tell
me what the papers say .....
Italia
da Buscadero n° 228 dell’ottobre 2001
***1/2
Non siate sorpresi. Il primo
ad esserlo sono stato io. Non ascoltavo, con qualche minimo interesse,
un disco di Elton John da quasi venti anni. Se ero un fan acceso nel corso
dei primi anni settanta, quando Reginald Dwight era capace di regalarci
grandi dischi, non parlo di canzoni, ma di dischi come Elton John (’70),
Tumbleweed Connection (’71), Madman Across The Water (’71), Honky Chateau
(’72), Don’t Shoot Me (’73), Goodbye Yellow Brick Road (’74), l’ho poi
cancellato dalla mia mente in quanto da Captain Fantastic (’74) non ha
più fatto un disco decente. E’ vero che la critica americana ha
definito Too Low For Zero (’83) pari, o quasi, ai capolavori del passato,
ma in realtà Elton non ha più azzeccato un disco di livello
da A Single Man (’78) in poi. Anzi ha sempre fatto di peggio, incidendo
album di pessima qualità e facendosi notare più per le sue
bizzarrie, le sue amicizie particolari, che per la sua musica. Chi
ha visto il film di Cameron Crowne, Almost Famous (Quasi Famosi), non può
non ricordare la scena in cui la band canta sul pulman la splendida Tiny
Dancer, una delle canzoni più belle degli anni settanta (e pensare
che originariamente era nata come lato b di un singolo). Una scena,
un ricordo, una premonizione: possibile che un musicista in grado di fare
canzoni di quel livello, non sia più stato capace di ripetersi?
Songs From The West Coast è la risposta a questo quesito: Elton
è tornato, e in buona forma. Questo disco è sorprendente
perché ci ripresenta il miglior Elton John, quello che sa scrivere
vere canzoni, che sa suonare il piano come pochi e che sa ancora emozionare.
Basta sciogliere i dubbi, mettere il CD nel lettore e lasciare che la musica
faccia il suo corso: a monte di ogni giudizio critico, Elton rimane un
musicista vero e, se ne ha voglia, in grado di fare vera musica.
Songs From The West Coast contiene più di cinquanta minuti
di musica e almeno cinque canzoni di grande spessore in cui il nostro,
voce, piano e poco più, riesce a lasciare un segno profondo, canzoni
che ci rammentano che era uno dei grandi, anche se dal periodo in cui lo
era sembra passato un secolo. The Emperor’s New Clothes si apre alla
grande: piano scintillante e voce diretta, poi la canzone prende corpo
lentamente ma rimane solida e ben strutturata. L’arrangiamento non
è zuccheroso come al solito, ma secco e potente, costruito per mettere
in evidenza il suono brillante del pianoforte. Anche se fatico ancora
a crederci, il secondo brano, Dark Diamond mi convince ulteriormente.
Una up tempo ballad di effetto, con una bella melodia, un suono tosto e
l’armonica di Stenie Wonder che fa da controcanto ad Elton. Quello
che mi convince è proprio il suono, mai gonfio, sempre asciutto,
fatto ad arte per dare spazio sia alle melodie che al cantato del protagonista.
Se c’erano ancora dei dubbi la travolgente Look Ma, No Hands toglie ogni
controindicazione. Rock ballad di grande spessore è costruita
in modo spettacolare e ad un uso azzeccato delle voci, contrappone un uso
del pianoforte coinvolgente: ascoltate l’assolo centrale e ve ne renderete
conto. Piano, basso e batteria, niente di più, niente di meno.
American Triangle è malinconica, una love song tipica del nostro,
che inizia, ancora una volta, voce e piano. Poi entra la band, ma
il suono rimane asciutto, senza ulteriori orpelli, e la canzone cresce
lenta come le canzoni più note, quelle che lo hanno reso celebre.
E non è finita. Original Sin è leggera come una piuma,
con una bella melodia di fondo e la voce ben impostata, che gioca le sue
carte su un tappeto di suoni morbido: l’attacco della band da luogo ad
una melodia orecchiabile ma il suono, seppure pieno, non è mai tronfio,
ma rimane pulito e il piano esce di continuo allo scoperto. Anche
Birds non sfugge alla regola: c’è del blues, il piano sempre in
evidenza e la composizione, pur inferiore a quelle che l’hanno preceduta,
non sfigura. I Want Love riprende la tematica delle love song voce
e piano e si muove attraverso una base melodica intensa, con un crescendo
di voci e orchestra ben calibrato. Wasteland è più
rock, con un inizio un po’ gonfio, un tempo cadenzato, il piano subito
al centro, la voce che raggiunge tonalità drammatiche: sotto la
media. Niente male la dolce Ballad Of The Boy With the Red Shoes,
che rinnova la linfa dell’autore, capace di creare emozioni con semplici
e un arrangiamento semplice. La fluida Love Her Like Me, arrangiata
in modo diretto, coniuga rock e melodia con mestiere, anche se rimane un
gradino sotto la parte iniziale del lavoro. L’album si chiude con
la melodica Mansfield e la tonica This Train Don’t Stop Here Anymore, a
conferma della felice riuscita del lavoro. Dodici canzoni, nessuna
da buttare, alcune di grandi livello, altre nella norma: gli arrangiamenti
sono asciutti, la voce espressiva e il piano la carta vincente del disco.
