Elton John
The Diving Board
recensioni dei fans
di Francesco Paolo Malvone
Direi che
dopo averlo ascoltato anche in formato serio, è l'ora di scrivere le
mie riflessioni e i miei voti, canzone per canzone e poi sull'album per
intero.
OCEANS AWAY: 9,5
E' un votone, lo so
bene, ma, l'ho scritto e riscritto, per me il primo ascolto è stato uno
di quei momenti che ricorderò sempre da fan: il primo ascolto di Your
Song, le prime note di The One live... perché mi piace così tanto,
perché mi ha sciolto al primo ascolto? Penso ci sia l'essenza di Elton
e Bernie: melodia bellissima, testo profondo (a me mette i brividi "For
a generation gathering for maybe the last time"), interpretazione
vocale di Elton sentita, pianoforte eccezionale. La seconda strofa è
pura libidine musicale. Come diceva Pier, la progressione di note dà
l'idea delle onde dell'oceano che si infrangono sulla costa, ritornano
e si infrangono di nuovo, come significativo è il finale su una sola,
ripetuta nota... una perla, davvero.
OSCAR WILDE GETS OUT: 9
Altro voto
altissimo. Mezzo punto se lo guadagna per l'originalità, non mi ricorda
davvero nessun altra canzone del Sir. Ma la qualità è altissima: il
riff di piano è memorabile, ti entra in testa e non esce più; il
ritornello, che in una canzone del genere rischia di far più danni che
altro, è perfetto. Gli altri strumenti che entrano in gioco, a
cominciare dagli archi, impreziosiscono enormemente il tutto (in
particolare sul bridge), rendendo questa canzone una vera gemma. Bernie
mette su un testo dei suoi, regalando immagini vivide e metafore
ardite. Veramente bellissima.
A TOWN CALLED JUBILEE: 8+
Altro voto bello
alto per questa canzone che a Pier pare presa da Captain And The Kid,
ma che a me sembra essere uscita direttamente da Tumbleweed Connection:
del "trittico" con Oscar e Blind Tom è la meno originale ma ciò non
significa che si tratti di una canzone di scarso valore, anzi. E' una
di quelle che più richiama al passato, e lo fa con successo. Piano come
sempre protagonista, ma menzione speciale, oltre al grandissimo
Bellerose, alla chitarra fantastica. Solidissima, promossa a pieni voti.
THE BALLAD OF BLIND TOM: 9
Votone anche per
questa canzone. Al solito, Bernie da storyteller tira su i suoi testi
migliori. La melodia è anche qui particolarmente originale e
eccezionalmente costruita... mi torna spesso alla mente quando la
ascolto un aggettivo menzionato da qualcuno: "nevrotica", e nell'intro
e tra una strofa e l'altra, grazie anche ancora una volta agli archi
straordinari, lo è per davvero, ti trascina nella storia: penso inoltre
che la melodia sposi fantasticamente il testo. Trascinante.
DREAM #1: 7
Quello che mi piace
di meno, ma assolve a pieno la sua funzione, quella di passaggio a My
Quicksand e al profondo change of mood dell'album.
MY QUICKSAND: 6
La canzone più
controversa dell'album. All'inizio non mi piaceva e basta, ora non la
gradisco particolarmente ma ne capisco il senso. E l'assolo dopo la
parte in cui dice "I'm going down", è assolutamente notevole.
Semplicemente, rimane non il genere di canzone che si fa amare
particolarmente da me. Da qui una sufficienza che è il voto più basso
dell'album.
CAN'T STAY ALONE TONIGHT: 8
Avevo pensato di
darle 7,5. E forse era il voto più giusto. Però se mi trovo a
canticchiarla praticamente ovunque, le va dato merito :D . E' un
country-pop tipicamente eltoniano (ed è un Elton che mi piace, e molto:
Turn The Lights Out When You Leave è tra le mie preferite da Peachtree)
impreziosito dal contributo dei musicisti (menzione speciale per il
basso), e, soprattutto, dalla superba produzione di Burnett. Una
canzone che non sarà particolarmente originale, particolarmente
pretenziosa, ma si lascia ascoltare con enorme piacere, e rimane
davvero dentro, mette il sorriso sulle labbra... "Things have to change
- and they might..." :)
VOYEUR: 8,5
Che dire? Mesi fa
ci preoccupammo del cambio del titolo. Eppure questa canzone è una
gemma. Ha tanto, tantissimo, dell'Elton che fu. Se chiudo gli occhi non
faccio fatica a immaginarmi un giovane cantante che comincia a perdere
i capelli e sforna già capolavori a cantarla con la sua voce
straordinaria. Magari quel ragazzotto avrebbe spinto un pò di più nella
seconda strofa. Max disse che gli sembrava uscita da Friends, e sono
abbastanza d'accordo. Fresca, ma al contempo intrisa di profumo di
passato. Bella. Il confronto con Mansfield? Magari melodicamente si
assomigliano, ma poi ci sono tantissime differenze, non mi sento di
dire quale preferisco, non riesco a scegliere,mi piace tantissimo
questa canzone, ma adoro anche Mansfield, Però, una cosa posso dirla:
al pur molto, molto bello vocalizzo finale preferisco il "At the break
of dawn" di Mansfield. :D
HOME AGAIN:8
Dissi già a suo tempo, è tardi e non voglio dilungarmi di nuovo su una canzone molto, molto, molto bella.
TAKE THIS DIRTY WATER:8,5
E' troppo, troppo
il mio genere. E' quello che avrei voluto fosse Peachtree e che non è
stato. Una canzone così tanto New Orleans, ben pensata, ben suonata,
ben fatta. "Get back to the wellspring, purify the stream": il
passaggio che più resta dentro, ma è come se Elton per tutta la canzone
mi guardasse e mi facesse l'occhiolino, sapendo cosa mi piace e
mettendo le note giuste al momento giusto. Anche qui, chitarra
fenomenale, e Sir che regala una performance vocale memorabile. Mi
piacerebbe tanto sentirla live ( non con la EJB, of course. :D ). La
adoro.
