianoforte, e quelle canzoni si reggono su quello strumento e non sulle chitarre dei belli e dannati con la chitarra. oggi il rock non è più sinonimo di pianoforte. oggi non c'è il nuovo elton john, come non c'è il nuovo billy joel. forse non se ne fanno più. o forse ci sono e non sappiamo dove sono.

i pianisti di oggi si dividono in pianisti jazz e pianisti di pianobar. il pianista di pianobar una volta era preparatissimo, e doveva sapere di jazz, almeno un pò. poi il pianobar è diventato sinonimo di "balera", o qualcosa di simile, comunque denigratorio. i pianisti di pianobar oggi si dividono in due sottocategorie: quelli che suonano davvero e quelli che fanno finta di suonare. e cioè quasi tutti.
se nei prossimi giorni andrete agli ultimi matrimoni del mese di settembre, fate caso ai pianisti che appoggiano le mani sulle tastiere. vi accorgerete che non suonano un bel nulla. ma schiacciano pulsanti digitali e come le donnine dei filmini a luci rosse, fingono in modo molto palese.
non è colpa loro. siamo noi che non ci facciamo più caso, noi ai quali sta bene così, tanto siamo lì per divertirci. e chi lo ascolta più il pianista...

bello il telecomcerto, ricco di acqua calda ma anche di graziosi cappellini rossi che faranno la gioia degli acquirenti oltreoceano di ebay. così come sono contento che si possa avere dello spazio per scrivere cose senz'altro più intelligenti di quelle che normalmente scrive luzzatto-fegiz su elton john, dai tempi del bidone di sanremo ad oggi.
non aggiungerò altro al fatto che è stata una notte da mondiali di calcio, indimenticabile e così ben vissuta. come non posso che unirmi al coro che grida “quanta classe su quel palco“, con nigel olsson che si mangia in un solo boccone charlie morgan e tutti gli altri suonatori di tamburi e piatti delle ere precedenti, facendo la metà delle cose, ma soltanto là dove serve. e dunque meglio. splendido olsson.
ci sono un paio di cose che mi sono passate per la testa in quelle, purtroppo, due ore di concerto, e non tre come si diceva (confesso che ho detto un certo numero di parolacce, subito dopo your song. ma sarà stato il colosseo, o la compagnia, le parolacce sono tornate in fondo al sacco al primo aroma di carbonara a Roma, città eterna, ma anche città che chiude tutti gli esercizi di notte, mc donalds compresi. credevo succedesse solo a brescia).

sabato 3 settembre è uno di quei giorni che chiudono i cicli.
in dieci anni mi sono riempito la casa di ogni genere musicale, dal country al liscio, dal jazz a claudio baglioni, da jackson browne ai collage.
ma sabato ero sotto quel palco ad ascoltare il solo di bennie & the jets, lo stesso da sempre, e sorry seems to be the hardest word, la stessa da sempre. mi sono chiesto cosa mi avesse spinto a fare 1138 km, 7 ore di attesa sotto il sole e una semi-disidratazione per ritrovarmi a cantare a voce alta le parole di taupin, una volta di più, una in più di quelle mille, duemila volte che me le ero cantante in auto, per strada, nel bagno, nel dormiveglia, da sveglio, ovunque, in giro per l'europa in quei dieci anni di cui sopra e in tutti i giorni della mia vita, da sad songs fino ad electricity (quanto ad electricity, sotto la doccia si potrebbe cantare di meglio...)
ho cercato una risposta a questa domanda, e la risposta non me l'hanno data nè i collage, nè il country, tanto meno claudio baglioni. e nemmeno il liscio (anche lì, alle feste di piazza, i suonatori di liscio fanno tutti finta di suonare).

la risposta l'ho trovata nel jazz.

se andate ad un concerto di jazz in piazza, dove tutti fingono di capire tutto e intanto parlano di vacanze e storie d'amore, qualcuno vi suonerà sempre, a rotazione, o "summertime", o "autumn leaves", oppure "the girl from Ipanema", perchè il jazz popolare è "summertime", o "autumn leaves", oppure "the girl from Ipanema".
è arrivato il tempo in cui sorry seems to be the hardest word è divenuto standard. standard di musica leggera, pop, o rock, chiamatela come volete. perchè l'uomo sul palco di roma ha scritto standards della canzone. e quegli standards se vuoi te li prendi, li porti a casa, li analizzi e impari a scrivere canzoni, perchè lì dentro c'è una specie di dna. non a caso nelle scuole di musica moderna "song for guy" è diventato quello che "per elisa" è nelle scuole di musica classica.
c'è tutto il necessario del buon compositore, in elton john. è l'ikea della musica. l'abecedario del pop. direi anche "la bibbia", se non fosse una parola troppo grossa. e invece lo dico: "la bibbia".