Paolo Carù
da ROCKOL.IT
Da molti anni – ma ormai ne avevamo perso il conto – Elton
John si era trasformato in una sbiadita parodia di se stesso, in
grado di giocare soltanto con le collaudate recenti formule,
stantie e melense. Era triste sentirlo così privo di fantasia, e
non
in pochi l’avevano dato per spacciato; altri ancora non ci
avevano fatto neppure caso: Elton è uno che si può amare
od
odiare all’inverosimile, complice una non proprio riuscita
gestione del personaggio, facilmente incline ai vizi e al cattivo
gusto. Dopo aver realizzato varie colonne sonore ed aver
accumulato un bagaglio stipato di pettegolezzi, Elton ha
inaspettatamente messo da parte tutte le paure raccolte in
trentacinque anni di carriera; quelle stesse che gli hanno
impedito di alzarsi dalla sua comoda poltrona di velluto rosso,
quasi vi fosse inchiodato a forza.
“Songs from the West Coast”, il quarantesimo disco del
baronetto di Pinner, ha il sapore agrodolce dei ricordi d’infanzia,
quelli che ti sovvengono inaspettatamente mentre cammini per
la strada. Dimenticati gli arrangiamenti carichi di fronzoli
elettronici che lo facevano sentire “giovane e alla moda”, Elton
ha licenziato il produttore Chris Thomas in favore delle schiette
atmosfere di Patrick Leonard e ha richiamato alla sua corte i
fedeli musicisti degli esordi, Davey Johnstone alla chitarra, Nigel
Olsson alla batteria e Paul Buckmaster alle orchestrazioni.
Il risultato è un lavoro irruente e articolato, con chiari riferimenti
al suono degli inizi della carriera e a dischi come “Tumbleweed
connection” e “Madman across the water”. Il titolo di questo
disco, allora, suona come un gioco di parole: la costa ovest è il
luogo in cui l’album è stato registrato (in California, per la
precisione). Ma è anche la West Coast musicale, quella dei
Beach Boys, a cui Elton si rifaceva allora e si rifà oggi.
In “Songs from the West Coast” si intrecciano virtuosismo
pianistico e cori gospel, country, folk, soul e blues. Anticipato
dal singolo “I want love”, una ballata che avrebbe potuto incidere
John Lennon, il disco è costellato di piccole gemme, come la
prima traccia, sfacciata e malinconica, intitolata “The emperor’s
new clothes”, la nostalgica “Look ma, no hands” o il travolgente
blues di “The wasteland”, un omaggio all’anima tormentata del
chitarrista Robert Johnson. Il disco deve l’ottima riuscita anche
ai testi del fedele paroliere Bernie Taupin, che raccontano di vite
fatte di perdizione, disfatte e rivincite: “American triangle” è
la
storia di un ragazzo gay assassinato, “The boy in the red
shoes” parla di un ballerino malato di AIDS.
Le immagini del recente passaggio televisivo al Festivalbar ci
hanno mostrato un Elton a metà tra la noia e la gioia, ritrovata,
di avere a che fare con un disco in cui finalmente credere
davvero. Per tutti, speriamo che in futuro prevalga la seconda.
(Gianni Sibilla)
da JAM m° 87 -novembre 2001
Elton John legge JAM. Non
si spiega altrimenti il suo ritorno alla grande musica tipo quella che
componeva
nei primi anni Settanta
dopo che avevo scritto (un po' da talebano, a dir la verità, perché
i gusti sono
gusti...), nella rubrica
Replay, che dalla metà degli anni Settanta in poi tutti i dischi
di Elton John era
vietato ascoltarli perché
facevano schifo.