DREAM #2: 7
Vale il discorso fatto per il primo sogno
THE NEW FEVER WALTZ: 7+
Mi era sembrata ai
primi ascolti valere di meno. Invece non si è rivelata affatto male. Il
piano mi piace molto, ma in generale è un pezzo di gran classe. Da
ballare con la morosa, e sussurrarle "Siamo solo una coppia che balla
dove sono stati incoronati migliaia di re" :D. I passaggi strumentali
davvero di livello. Non la canzone più memorabile dell'album, ma
contrariamente a quanto pensavo all'inizio si lascia ascoltare
piacevolmente.
MEXICAN VACATION: 8+
Che dire? Live ci
sembrava un pò raffazzonata, con Elton ad inseguire con la voce e con
il fiatone che lo accompagna in pezzi di una certa velocità (vedere la
famosissima I'm Stì Stè per capire :D) E invece si rivela assolutamente
trascinante, un blues con gli attributi, grintoso, cattivo. Diversa da
Hey Ahab (che da me prese un 9 bello tondo tondo, pezzo straordinario),
meno bella, meno originale, ma merita eccome... yeah, yeah, yeah. :D
Grande finale.
DREAM #3: 8+
Il dream migliore è
quello più lungo e quello che più riporta a 11-17-70. Assomiglia in un
passaggio a Sixty Years On, ma è veramente solido. Ne poteva uscire,
dandole più minutaggio, qualcosa di veramente veramente bello.
THE DIVING BOARD: 9
Per me è votone
anche qui. Chiudete gli occhi, e lasciatevi trasportare dalla magia di
questa canzone. Un Elton mai sentito, mai. Sembra che la sua voce esca
da un vecchio grammofono (rifaccio mia quest'immagine), di vedere un
film in bianco e nero, non saprei. Ah, sia chiaro, di quelli buoni.
Fatto sta che Elton tira fuori una traccia di gran classe, cantata in
maniera completamente nuova che neanche mi aspettavo potesse essere in
grado di fare...
...So, what's my view from the diving board? (o meglio, on :D)...rullo di tamburi...
9
Voto altissimo, ma
anche meritato. Si è parlato di Elton non ispirato, che non fa nulla di
nuovo, per me il nuovo c'è e se non c'è il nuovo c'è il semplicemente
bello. Il livello medio delle canzoni è altissimo, il piano è divino,
Elton esplora generi inusitati, o terreni ben conosciuti in cui dà però
ancora prova di sapersi muovere alla grande. Burnett eccezionale,
musicisti straordinari ( Saadiq e Bellerose :wub: ). Pura classe...puro
Elton. Il mio preferito dei 2000. E sono uno cresciuto a pane e Songs
From The West Coast.
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di Pierluca Turnone
Dopo molti ascolti, esprimo la mia circa il nuovo disco.
Gran bel lavoro, di pregio e di classe. Solo un Grande Artista poteva
pubblicare a 67 anni un album del genere, certo profondamente
introspettivo oltreché maturo. La produzione, l'opera dei musicisti e
il pianoforte eccelso costituiscono certamente il grande valore
aggiunto, e devo convenire con chi lo ritiene un Peachtree Road più
ispirato e raffinato. Le interpretazioni vocali, per quanto non sempre
mi convincano del tutto (vedasi il cantato in certi tratti di Voyeur,
troppo sforzato in confronto alla leggerezza della melodia), sono
certamente di altissimo profilo e rivelano una rinnovata ispirazione.
Di seguito i miei giudizi sulle singole canzoni.
OCEANS AWAY: Come da me ripetutamente affermato, costituisce forse il
punto più alto del disco. Struggente nella sua semplicità, magnifica
nel suo lento incedere, toccante e drammatica nei temi trattati. Forse
la migliore esibizione canora dell'album, certamente molto sentita
(vedasi il modo in cui Elton pronuncia "Orion"); ad essa fa da
contraltare un pianoforte richiamante in ultima analisi le atmosfere di
The Retreat (adoro il momento in cui, all'inizio della seconda strofa,
i classici accordi lasciano il posto a fluttuanti, e ben più eteree,
progressioni di note: quasi come se le correnti oceaniche si
materializzassero di colpo sotto gli occhi degli increduli
ascoltatori). Il testo di Bernie è un 10 assoluto. Voto: 9
OSCAR WILDE GETS OUT: Un brano meraviglioso. Efficace lo splendido riff
pianistico e ben congegnata la melodia, con un ottimo bridge; anche in
questo caso, trattasi di una delle interpretazioni vocali più sentite
degli ultimi anni. Sempre eccelsa la produzione di T-Bone. Bernie mette
su un testo di altissimo valore, pregno di immagini a tratti vagamente
simil-esotiche ("Tobacco from Virginia"), a tratti sconcertanti nella
propria crudezza dalle tinte mistiche ("Felt like the head of John the
Baptist/in the arms of Salome"). Voto: 8,5
A TOWN CALLED JUBILEE: Sembra provenire direttamente dalle sessions di
TC&TK, ma ciò non mi impedisce di apprezzarla appieno in questo
contesto. Non è certamente un brano originale, ma costituisce una delle
migliori incursioni nel gospel da parte dell'Elton odierno. Perfetto il
lavoro delle coriste. Voto: 8
THE BALLAD OF BLIND TOM: Sono d'accordo con Beppe, quando mette in
rilievo la grandezza di questa canzone. Una delle migliori del disco.
Ritengo i giri armonici del piano, l'utilizzo dei cori, il cantato
talmente pregevoli da perdonare ad Elton il fatto di non aver inserito
uno sfrenato bridge pianistico tra il secondo e il terzo ritornello.
