CONSIDERAZIONI GENERALI
inviate le vostre impressioni su Elton e saranno pubblicata in questa sezione.
non preoccupatevi, non cerchiamo critici
professionisti, ma le impressioni, positive o negative, dei fans!
correva l’anno – 1979
Nel
1979 Elton saluta per sempre la strada dai mattoni gialli e si lascia alle
spalle quella triste ma geniale vena creativa che gli aveva permesso di
condividere con il mondo intero la sua quotidiana fatica del vivere.
Il
compositore è ormai ostaggio di quello strano e discutibile prodotto
discografico di “Victim of Love” anche se il cantante-pianista, come se niente
fosse, se ne va in giro per il mondo a stregare e a catturare la commozione di
tante persone che, come lui, cercano ogni giorno e inutilmente di interrogare
la realtà. Il grande maestro, palesemente a corto di se stesso e della sua arte,
si rende conto che il successo non basta a fondare l’io e che, pertanto, “…la vita non è tutto…” (Song for Guy,
1978). Sembra proprio dirci che tutto ciò che ci accade ogni giorno vada
vissuto solo ed esclusivamente in prospettiva perché forse la dignità del
vivere di oggi, nonostante la nostra rabbia e i nostri interrogativi senza
risposta, troverà pieno compimento in Qualcosa di più grande che ci attende
laggiù da qualche parte. Grazie Elton perché forse, senza volerlo, ci hai
richiamati all’essenzialità della vita, che non vuol dire perdersi nella
singola “catastrofe” quotidiana ma fare della speranza la ragione di ogni nuovo
inizio.
Intanto,
mentre i potenti timpani di Ray si scatenano in “Funeral for a friend”, lo
stesso Elton, nella promiscua “Tonight”, ci ricorda che, a volte, basta solo un
piccolo sorriso per ripartire (“…L’uomo
che amerebbe vederti sorridere…”).
Si
potrebbe parlare a lungo del Tour del 1979 (ed in particolare dei concerti
nell’ex Unione Sovietica in compagnia del solo Ray Cooper), per qualcuno la
definitiva maturità dell’artista, l’apice della sua carriera. Elton suona come
non mai e “Sixty years on”, per l’intera sua durata, astrae l’ascoltatore dalla
realtà e lo rapisce nel magico mondo delle sue note e della sua drammaticità. Tutto
giusto, ma forse ci stiamo riferendo al pianista e al cantante e non al
compositore perché probabilmente qualcosa si è rotto. L’ambizione magari è
ancora la stessa, la voglia di scalare le classifiche anche. Tuttavia Roy
Rogers non riesce più a cavalcare il suo cavallo come una volta e presto se ne
accorgerà (“…è un po’ di tempo che sono
un perdente, ultimamente sto passando un brutto periodo…”: da Too low for
zero del 1983). Ma quello che vediamo è pur sempre lui (che belle “Cold as
Christmas”, “Blue Avenue, “The One”, “Electricity” e Peter’s song, tanto per
fare alcuni esempi di capolavori del post Elton!!!) e, oggi come ieri, lo
aspettiamo perché la sua musica, a volte così triste e drammatica, ci invita a
lavorare su noi stessi affinché domani, magari con tanta fatica, riusciamo ad
essere persone migliori e fonte di bene per tutti (“…deve essere stato un buon giardiniere che amava molto, che sradicava
le lacrime e coltivava un buon raccolto…”: da “Empty garden, 1982).
(Giacomo
1981)
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“Home again” (2013)
occasione per una riflessione sull’opera di Elton John
Home again è il primo singolo del nuovo album The diving board in uscita il prossimo settembre.
Tanto per cambiare, andando ancora una volta controcorrente, saluto
questa creazione come qualcosa di eccezionale in quanto la mia idea di
Elton – non assoluta ma relativa, sia chiaro – non contempla rapporti
con la modernità, duetti o collaborazioni varie ma solo ed
esclusivamente quella semplicità ricercata che ha caratterizzato gli
episodi più belli della carriera del maestro. Dai live dell’esordio –
su tutti, “17.11.70” – ai “classicheggianti” solo piano e percussioni
dei concerti sovietici del 1979, possiamo renderci conto di come quel
pianoforte, diverso da tutti gli altri perché suonato da un uomo
predestinato nella genialità, abbia trasformato il momento dell’ascolto
in un’occasione unica per vivere e sperimentare la nostra “profondità”
confrontandoci con gli interrogativi più importanti dell’umano. Una
semplice successione di note, pur articolata nella composizione, e una
sezione ritmica di assoluto valore, infatti, bastavano a rapire,
seppure per un attimo, la nostra complessità del vivere e a trasporla
nell’essenzialità per cui, in verità, siamo fatti.