Scherzo: non sono preso
da un delirio di megalomania, però è curiosa questa clamorosa
marcia indietro di
Sir Reginald, che seppur
lontano dalla grandezza compositiva di album quali MAdman Across The Water
o
Goodbye Yellow Brick Road
torna a incidere una manciata di ottime ballate, in alcuni casi davvero
superbe. E soprattutto
fa a meno di suoni elettronici e plastificati, in linea con le tendenze
più o meno alla
moda, per tornare al suono
caldo e avvolgente del pianoforte (splendidamente in primo piano), delle
chitarre
acustiche (addirittura il
mandolino...), degli ampi spiegamenti corali.
Le canzoni, con ottimi testi
del ritrovato Benie Taupin come ad esempio in AMerican Triangle dove si
narra
dell'omicidio di un ragazzo
omosessuale avvenuto in Wisconsin tempo fa, sono sufficientemente ispirate:
su tutte la bella The Emperor
New Clothes, davvero emozionante, la vivace Look Man No Hands, la già
citata American Triangle,
il rockaccio denso di riff bluesati di The Wasteland e soprattutto
Original Sin che
riporta di schianto a quell'Elton
John, cantore metropolitano dei sogni spezzati che tanto avevamo amato
secoli fa.
PS: nei credits Elton ringrazia
Ryan Adams, l'ex leader dei Whiskeytown con cui ultimamente ha duettato
on stage diverse volte:
hei, dopo anni si duetti con gente come George Michael si è messo
anche a
frequentare le giuste compagnie...
Voto: 7
Perché: incredibile.
Elton John ha fatto un bel disco.
Paolo Vites
da www.videomusic.it
Sono quindici anni ormai che Reginald Kenneth Dwight meglio
conosciuto come Elton John, è
figura ormai legata più alla cronaca rosa che a quella musicale.
Un personaggio perfetto per il
gossip su carta patinata; una vita privata e pubblica che ci viene quasi
quotidianamente
ostentata, senza nasconderci nulla. Conosciamo ogni dettaglio del suo nuovo
trapianto per
capelli, del nuovo fidanzato (lo sposo si, lo sposo no), dei suoi fluttuanti
squilibri di peso, delle
sue folgoranti apparizioni a grandiosi party travestito da novella Madame
Pompadour o
dell’ennesimo e folle acquisto immobiliare che lo vorrebbe per la centesima
volta in
bancarotta. E se qualcosa lo ricollega ancora al mondo delle sette note
in maniera rilevante,
dobbiamo addirittura risalire a tre anni or sono, quando al funerale di
lady Diana interpretò una
toccante versione di “Goodbye Norma Jean”, ritoccata per l’occasione da
Bernie Taupin e
trasformata in una “Candle in the wind”, che solo in beneficenza finì
per fruttare oltre 33
milioni di sterline! Non possiamo quindi che condividere e rallegrarci
per le recenti dichiarazioni
di pubblica ammenda da parte del buon Elton, che ha ammesso di aver composto
negli ultimi
dieci anni brani non all’altezza della sua fama. E per chi ha investito
buone cifre per l’acquisto
di mediocri Re Leone, duetti sparsi, Aide indecenti e un live indecoroso
appena l’anno scorso,
non pare vero che la pop star britannica descriva questa recente raccolta
di dodici nuove
composizioni come una sorta di rinascita spirituale e creativa, quasi avesse
ritrovato la luce
alla fine di “un lungo viaggio nelle tenebre”. Ma un conto sono le dichiarazioni
dell’autore, altro
l’effettiva resa qualitativa. Per dirla fino in fondo: per lui l’album
riveste l’importanza di
“Goodbye yellow brick road”, uno dei suoi capolavori di sempre. Per noi
meno. Molto, molto
meno. Lui vorrebbe riavvicinarsi a modelli ineguagliabili e ineguagliati
di scrittura come
“Daniel”, “Your song” oppure “Roy Rogers”, o riprendersi la gioiosa verve
compositiva che
garantiva anche a melodie pop leggere leggere come “Don’t go breaking my
heart”, una grazia
mai più ritrovata nel decennio successivo. “Songs from the west
coast” cerca di recuperare
brandelli di un passato splendente in un momento in cui tutti pensano a
lui più come a
un’icona di un bel tempo che fu, piuttosto che ad un autore ancora ispirato.