Voto: 8,5
DREAM #1: Pur nella sua brevità, essenziale ai fini dell'intero lavoro.
Apprezzo gli echi chopiniani di questa ripetitiva (ma efficace)
reverie. Voto: 7
MY QUICKSAND: Devo rivalutarla in toto. Inizialmente mi sembrava
prolissa e stantia, la tipica outtake da Billy Elliot o Lestat; è
invece è una canzone amara, matura, persino ardita nel rischio
(scongiurato) di cadere in certe leziosità. Merito di un bridge
inaspettatamente coinvolgente, dalle citazioni colte e dai colori
jazzati, ma anche della superba produzione di T-Bone (se penso a cosa
avrebbe potuto combinare Chris Thomas...). La più lontana antenata del
brano è certamente I Fall Apart. Voto: 7,5
CAN'T STAY ALONE TONIGHT: Ottima incursione (come al solito) nel
country-pop, ricorda Turn the Lights Out When You Leave (melodicamente
ancora più radicale). Si lascia ascoltare con molto piacere e, come
notava Max, sarebbe stata certamente un ottimo singolo in USA. Le manca
però un po' di grinta. Voto: 7,5
VOYEUR: Riconosco la validità della composizione, certamente atipica
(come avevo scritto in precedenza, mi ricorda le cose migliori di The
Big Picture). Anche la coda strumentale è inusitata. Quello che non mi
convince del tutto è il cantato di Elton: generalmente superbo (nelle
strofe), ma talvolta un po' sforzato e quasi grottesco (ad esempio,
nella prima parte del primo ritornello). In linea di massima si tratta
comunque di un'altra gemma (inferiore però alla analoga Mansfield).
Voto: 8
HOME AGAIN: Espressi tempo fa il mio giudizio su questa canzone,
classicamente eltoniana. Ad alcuni mesi di distanza, confermo le mie
impressioni positive e il mio apprezzamento per una melodia, un testo,
un bridge pianistico tanto nostalgici, coinvolgenti e ariosi. Il
passaggio dal re minore della fine del ritornello al re maggiore del
bridge è melodicamente bellissimo. Voto: 8
TAKE THIS DIRTY WATER: Mi aspettavo qualcosa di più, a dire il vero.
Uno standard gospel, penetrante e ottimamente prodotto. Non spicca
particolarmente, ma fa comunque una gran figura. La voce di Elton si
tinge di scuro in perfetto accordo con le coriste. Voto: 7,5
DREAM #2: Anche questo "sogno" è essenziale per introdurre i passi
malinconici di The New Fever Waltz. E' più variegato dell'altro;
entrambi, comunque, mi ricordano gli stilemi compositivi delle grandi
opere sinfoniche à la Blue Moves. Voto: 7,5
THE NEW FEVER WALTZ: Un buon brano, valorizzato da T-Bone e dallo
splendido accordo tra il pianoforte e i violoncelli nelle parti
strumentali. In mano a Chris Thomas, sarebbe uscito fuori un pesante
obbrobrio. Voto: 7
MEXICAN VACATION (KIDS IN THE CANDLELIGHT): Che sorpresa, dopo averla
ascoltata per la prima volta! Era dai tempi di The Wasteland che Elton
non componeva un blues tanto grintoso! Radicale ed elettrizzante (anche
se forse inferiore nel complesso ad Hey Ahab), ti incolla alla radio
quando meno ti aspetti che Elton possa uscirsene con un brano del
genere (in The Union avrebbe fatto un figurone). Un grande pezzo,
nient'altro da aggiungere. Voto 8,5
DREAM #3: Il migliore dei tre strumentali. Sostituisce alle
inquietudini delle precedenti sognate la nevroticità di un vero incubo!
L'unico brano a schierare il tanto millantato trio piano-basso-batteria
(in un tratto richiama espressamente la Sixty Years On di 11-17-70)
mostra anche un piano energico e aggressivo... da quanti anni non lo
ascoltavamo? Peccato per il minutaggio, il giudizio poteva lievitare
parecchio. Voto: 8
THE DIVING BOARD: Chiude degnamente l'omonimo disco. Affascinante e
suadente, sembra provenire da un antico grammofono (è proprio vero,
Francesco!). Potrebbe far da sfondo alla New York degli anni Quaranta;
difficile resisterle. Dallo spezzone me la immaginavo più in stile Amy
Winehouse, ma ciò non toglie che rimanga comunque una bellissima
canzone. Voto: 8
5th AVENUE: Anche in questo caso, espressi il mio giudizio un pò di
tempo fa. Una bella canzone, odierna rivisitazione degli Eighties
eltoniani (especially Burning Buildings), ornata di un testo molto
evocativo (tanto quanto la parte strumentale dai sapori latini). Voto:
7,5
CANDLELIT BEDROOM: Devo ancora metabolizzarla al meglio. Ora come ora,
non mi sembra una brutta canzone; concordo però con chi l'avrebbe
trovata fuori contesto. In ogni caso, ancora un plauso a T-Bone. Voto: 7
Voto al disco: 8,5. Non so se sia effettivamente superiore a The Union,
ma certamente si lascia ascoltare di più (anche nella maggiore intimità
che lo pervade).
|
di Beppe Bonaventura
Un album tanto
atteso, forse troppo atteso, che aveva generato grandi aspettative. Da
quando era stato annunciato come il ritorno a una strumentazione
essenziale, solo piano, basso e batteria (e poco più), come lo storico
tour del 1970, non potevo che essere ansioso di poterlo ascoltare e il
lungo ritardo non aveva fatto che acuire la cosa.
E Devo
ammettere che i primi assaggi e poi l'intero album in preascolto, in
bassa qualità audio, mi avevano depresso: era questo l'Elton atteso per
anni? Un gruppo di canzoni poco significative, con due gemme come
”Oscar Wilde Gets Out” e “The Ballad Of Blind Tom” che spiccavano
subito alla grande e poco più? La fine di un sogno???