Home again è l’ultimo atto della riflessione eltoniana sposata con la
poesia di Bernie Taupin. Un brano solo piano e voce dove, tuttavia, un
accenno di fiati e percussioni arricchisce ulteriormente quella
semplicità ricercata di cui si è detto.
L’introduzione, pura “speculazione” eltoniana di note, è divisa in due
momenti. Il primo, in particolare, sembra quasi alieno all’intero brano
e, quando meno te lo aspetti, lascia il posto al secondo perfettamente
calibrato sul tema dominante della canzone: uno dei tanti interrogativi
senza risposta del maestro nascosti in un episodio della quotidianità
(in questo caso, la preziosità del focolare domestico: “…mi piacerebbe
tornare di nuovo a casa,/solo un’altra volta in ricordo dei bei
tempi…”). Ma come si raggiunge la consapevolezza di un valore come
quello della famiglia? Bernie, attraverso le parole, ed Elton, con la
melodia, sembrano dirci sperimentandolo nella lontananza (“…se non me
ne fossi mai andato, non avrei mai capito che/tutti sognamo di andare
via ma finiamo sempre/col passare tutto il tempo tentando di tornare di
nuovo a casa…”). Quante volte, infatti, ci capita di vivere i nostri
rapporti familiari con insofferenza scambiandoli per l’ostacolo
principe alla fuga verso la libertà? Quante volte pensiamo che la
novità e l’intraprendenza del vivere siano il modo migliore per
sperimentarci uomini (“…sarebbe potuta essere una evasione di
prigione/e la mia occasione per avere le luci della ribalta…”)? Tante
volte, soprattutto fino al momento in cui questo bellissimo valore si
dissolve nel Mistero come tutte le cose finite che ci circondano.
Una risposta a questi quesiti esistenziali, tuttavia, nell’opera del
maestro, non viene mai trovata. Basti pensare alla bellissima Candle in
the wind (1973), di quarant’anni più vecchia, per rendersi conto di
quanto appena detto. Quando, infatti, Candle in the wind diventa una
hit a tutti gli effetti, pochi, forse, comprendono che la bellissima
composizione celebrativa di una grande star – Marilyn Monroe –
nasconde, in verità, una domanda senza risposta che paroliere e
musicista decidono di affrontare insieme, ciascuno a suo modo, il primo
con la “lettera”, il secondo con la melodia. Bernie ed Elton, infatti,
non riescono a capacitarsi di come anche il successo non si sottragga
alle spietate leggi del divenire. Tuttavia, proprio verso la fine della
canzone, Bernie sembra intuire qualcosa di grande. L’oggetto da gossip
a cui tutti i giornali avevano dedicato le loro prime pagine (“…Oh, la
stampa continuò a perseguitarti/tutti i giornali dovevano dire/il fatto
fu che Marilyn era stata trovata nuda…), infatti, era “…qualcosa di più
che sensuale…”. Ebbene sì, proprio qualcosa di più. Quel corpo senza
vita che aveva contribuito ad alimentare lo scandalo, infatti, non era
prezioso solo per il suo valore artistico ed esteriore ma semplicemente
per la sua stessa essenza in quanto opera grandiosa di una mano
invisibile ma certa.
Tornando, infine, ad Home again, vorrei concludere col bellissimo
assolo di piano che Elton ci regala nel corso dell’ascolto. Certamente,
quanto a scrittura musicale, rappresenta una novità assoluta nel
panorama delle sue composizioni. Quanto, invece, all’effetto finale – e
qui critici eltoniani di maggior spessore non concorderanno – non si
discosta, ad esempio, dall’assolo di sintetizzatore di Nikita (1985) –
altra canzone, altro periodo creativo. Per quale motivo? Semplice,
perché, in fondo, Elton si pone le stesse domande da sempre. Siano
interrogativi sull’amore piuttosto che riferimenti alla fragilità
umana. La scrittura musicale, in entrambi i casi, nella prima parte,
procede lenta quasi ad indicare una caduta nella rassegnazione e
nell’incapacità di comprendere gli accadimenti quotidiani. Nella
seconda parte, invece, si fa più veloce – più note per movimento –
quasi ad esprimere, questa volta, una volontà di reazione che,
tuttavia, non riesce a trovare piena comunione in quello che qualcuno,
io compreso, chiama Dio Padre.