al telecomcerto ho speso due lacrime (si fa per dire. piango soltanto alla fine di e.t. e "nuovo cinema paradiso").
la prima per dee murray, perchè la elton john band sarebbe stata perfetta, così come i rolling stones al completo, o i pink floyd a live8, o i genesis con peter gabriel, o i police in tre, o come se un regalo del Divino ci riportasse sulla terra john e george per quella reunion con il sempreverde paul e lo sfigato ringo (che nome da biscotto...) che non potrà mai tenersi.
dee murray era eclettico, creativo, efficace. come tutti i musicisti discreti e misurati, come tutti i non-divi, dee murray è un sottovalutato, ma nello stesso tempo il più grande talento di quella band, secondo soltanto al pianista.

l'altra lacrima mi riga la faccia da alcuni anni.
quando facevo il giro dell'europa perchè pensavo che elton john fosse l'unica forma di canzone degna di esistere, arraffavo qualsiasi cosa. dai vinili ai cd, dalle magliette agli articoli di giornale. sono sicuro che molti di noi ancora lo fanno. io cerco di starci attento e col tempo riesco a salvare un paio di stipendi all'anno.
dentro ad una grossa scatola, ad una fiera che non ricordo, stava il n. 121 di "rock&folk", mensile francese di musica varia.il numero 121 del febbraio 1977. inserti su chicago, status quo, santana e in copertina, coi vestiti a strisce orizzontali di blue moves dall'accostamento cromatico quanto meno imbarazzante, c'era il mio dio del pop in una delle sue proverbiali smorfie da tiraculo. era il periodo di riflessione, del possibile ritiro. elton parlava di sè, in quelle pagine, in modo schietto e rilassato.
ce l'ho davanti ora, quel giornale, un pò sgualcito. i collezionisti oggi non mi darebbero che una decina di euro. c'è una frase, virgolettata, in quella intervista, una frase che mi ronza per la testa da un pò di anni.

"je ne chanterai jamais a Las Vegas pour des gens en train de manger leurs cocktails de crevettes", che se i miei studi non mi tradiscono dovrebbe suonare come "non suonerò mai a Las Vegas davanti a della gente intenta a mangiare gamberetti".

se il rimpianto per l'assenza di dee murray da una serata così unica non ha spiegazione se non nel bizzarro destino che si porta via spesso i migliori per motivi che forse un giorno sapremo, o forse no, la storia dei gamberetti di Las Vegas mi torna su ogni volta che ne vedo uno. siano essi freddi come antipasto con le patate, nella majonese, oppure cotti, in mezzo al risotto. potremmo spendere ore a discutere del perchè a sessant'anni e un tot di bypass, un artista del livello di elton john debba rischiare le coronarie davanti a gente che tira maniglie, sputtana ricchezza, sgranocchia gamberetti e patatine e magari disprezza pure i neri. i fans lo sanno. sanno della sindrome compulsiva da acquisto, sanno tante cose.
il fatto che sir elton john non appaia in modo dosato come sir eric clapton, che non ricarichi le pile per presentarsi in occasioni che fanno la storia integro ed ispirato, e che invece lavori con orari da bancario triste, come un qualsiasi dipendente del casinò, resterà per sempre il limite invalicabile di un musicista unico nella sua follia autodistruttiva, unico come chat baker, john coltrane, jimi hendrix, che alla musica hanno dato la vita. e che dobbiamo accettare così come sono.
tra l'usura della voce e l'onnipresenza, tra gruppi di boybands e starlettes dai futuri incerti coi quali accetta di duettare, la mia paura è ancora quella di vedere sir elton john sovrapposto alle ultime immagini di elvis cantante, quell'elvis presley grasso come john candy che si asciuga il viso con salviette di cotone lanciate in pasto a orde di donne urlanti, l'elvis che chiude i battenti da cardiopatico sull'orlo del baratro, finito e rantolante in una "are you lonesome tonight" da spezzare il cuore o rivoltare lo stomaco, fate voi.

e allora verrebbe da dire "via da las vegas". costa poco sperarlo.

non vedo grande differenza tra la musica e la religione. forse è un vuoto della mia anima. sono certo almeno che in nome della musica non si dichiarano guerre, nè si armano i bambini, nemmeno si perseguitano gli uni o gli altri, qualunque sia il credo.
nemmeno credo che un pianista bugiardello che promette tre ore e tanti ospiti, e il palco è lo stesso di bergamo, come pure la scaletta, sia più degno di rispetto di un capo di una qualsiasi chiesa, di un presidente della repubblica, di un patriota, o più credibile di un presidente del consiglio, o di quello di una società di calcio.
forse sarà stato il fascino di roma, forse l'estate che tira le ultime, forse la gente intorno, o lo stato di grazia di un momento, ma per una sera il mio viaggio verso la città eterna mi è sembrato qualcosa di simile ad un pellegrinaggio, quello di un devoto della musica leggera che si spinge fino alla capitale, ad applaudire un uomo musicalmente sincero, goffo e simpatico, stanco e incazzato, ma grande come la sua musica, quell'uomo ed il suo pugno di canzoni che, come le preghiere, sono sempre quelle (I guess that's why they call it the blues docet), ma grazie alle quali io oggi ascolto musica, la compro, la suono, la sogno, la grido, e, in modo più generale, la vivo.
elton john. per sempre.
 

Beppe


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