Fortunatamente no!
L'album è un
bellissimo disco, ma non è propriamente un ritorno a un certo suono
rock delle origini, come ci si poteva aspettare: l'ispirazione migliore
è sparita da tempo, come è logico, ma la straordinaria produzione di T
Bone Burnett, tanto detestato da una buona parte di fan dopo “The
Union”, ha quasi fatto il miracolo. È un disco acustico, essenziale,
con grandi musicisti, sovrastato da un piano fantastico che ha fugato
le mie paure per il modo di suonare di Elton, diventato anno dopo anno
sempre più ampolloso e meno deciso. Ma in fin dei conti non era
difficile pubblicare un album così!
Elton, come già
detto, ha perso l'ispirazione migliore da tempo, ma è innegabile
che sa ancora comporre delle ottime canzoni, se vuole. Mentre Bernie,
da parte sua, trovo che in questi ultimi anni sia migliorato, magari ha
perso un po' della follia, dell'ermetismo e del nonsense degli anni
d'oro, ma ha guadagnato in lucidità, descrizione e consapevolezza del
tempo che passa.
Bastava
semplificare la strumentazione da utilizzare, bandendo completamente
ogni tipo di suono sintetizzato o elettronico, prendere dei musicisti
di classe, riempire l'album di un bel piano dal suono classico
(ricordate lo Steinway?), togliere un po' di melassa, da tempo il punto
debole dell'Elton più pop, e mettere tutto nelle mani di un
produttore ‘con le palle’, in questo caso T Bone Burnett.
La formula era
abbastanza semplice, bastava solo volerlo e finalmente è arrivato il
momento. “The Diving Board” non sarà un capolavoro, ma è un ottimo
disco, sicuramente la sua migliore produzione dopo i gloriosi anni 70.
Qua e là fanno capolino echi di Randy Newman, di David Ackles e anche
di Rufus Wainwright, ma “The Diving Board” rimane un disco
eltonjohniano al 100%.
Con “The Union”
l'opera di Burnett era riuscita solo in parte, complice anche il fatto
che era un disco anomalo nella discografia di Elton, in coppia con Leon
Russell. In questo caso, invece, il lavoro, concentrato solo sulla
figura e sul piano di Elton, è risultato quasi perfetto e viene da
pensare che cosa ne sarebbe potuto uscire se tutto ciò fosse stato
concepito nei suoi anni migliori, quando l'ispirazione girava a mille,
ma purtroppo non lo sapremo mai.
“The Diving Board”
non è un disco banale, non prende subito a un primo ascolto, ha bisogno
di essere digerito per poterne apprezzare adeguatamente tutta la sua
potenzialità.
Bisogna
dimenticarsi l'Elton più pop (nel senso deleterio del termine), c'è un
deciso ritorno a certe sonorità degli inizi, anche se è molto improprio
associarlo a album come “Tumbleweed Connection” o a “Madman Across The
Water”, la cui forza era dovuta, oltre all'eccezionale
qualità delle canzoni, ai fantastici e complessi arrangiamenti
orchestrali di Paul Buckmaster, mentre in questo caso si è scelto la
via opposta, cioè una strumentazione ridotta al minimo.
Detto ciò penso
che, a parte i primi entusiasmi, questo disco allontanerà gran parte
del pubblico generalista di bocca molto buona che si è messo a seguire
Elton a partire dagli anni ‘90, che conosce Elton solo per le sue hit
più scontate, quel pubblico che si è selezionato in tanti anni di
concerti fotocopia, di show fatti principalmente per piacere alla massa.
C'è uno stacco
deciso, come in nessun altro suo album da quarant'anni a questa
parte, dall'Elton pop troppo spesso sdolcinato e indulgente verso
sonorità alla moda, e questa è una scelta ben precisa, un'evoluzione
che era partita da “Songs From The West Coast” e che era proseguita,
con alterne fortune, attraverso tutto l'ultimo decennio.
Anche qui, come in
“The Union”, la band viene accantonata a favore di musicisti di ben
altra levatura, come Jay Bellerose alla batteria e percussioni e
Raphael Saadiq al basso, che rappresentano il fulcro di tutto l'album,
e anche questo sarà sicuramente motivo di discussione e di rifiuto da
parte di chi non riesce a concepire che la ormai mediocre band di Elton
non venga utilizzata anche in studio di registrazione.
L'album ha un paio
di punti deboli che però vengono ampiamente compensati dal risultato
complessivo: come già detto Elton non è più al massimo
dell'ispirazione, quasi inevitabile dopo tutti questi anni, e la sua
voce e il suo modo di interpretare certe canzoni, “My Quicksand” su
tutte, fanno sicuramente rimpiangere un po' i tempi d'oro.
Ottime canzoni come
”Oceans Away” e “Voyeur” sembrano sul punto di decollare e invece sul
più bello paiono incartarsi su se stesse, di finire in giri un po'
banalotti, ma sono peccati veniali che si perdonano facilmente.
Altri pezzi non
brillano troppo per originalità: come “Mexican Vacation”, la
countrieggiante “Can't Stay Alone Tonight” e in parte anche “Take This
Dirty Water”, ma sono prodotti e suonati così bene che il loro
potenziale aumenta a dismisura.
Indubbiamente le
canzoni che fin da subito mi sono parse decisamente al di sopra di
tutto il resto, sia per ispirazione sia per la loro struttura, sono
“Oscar Wilde Gets Out” e “The Ballad Of Blind Tom”, ambedue
caratterizzate da un piano trascinante che ti entra in testa e non ti
abbandona più, con un accompagnamento ritmico leggero e mai
invadente, tutto il contrario di quello sentito live (Oscar Wilde) con
la vecchia e inadatta band, che giustamente Burnett non vuole mai in
studio di registrazione.