(Giacomo 1981)
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Luoghi immaginari e immaginati nella poesia di Bernie Taupin (2013)
La riflessione melodica
eltoniana non nasce come speculazione di note fine a se stessa ma si
innesta principalmente su una composizione letteraria degna dei più
grandi capolavori della letteratura internazionale.
Nei testi di Bernie Taupin, in
particolare, destano curiosità quelli che io chiamo luoghi immaginari e
luoghi immaginati. Si tratta di un utile espediente per far
sperimentare all’ascoltatore le medesime domande del paroliere. Un
contesto ben definito sia termini fisici che temporali dove un piccolo
sforzo di fantasia può comportare un’astrazione pressoché totale dal
proprio presente. Vediamo alcuni esempi – a mio parere, alquanto
significativi.
Correva l’anno 1973. Il maestro Elton
è al primo posto in classifica sulle due sponde dell’Atlantico. Non è
solo l’effetto di una popolarità ormai consolidata e frutto di una
genialità compositiva con pochi eguali nella storia. L’album Goodbye
yellow brick road è, senza dubbio e di diritto, un pilastro della
musica contemporanea. In esso si intrecciano e convivono storie di
tutti i giorni, (“…Oh! Dolce signora imbellettata/… essere pagata per
fare l’amore/credo sia questo il nome del gioco/Dimenticaci, presto ce
ne saremo andati/dimentica proprio/che abbiamo dormito nelle tue
stanze/… Dove l’amore non è che un lavoro…”: Sweet painted lady), drammi
legati ad una sessualità distorta e perversa (“… Tutte le ragazze amano
Alice/…Alice è il mio turno oggi/… se ti do il mio numero/prometti di
chiamarmi/aspetta che se ne vada mio marito/Povera piccola cara/con il
cuore spezzato/…”: All the girls love Alice), pensieri di morte
(Funeral for a friend, brano strumentale dal gusto piuttosto macabro ma
dall’aspetto maestoso) ed, infine, versi celebrativi di personaggi del
mondo dello spettacolo e della televisione (“Addio Norma
Jean/… Hollywood creò una super star/e il dolore fu il prezzo che
pagasti…”: Candle in the wind). Il brano che maggiormente qui
interessa, però, è Goodbye yellow brick road, grande successo artistico
e commerciale ma soprattutto titolo dell’omonimo album. La canzone,
ricca di immagini, è un inno ad una vita semplice (“…sarei dovuto
restare alla fattoria…”) e lontana dai compromessi del mondo dello
spettacolo (“…sai che non puoi avermi per sempre/…non sono un regalo
per i tuoi amici…) dove l’essenzialità del vivere (“…me ne torno dalla
vecchia civetta ululante nei boschi/a cacciare il rospo dal dorso
calloso…) rappresenta, forse, l’unica strada per recuperare quella
purezza “creaturale” che dovrebbe allontanare l’essere umano da ogni
pulsione verso falsi infiniti (“…Forza Robert Johnson/anche se siamo
mondi distanti/tu ed io sappiamo come ci si sente/col diavolo nel
cuore…”: The wasteland, 2001). La strada dai mattoni gialli, pertanto,
è il luogo immaginario dove si consumano gli eccessi della società,
dove l’uomo trova il compimento dei sensi ma non la consapevolezza
della propria origine divina. E Bernie, ben presto, si rende conto che
un palcoscenico, talvolta, è solo falsa apparenza e che la risposta
alla propria inquietudine ha bisogno di fondamenta più solide e di
scelte, talvolta, più radicali (“…Oh ho finalmente deciso che il mio
futuro sta/oltre la strada dai mattoni gialli…”).
Bellissima, inoltre, la figura
dell’uomo razzo che, per la prima volta, a bordo della sua astronave,
sperimenta tutta la sua fragilità di fronte all’immensità dello spazio
circostante (“…La terra mi manca tanto/mi manca mia moglie/che senso di
solitudine essere fuori nello spazio/in questo volo senza tempo/…non
sono l’uomo che mi si crede a casa…”: Rocket man, 1972). L’astronauta,
nel comune sentire, è l’uomo delle imprese impossibile, colui che va
oltre ogni barriera fisicamente immaginabile. Tuttavia, qualunque
traguardo mai raggiunga, lo farà sempre portando con sé il peso della
sua finitezza. Condizione questa che, in assenza dell’incontro
determinante col Mistero, può trasformare la fatica del vivere in
disperazione. La scienza, allora, diventerà conquista anch’essa finita
senza che il progresso possa colmare quel vuoto esistenziale che
accompagna l’uomo che rincorre i sogni dell’uomo (“…E tutta questa
scienza/non la capisco/per me è solo il mio lavoro/per cinque giorni a
settimana…”).