Il risultato
complessivo è piacevole ad un primo ascolto un po’ distratto, ma
ad un orecchio attento non
può sfuggire la quasi totale assenza di un progetto unitario, dove
la creatività sembra essersi
irrimediabilmente smarrita. Smarrita come le persone, gli amici che popolano
i testi al solito
affidati a Bernie Taupin, e dove ci si imbatte in amicizie distrutte dall’Aids
o perse per le
strade della vita, ma che scivolano via senza lasciar traccia, affogate
anch’esse in un
manierismo di scrittura stereotipato e, a volte, ridondante. Per fortuna
Patrick Leonard – il
produttore che lo affianca in questa nuova avventura - lo aiuta a collocare
tutti i tasselli del
puzzle al punto giusto, misurando gli accenti e mantenendo la raccolta
su toni di
un’inconsueta sobrietà stilistica, rispetto alle ultime uscite discografiche
fin troppo
sovraccariche di strumenti e ospiti. L’unico momento realmente emozionante
giunge troppo
tardi, proprio con la dodicesima e ultima traccia: “This train don’t stop
there anymore” evoca
momenti dimenticati nella notte dei tempi. Il resto è mestiere che
vive su qualche sterzata
d’autore; il singolo “I want love” con un bel video interpretato dal bravo
Robert Downey jr, e
una discreta “Ballad of the boy in the red shoes”. Troppo poco per parlare
di rinascita.
Sicuramente per ribadire un malinconico viale del tramonto.
di Stefano Crippa
da IL MATTINO del 21.09.01
Elton John: il nuovo album su versi di Bernie Taupin
Il pianoman è tornato al suo posto. E il suo paroliere di fiducia Bernie Taupin ha ricominciato a scrivere versi adatti alle sue melodie spezzacuore e al suo pianismo zompettante. «Songs from the West Coast», nei negozi da venerdì prossimo, non riporta, come la campagna promozionale vorrebbe farci credere, Elton John al suo periodo d’oro, anzi «Tumbleweed connection» e «Madman across the water» sono ancora lontani, eppure è sicuramente il miglior album del rocket man da diversi anni a questa parte, e non ci riferiamo soltanti ai fiaschi - artistici e commerciali - di «Aida» e «The road to Eldorado». Pop adulto, ruffiano, orecchiabile, capace di passare dalla futilità assoluta di motivetti scacciapensieri a versi che raccontano l’America omofoba («American triangle» è dedicata all’omicidio di Matthew Shepperd, ventunenne gay di Laramy, Wyoming) o un uomo che muore di Aids mentre il governo Reagan non si accorge delle dimensioni del dramma Aids («The ballad of the boy in the red shoes»). «Birds», «This train don’t stop there anymore» e il blues di «The wasteland» sono le perle dell’album: semplici, dirette, acustiche, contagiose come ai tempi delle session allo Chateau. A 54 anni la star che nessuno chiama col suo vero nome (Reginald Kenneth Dwight) sembra cercare l’ispirazione di «Daniel», «Saturday night’s alright for fighting» e «Your song» piuttosto che tentare l’ennesima rincorsa alla hit parade aggiornando il suo verbo sonoro secondo le ultime tendenze giovanilistiche: «In questo disco», spiega lui, «ho voluto lavorare sulla mia forza e non sulle mie debolezze. Mi identifico in quasi tutte le canzoni, a partire dal primo singolo, ”I want love”, che oggi non mi appartiene più ma che sembra disegnato sulla pelle dell’uomo che ero dieci o undici anni fa, prima di disintossicarmi: ero disperato, volevo fortemente una relazione seria, ma al tempo stesso la fuggivo, concentrandomi su storie di poco conto». L’Elton John drogato fino al midollo che cerca disperatamente un amore nel videoclip del brano ha il volto di Robert Downey Jr, divo della nuova Hollywood che ha vissuto il problema sulla propria pelle. «Oggi sto bene. Sono gay e non vorrei essere eterosessuale per tutti i soldi del mondo», spiega il cantante: «Ho abbastanza denaro da non dover seguire alcuna regola. Con il mio compagno David Furnish ho pensato di adottare un bambino, ma è troppo tardi per farlo. Che cosa mi manca? Essere giudicato per la mia musica e non la mia omosessualità. Ho fatto questo disco anche per questo. Non rinnego il passato, perché i miei errori mi hanno portato qui. Ci sono stati tempi in cui il mio naso era così assuefatto alla cocaina che non ero neanche in grado di sentire il profumo di una rosa. Ora so godermi la vita». A volte per godersi la vita basta poco: un pianoforte, un basso, una chitarra e la voce inconfondibile di sir Reginald che fa sciogliere i più sensibili con i lentoni drammatici («American triangle» e «The ballad of the boy with the red shoes») per poi inerpicarsi verso l’Olimpo del pop che cerca la perfezione a portata di tutti (gli ascoltatori, non i compositori), dove siedono Beatles, Bacharach-David e pochi altri. Le canzoni dalla West Coast non saranno ancora il «pure pop for pop people» che il pianoman ci ha regalato negli anni ’70, ma ci vanno abbastanza vicine per meritare l’ascolto, almeno se amate il tipo di mercanzia.
di Federico Vacalebre
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