Il singolo ”Home
Again”, classica ballata eltoniana prende sempre di più dopo ogni
ascolto, come gli altri pezzi più classici e malinconici, “The New
Fever Waltz” e la ‘title track’ che chiude degnamente l'album con
un'atmosfera jazzata, che di solito non prediligo, ma che qui rende al
massimo.
Un discorso a parte
va fatto per il piano che finalmente pervade tutto il disco, come
dovrebbe sempre essere per un album che si rispetti di Elton
John. Un vero piano, fluido e cristallino, che i troppi concerti
con quel suono trattato e sintetizzato ci stavano facendo dimenticare,
un piacere per l'ascoltatore, che riscatta anche i pezzi meno validi,
come la troppo melodrammatica “My Quicksand”. Un piano che si inserisce
inaspettatamente anche nelle fasi più atipiche, non come eravamo stati
abituati con il solito stacchetto centrale a metà canzone, una
rivelazione.
Da vecchio fan di
Elton non posso che salutare “The Diving Board” come l'album della
definitiva rinascita su disco e rendere merito a Burnett di aver saputo
realizzare un progetto veramente ben riuscito. è stato capace di far
rendere al meglio le potenzialità dell'Elton John attuale con una
produzione assolutamente perfetta.
“The Diving Board”
non è certo “Tumbleweed Connection” o “Madman Across The Water”, certi
paragoni non possono reggere, ma è un gran bel disco per tutti coloro
che si ricordano chi è stato il vero Elton John.
|
di Jacopo Rocchi
The
Diving Board ha avuto su di me un effetto che mai nessun disco aveva
avuto: passare da un giudizio estremamente negativo ad uno
diametralmente opposto. La prima impressione fortemente negativa,
dovuta un po' (assai poco) alla scarsa qualità audio e un po'
(decisamente di più) ad aspettative sostanzialmente differenti rispetto
al prodotto finale, è stata spazzata via. Ma non subito. Ascolto dopo
ascolto, ogni strofa di Oceans Away ha dolcemente smussato il mio orecchio,
così come le onde del mare, quando si sta fermi sulla riva, ti fanno
affondare pian piano. Già, le mie aspettative. Forse ingenuamente mi
aspettavo un disco più selvaggio. Più rock. Così non è stato. Ed è
stato un bene, perché magari nel TDB che avevo in mente io Elton
avrebbe scimmiottato un modo di comporre, di suonare, di cantare che, è
bene tenerlo bene in mente, non può tornare più. Al posto della forza,
qui abbiamo l'intelligenza. L'estro ha ceduto il posto alla curiosità.
Il talento grezzo è evoluto in una classe che mai, ripeto, mai, avrei
pensato di ascoltare. TDB è un lavoro di classe, di intelligenza, di
curiosità, di voglia di sperimentare ancora. E' un lavoro che merita,
da parte di chi se n'è innamorato profondamente, come chi scrive, tanti
ascolti. Perché l'arte di Elton è talmente ricca che due orecchie e un
giro sul giradischi non bastano per apprezzarlo tutto. Come si fa con
pochi ascolti e poche parole, a commentare il pianoforte? Come si fa a
commentare i testi di Bernie? Come si fa a commentare Elton che
finalmente ha ripreso a cantare seriamente, senza sembrare un vecchio
crooner che canta per svogliati ubriaconi a Las Vegas (ovvero, la sua
metà, quella che non ci piace, ma che fa impazzire i gossippari di
mezzo mondo).
Non ho riportato una disamina di ogni canzone, perché sarebbe come
commentare ogni figura ritratta da Michelangelo sulla Cappella Sistina.
Stanno tutte lì. Eteree. A provare ad isolarne una si fa torto
all'insieme. Come fai, qui a parlare di Voyeur, della sua coda che
toglie il fiato, senza raccordarla alle atmosfere di Home Again che
vengono subito dopo? Come si fa a parlare del Dream #1, separandolo
dall'inquietudine di My Quicksand? Sicuramente il brano che meno si può
apprezzare con pochi ascolti. Sicuramente uno di quelli che cresce di
più.
Ecco tutto quindi. Una recensione con tante domande forse non è il modo
migliore di rispondere a chi mi chiedeva il mio parere. Ma tant'è. Ad
ogni ascolto, mi verrebbe da scrivere qualcosa di diverso. Chissà cosa
mi dirà tra qualche anno questo disco.
Per ora mi lascia un senso di leggera gioia. Grazie, Elton.
|
di Stefano Orsenigo
Anch'io sono rimasto delusissimo dai primissimi ascolti (nel sondaggio apposito non ho risposto, ma avrei detto 5
), per due motivi oltre alla cattiva qualità sonora: per colpa dei
raffronti ideali con 11-17-70 e Blue Moves mi ero immaginato un misto di
brani come Rock'n roll madonna, magari un po' meno selvaggi, e
melodrammoni stile Tonight, certamente meno "pompati".
Invece, eccomi
spiazzato da ritmi lenti e suoni scarni, con canzoni per nulla
immediate...quanto ho sofferto nel confronto con The Captain and The
Kid, che mi folgorò fin dal primo ascolto, quanto ho rimpianto Blue
Moves e i suoi sfrenati barocchismi, e lo dice uno che pensa che Elton e
"essenzialità" siano concetti agli antipodi...in fin dei conti è dai
tempi dell'album omonimo, se non addirittura da Empty Sky, che il
pop-rock di Elton tende al barocchismo, non abbiamo mai ascoltato un suo
album in studio DAVVERO scarno e minimale.