Metafore e luoghi, immaginari o
immaginati che siano, come detto, sono una costante nelle canzoni del
duo John/Taupin. Scorrendo qua e là – si fa per dire – un elenco di
oltre 700 canzoni (1), possiamo notare che anche le sfumature
dell’amore, positive o negative, per essere raccontate, possono essere
calate in una dimensione ad hoc dove riferimenti fantastici o reali,
seppure non propriamente autobiografici, fanno da collegamento fra
ascoltatore e sentimento narrato. Il Viale della malinconia (traduzione
di Blue avenue, 1989), ad esempio, è il luogo immaginario scelto per
raccontare una drammatica “…ossessione…” dove due “…cuori in cerca di
semplici avventure si scontrano…” dopo aver compreso la banalità di un
incontro fondato solo su pochi istanti di intimità senza seguito. E
ancora, per venire ai nostri giorni, la stupenda Quinta strada
(traduzione di 5th Avenue, 2013), extra track dell’album The diving
board, luogo immaginato che, “…nell’inverno del 1982…”, diventa la
cornice di un incontro evocativo di una storia d’amore che si è fermata
“…ad un passo dal matrimonio…”. Due giovani – forse, nel 1982, non più
– dall’aspetto piuttosto trasandato – lui, nonostante il freddo,
“…senza…” un “…cappotto pesante…” e con “…un paio di scarpe leggere…”,
lei “…accasciata su un uscio della…strada per/essere stata
abbandonata…” – che si sono lasciati determinare da un fatto – il
mancato matrimonio. Può una circostanza, seppur drammatica,
condizionare una vita intera? Senza dubbio, ma nel momento in cui
l’uomo sia incapace di trovare risposte al di là di ciò che è
immediatamente visibile. In altre parole, può accadere qualcosa che non
vogliamo, anche l’irreparabile. Resta il fatto, però, che ogni
avvenimento, anche il più doloroso, deve diventare l’occasione per
sperimentarci più saldi nella fede e nella speranza.
Vorrei
concludere, infine, con la bellissima Empty garden (hey hey Johnny)
(1982), dedicata al grande John Lennon, ucciso a New York la sera
dell’8 dicembre 1980. Bernie, come al solito, si chiude in se stesso e
comincia ad interrogarsi su quanto accaduto. E quale immagine può
essere più bella di un “giardino vuoto” per descrivere una mancanza che
non riguarda solo il mondo della musica ma anche e soprattutto il cuore
di un amico (“…Cos’è successo qui/mentre calava il tramonto su New
York/ho trovato un giardino vuoto…”)? Il paroliere, anche in questo
caso, utilizza un’immagine – anzi, un luogo immaginato – davvero
straordinaria. Il povero giardiniere (John Lennon), ormai, non c’è più
ma ha lasciato i segni di una grande passione e dedizione (“…chi ha
vissuto qua/deve essere stato un giardiniere/che ci teneva molto…”). Ma
non solo. Era una persona davvero eccezionale perché, oltre a coltivare
“…un buon raccolto…”, “…sradicava…” anche “…le lacrime…” invitando noi
tutti ad essere persone migliori e fonte di bene per coloro che
camminano con noi. La sofferenza, tuttavia, è grande anche se il suo
insegnamento rimarrà per sempre (“…un giardiniere come quello/non lo
può rimpiazzare nessuno…”).
Tante sono le canzoni firmate dal
duo John/Taupin, senza dubbio “…una delle coppie di compositori più
famose e prolifiche nella storia della musica contemporanea…” (2).
Tuttavia, per non appesantire eccessivamente la lettura, mi fermerò qui
pur nella consapevolezza che tanti altri testi ci sarebbero stati di
aiuto per lavorare su noi stessi e sui nostri interrogativi, molto
spesso, rimasti senza risposta.
(Giacomo 1981)
(1) http://it.wikipedia.org/wiki/Elton_John
(2) http://it.wikipedia.org/wiki/Elton_John
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