Invece, ascolto dopo
ascolto, mi sono innamorato di questo disco apparentemente moscio (che
differenza con la dirompente, sorprendente energia dell'ultimo Bowie!) e
in realtà raffinatissimo e toccante, e mi sono reso conto che le
intenzioni di fare un lavoro intimo e personale, senza tentazioni
commerciali e piacione, sono state realizzate in pieno, grazie a un
Elton (e un Bernie) in ottima forma e a un Burnett dal tocco magico,
fortunatamente privo di quel sentore di vecchio che in parte mi rovinava
il piacere d'ascolto di The Union.
Le canzoni sono tutte belle,
alcune bellissime, crescono ad ogni ascolto, non c'è nessun riempitivo
(a differenza di The Next Day, che poteva risparmiarsi 2-3 brani) e
finalmente Elton ci regala quelle atmosfere jazzate che tanto mi
piacciono e tanto sono mancate nella sua discografia: My Quicksand
(sempre più bella! per niente pesante) e la title-track, meravigliosa,
quasi ai livelli della mia adorata Idol. Insomma, sia nel suono che
nell'ispirazione c'è davvero aria di novità, mai di "già sentito". Il
miglior album da Captain Fantastic!!!!
Attualmente, volendo fare il punto sul periodo della rinascita artistica, direi:
Songs from the West Coast: 7/8
Peachtree Road: 6+
The Captain and The Kid: 7/8
The Union: 7,5
The Diving Board: 8
Migliore
ispirazione: TC&TK (perchè c'è il migliore equilibrio melodico tra
pop e cantautorato, e gli ultimi brani autenticamente rock, con la
parziale eccezione di Hey Ahab)
Migliore produzione: The Diving Board
Miglior suono: West Coast (un po' patinato e artefatto, ma è l'unico che ricorda il miglior Dudgeon)
Canzone più amata: Blues never fade away (se la sta giocando con The diving board)
Canzone più odiata: Electricity (Elton....BASTA MUSICAL !!!!!!!!!!!!!!)
Menzione
speciale a Good Morning to the Night: piaccia o non piaccia, ora anche
Elton ha un album di remix, e per di più originale e avanguardistico!
Sì, tutto sommato sono stati 12 anni più che soddisfacenti...e ancor non è finita!
|
di The Bridge
Premetto che ormai
l'ho ascoltato parecchie volte, quindi credo di essere abbastanza
obiettivo: questo album è un quasi capolavoro, come lo era stato The
Union.
Nel suo insieme
scorre magnificamente, con uno splendido suono (opera del produttore
Burnett, autore davvero di un lavoro fantastico), costituito com'è da
così tante belle canzoni, nessuna delle quali, a mio parere, superflua.
Certo, i gusti sono
personali, e quindi ci sono brani che possono più o meno piacere, visto
che vengono spaziati diversi generi musicali, ma la qualità compositiva resta altissima e l'interpretazione di Elton è notevole quasi dappertutto.
L'album comincia
alla grande con la semplicissima Ocean's away. Inizialmente
sottovalutata dal sottoscritto, devo ammettere che con l'andare degli
ascolti è divenuta uno degli assoluti pezzi forti di TDB: un pezzo che,
col suo coniugare la semplicità dell'incedere di 800$ shoes con le
tematiche di Gone to shiloh, raggiunge un bel 9 in pagella (da brividi
la seconda strofa dopo il ritornello, più volte menzionata anche da
altri, che cancella completamente la prima un po' troppo statica e
"legnosa").
I livelli restano
altissimi con la successiva Oscar Wilde, altro brano da 8,5 in pagella,
originale e con un riff al pianoforte strepitoso. Leggero calo, si fa
per dire, fino ad un 8-, per Jubilee, canzone non proprio
originalissima ed a mio parere penalizzata da un ritornello non così
eccezionale; da 10 assoluto invece il suono della chitarra. Blind Tom
risale fino ad un 8+, complice la sua andatura un po' ossessiva e
drammatica ed un Elton fantastico al pianoforte, precipua
caratteristica a dire il vero di tutto l'album. Bello il tocco dato dai
violoncelli, nella seconda parte del brano, che aggiunge al tutto una
"tinta" ancora più oscura. Arriva così il primo minuscolo pezzo
strumentale, dal piglio quasi chopiniano; pur essendo il meno preferito
dei tre intermezzi, è di assoluto valore sia preso di per sé stesso che
come funzionalità (deve introdurre la seconda parte di TDB, più statica
e melodica) all'interno dell'album: voto 8. My Quicksand, criticata dai
più, continua a rimanere un brano controverso che però ha il pregio di
crescere con gli ascolti; notevole il cambio improvviso di tempo a metà
canzone, di carattere squisitamente jazzistico: 8-. Il country che
segue (... alone tonight) è uno dei brani più convenzionali dell'album,
molto radiofonico e di facile ascolto. Gli preferisco decisamente
Jimmie Rodgers, da The Union; presenta però un bridge di carattere
quasi "spectoresque" che, almeno al mio palato, ne incrementa
notevolmente il potenziale: 8- anche qui.
Voyeur, accusata
anch'essa (abbastanza giustamente) di convenzionalità, è uno dei miei
brani preferiti. Inizialmente poco coinvolgente nel ritornello, con gli
ascolti è andata incrementando il suo appeal. Vi si ravvisa una
semplicità di ispirazione perduta da tempo nelle pieghe della troppa
melassa propinata negli anni 80 e 90, ed anche un carattere ad un tempo
"leggero" (nelle strofe) e drammatico (nel ritornello e nel fantastico
finale): 9-
Segue Home again,
alla quale a suo tempo diedi 8; voto che adesso porto ad 8,5. Dirty
water è un gospel senza troppi fronzoli che ha il pregio di vivacizzare
una parte a dire il vero un po' troppo lenta del lavoro (è
probabilmente questo l'unico difetto di TDB): voto 7,5. Il secondo
pezzo strumentale mi ricorda alcune composizioni di Schumann: mi piace
davvero tantissimo e non posso esimermi da dargli 8,5. Waltz è un bel
lento con una parte strumentale notevole; forse un po' troppo
"eltoniano" ha nella poca originalità il suo vero punto debole; bella,
invece, l'interpretazione di Elton in questa sua tipica "love song" che
a tratti rammenta Belfast: voto 8-
Mexican, il brano
successivo, è l'unico vero uptempo di TDB. Non particolarmente
eccezionale, ma fresco e allegro nel suo incedere, si merita un 8
(fantastico, ancora una volta, il finale). Il sogno n. 3 è un pezzo
strumentale fantastico, meno classicheggiante dei suoi fratelli e più
ancorato a stilemi da musica progressive anni 70, se non addirittura a
talune partiture d'avanguardia composte dai maestri del secolo scorso:
9. Infine arriva la title-track, il brano al mio orecchio più ostico
visto il suo carattere jazzistico (genere che onestamente non adoro). E
invece TDB è un altro pezzo forte dell'album omonimo, un brano
interessante sotto molti punti di vista (compresa l'interpretazione
vocale di Elton); probabilmente sarà quello che "sfiorirà" meno col
passare del tempo: 9-
Menzione speciale
per le tre outtakes dell'album, due delle quali a mio parere
"sacrificate" abbastanza ingiustamente (infatti continuo ad ascoltare
TDB in una mia personale versione completa anche dei 3 "scarti").
5th avenue è un
tipico lento eltoniano, molto orecchiabile ma anche ottimamente
composto ed interpretato, e con un testo davvero notevole: 8+ e a mio
parere singolo mancato dell'album.
Hollywood è l'altra
outtake notevole, di una freschezza che ricorda l'Elton degli anni
d'oro (al mio palato è il brano più anni 70 di TDB, con l'eccezione del
Dream n. 3) pur con i soliti distinguo legati alla voce attuale di
Elton: 8
Infine l'ultima
outtake, Candlelit, il brano meno interessante di tutto il lavoro, pur
condito con uno splendido assolo di chitarra: 7-
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di Mansfield
Elton John , l’importanza di tornare a casa. The Diving Board
Quando
all’inizio della scorsa estate (2013) ascoltai “Home again”, il primo
singolo in anteprima mondiale del nuovo album di Elton John, che sarebbe
poi stato pubblicato a settembre, mi venne un nodo alla gola e non
nascondo che qualche lacrima solcò il mio viso.
Probabilmente ad
accentuare questa emozione furono anche alcune situazioni personali,
trovandomi lontano da casa, in una Roma città matrigna e crudele per
certi versi, a dover prendere delle scelte difficili in poco tempo.
Quelle prime dolci e classicheggianti note di pianoforte inconfondibili
nel loro stile e accompagnate da un lieve sussurro (vento o sbatter di
onde che sia) stavano per dar voce e forma ad un sentimento che provavo
fortemente: tornare a casa.
Poi la voce del Sir iniziò a tuonare
decisa alcuni versi: “I’m counting on a memory to get me out of here”.
Home again. Casa dolce casa. Chi non ha mai provato una volta nella vita
ad affidarsi ai ricordi per poter, seppur in modo effimero e fugace,
assaporare e sentire profumi di un luogo così accogliente quale può
essere il proprio “nido” ?
Dove, con litigi e malintesi del caso, ci sentiamo sempre al rifugio dal mondo esterno.
Ma
la casa di cui parla il testo è anche una metafora a rappresentare
quella pace interiore che ognuno di noi, dopo tanti viaggi, esperienze,
delusioni , gioie e dolori, brama indubbiamente. La canzone,
minimalista, venne accompagnata da un video estremamente suggestivo in
cui il protagonista armato solo del suo bagaglio, attraversa mari e
monti assumendo sempre più le sembianze di un bambino. Un viaggio nel
tempo all’inverso. Perché in fondo, invecchiare è un po’ come tornare ad
essere bambini, stupirsi delle piccole cose e non badare più agli
orpelli inutili che caratterizzano solitamente una intera vita. Il testo
del brano si affaccia anche ad una visione da “sliding door”. Una breve
riflessione in cui i “se” e i “ma” alla fine hanno poca importanza. Ciò
che sarei potuto essere, ciò che invece sono, quel che avrei potuto
fare e che non ho fatto. Non importa. Voglio solo tornare a casa.
“If I’d never left I’d never have known,
We all dream of leaving but wind up in the end
Spending all our time to get back home again”.
E’
proprio vero. Si vuol fuggire, si vuol evadere per poi rendersi conto
che, ad un certo punto della nostra vita, non vogliamo far altro che
tornare indietro.
Il brano poi offre un bridge strumentale
estremamente toccante in cui il piano si sposta verso i confini della
musica classica per certi versi. Non una novità nella sua produzione se
ripensiamo a brani come Tonight(1976) o Carla-Etude (1981).
Tutto
questo offriva l’anticipazione del nuovo album che avrebbe visto la
produzione del grande T-Bone Burnett, già produttore dell’acclamatissimo
album “The Union” del 2010, album suonato a quattro mani da Elton John e
Leon Russel.
Il disco “The diving board” raggiunge gli scaffali
dei negozi nel settembre del 2013. Acclamato dalla critica, debutterà al
numero 4 della classifica degli album più venduti negli USA (posizione
più alta dal 1976 per un disco solista di Elton John) e al 3° posto in
Inghilterra.
Un album minimalista, molto acustico che sotto la
supervisione di Burnett vede la collaborazione di musicisti di grande
spessore come ad esempio Jay Bellerose (batteria), Raphael Saadiq
(basso), Keefus Ciancia (tastiere).
Un disco americano (con
Burnett alla produzione non poteva essere altrimenti) in cui il gospel
ed il country sono i pilastri portanti. Ad onor del vero già nel 2004
Elton aveva provato un discorso simile con l’album Peachtree road ma con
risultati non paragonabili a The diving board per via di una produzione
imperfetta e non omogenea.
The diving board è un disco che,
oltre ad essere suonato magistralmente da tutti i musicisti coinvolti,
fa leva su dei testi, sempre scritti da Bernie Taupin, molto ispirati in
cui prendono vita personaggi e storie variegate. Il tutto intervallato
da brevi strumentali pianistici denominati Dreams. Tra i brani del disco
svettano su tutti ad esempio “Oscar Wilde gets out” con un riff di
piano azzeccato (di quelli che ti rimane in testa sin da subito), in cui
si narrano le vicende del poeta inglese, marchiato dalla società dalla
Corona Britannica come “peccatore”, vittima non solo del sistema ma
anche di quella “bellezza” pronta a sfruttare il malcapitato di turno
per il proprio tornaconto, vittima dell’amore stesso che non risparmia
nessuno sotto le frecce del proprio Cupido.
“Looking back on the great indifference,
Looking back at the limestone walls.
Thinking how beauty deceived you,
Knowing how love fools us all”.
Il
brano di apertura del disco, “Oceans away” è forse il più struggente
che tratta il tema delle vittime ma anche dei sopravvissuti alle guerre
mondiali. Tema già trattato nell’eccelsa “Talking old soldiers”
contenuta nell’album capolavoro “Tumbleweed connection” del 1970. Questo
è probabilmente il brano di maggior impatto emotivo dell’intero disco
ed uno dei brani più struggenti dell’intera carriera di Elton.
“Hung on every recollection in the theatre of their eyes,
Pickin’ up on this and that in the few that still survived”
“Aggrappato ad ogni ricordo nel teatro dei loro occhi,
carpendo un po’ di questo e un po’ di quello dai pochi sopravvissuti”.
In
un’era in cui i media sono letteralmente vetrine massime del superfluo e
del nulla dovremmo probabilmente prestare attenzione a chi ha qualche
storia “vera” da raccontare.
In una dimensione attuale e odierna mi vengono in mente i sopravvissuti ai campi di concentramento nazista.
Come
“candele al vento” si spengono ormai una dopo l’altra, andandosene nel
totale silenzio, portandosi con loro nella tomba la propria storia che
nessuno ha più voglia di ascoltare.
Forse questa società moderna ha talmente tanta paura di affrontare le proprie responsabilità che preferisce rimaner sorda.
“Call’em up, dust’em off, let’em shine.
The ones who hold onto the ones they had to leave behind
Those that flew, those that feel, the ones who had to stay
Beneath a little wooden cross, oceans away”
Versi estremamente forti.
“Chiamali, spolverali e falli risplendere.” Ascolta la loro storia.
Coloro
che son qui grazie a coloro che rimasero indietro e dei quali non
rimane altro che una piccola croce di legno piantata a terra.
“Sleeping bones dressed in earth” – “Ossa che dormono rivestite di terra”.
Altro brano, che spacca a metà i fans (chi lo ama e chi lo detesta), è “My Quicksand” (Le mie sabbie mobili).
Io
mi ritrovo nella prima categoria avendo amato sin da subito l’atmosfera
decadente e onirica interpretato alla maniera dei grandi “chansonnier”
francesi in stile Aznavour.
My Quicksand è un brano che parla di uno stato mentale piuttosto che fisico.
Si
può cercare quella pace interiore (torniamo a Home again) ovunque,
percorrendo e abitando qualsiasi metropoli del mondo. Il risultato sarà
vano perché il punto da cui partire (ed il punto di destinazione) è noi
stessi.
“I’m going down,
You and me together going down
[…] When you least expect it you can drown in quicksand”
Sprofondiamo, io e te (la propria parte rimasta ancora lucida ? la propria coscienza?).
Quando meno te l’aspetti puoi annegare nella sabbie mobili.
La mobilità in perfetta antitesi con la staticità mentale.
Uno stato di movimento fisico (sprofondare) contrapposto all’impossibilità mentale di superare il “trauma”.
“A
town called Jubilee” invece fa venire in mente la comunità religiosa
degli Amish. I protagonisti della storia Lilly, Jack ed il loro cane si
imbattono in una sorta di Messia che li i invita durante un loro
viaggio, predestinati già al cambiamento, a spogliarsi di tutto e
seguirlo in una città chiamata “Jubilee”. La fervida immaginazione di
Bernie Taupin realizza un testo che non avrebbe sfigurato in un album
come “.“Madman across the water.
Il disco poi passa da atmosfere
country (Take this dirty water, Can’t stand alone tonight) al brano che
chiude il disco e che da il nome all’intero progetto The Diving board,
ballata jazz in stile anni ’40.
Un disco raffinato, maturo e di classe che poco ha a che vedere con l’Elton popstar degli anni ’80 e ’90.
Chi si aspetta la ballata sdolcinata e romantica rimarrà deluso.
The
Diving Board è un album da considerarsi la ciliegina sulla torta di un
percorso artistico (indirizzato verso le proprie origini musicali dopo
due decadi di pop music) iniziato da Elton John nel 2001 con l’album
Songs from the west coast e il capitolo finale della trilogia americana
(come amo definire io) composta da due precedenti Peachtree road (2004)
eThe Captain & the kid (2006).
E’ un capolavoro degno dei capolavori degli anni ‘70? Non lo sappiamo ma forse neanche saremmo in grado di stabilirlo.
Come
dice bene un mio amico e giornalista, Massimo Del Papa (“penna
rovente”) siamo talmente bombardati dai mass media e dalla società che
non potremmo neanche capire se ci troviamo di fronte ad un capolavoro
oppure no. Tanto si sa.. i dischi di oggi vivono al massimo due mesi.
Avanti il prossimo.
Intanto rendiamo grazie a sua maestà Elton John per questo grande disco.
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© badsideofthemoon
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