Intervista di Massimo Cotto per la trasmissione di RADIO 2 Hobo
trasmesso dal 24 al 28 settembre 2001
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Il nuovo disco è, per certi versi, un ritorno al passato, a “Tumbleweed
connection” e “Madman across the water”. È stato uno sforzo consapevole?
Non volevamo tornare al passato, ma creare una semplicità diversa rispetto
agli ultimi dischi. Una semplicità che si basasse sul pianoforte, che è
presente nei dischi recenti ma non in modo così massiccio. Pianoforte, basso
e chitarra registrati in analogico, canzoni dalla struttura semplice: così
siamo partiti; poi, visto che il risultato era soddisfacente, abbiamo
continuato. Siamo entrati in studio con 20 canzoni, ne abbiamo registrate 18,
affinando molto il senso critico. L’anno scorso Bernie Taupin mi ha raggiunto
nella mia casa di Nizza e lì abbiamo convenuto che la cosa migliore sarebbe
stata realizzare un album di musica e di semplicità, traendo spunto da alcuni
show per solo pianoforte, come quello di Lucca, due anni fa. I miei fans
chiedevano da anni più pianoforte e meno sintetizzatori. Li ho accontentati.
Il suono rimanda dunque agli anni Settanta, in qualche modo. Sono contento
che tu la pensi così, perché i miei dischi dei Settanta erano davvero grandi
dischi.
Quanto ti è dispiaciuto l’insuccesso di “The road to Eldorado” e di
“Aida”, da cui ti aspettavi molto di più?
“Aida” ha avuto grande successo a Broadway. L’album è uscito molto tempo
prima e non è andato così bene, a parte Le Ann Rimes. C’erano alcune cose
buone, come le presenze di Sting e Tina Turner. Il disco è stato penalizzato
da una pubblicazione poco lungimirante, troppo in anticipo sui tempi, e che
non ha saputo sfruttare il successo teatrale. Anche la musica di “The road to
Eldorado” non era male: peccato che il film fosse bruttino, cosa che chiunque
alla Dreamworks ha ammesso; e quando un film è inferiore alle aspettative, la
musica non fa la differenza. Non tutto il male è venuto per nuocere, perché
in quell’occasione ho conosciuto Pat Leonard, un tastierista che ho sempre
ammirato per il suo lavoro con Madonna, Jewel e Roger Waters. Quando gli ho
chiesto di produrre il mio nuovo disco, è stato lui a farmi capire che ero
sulla buona strada: “Devi tornare alla semplicità di un tempo e al
pianoforte, perché è questo che la gente vuole da te”. Pat è stato bravissimo
nel farmi da specchio. Un artista ha bisogno di confrontarsi con qualcuno che
veda le cose con un maggior distacco. In genere, quando sono convinto di aver
terminato una canzone, chiamo Bernie e il produttore e la eseguo, per la
prima volta finita, davanti a loro. E Pat mi dava ottimi consigli,
chiedendomi magari di anticipare il ritornello. Sono i vantaggi di avere un
produttore musicista. Il disco è stato registrato a cavallo del Natale del 2000, in due tranche e
in due studi diversi, con otto musicisti. Nessun computer, nessuna
sovrapposizione vocale. Splendido.
A Los Angeles, nel 1994, dopo un concerto per la Elton John Aids
Foundation, mi hai detto che la felicità e la tristezza nella tua vita
privata raramente influenzano le tue composizioni. Questo disco, tuttavia,
pare una buona fotografia del tuo presente: malinconico, un po’ deluso e
frustrato, ma anche coraggioso e forte.
Almeno un paio di canzoni di questo album sono come dici: “Ballad of the boy
in the red shoes” e “American triangle”, dedicata a Matthew Shepperd, il
ragazzo omosessuale ventunenne ucciso a Laramy. Ho suonato nella sua città,
incontrato i suoi genitori, cercato di capire la sua vita. È stata, quella,
la prima canzone che ho scritto. Io dò il meglio di me nelle canzoni tristi.
“Birds” è un altro esempio. Ma, in questo disco, ho voluto lavorare sulla mia
forza e non sulle mie debolezze.
Rivisiti il passato con regolarità o episodicamente?
Non vivo nel passato. Non ascolto i miei vecchi dischi, non ascolti i vecchi
dischi degli altri. Mi lascio influenzare da nuovi artisti. La mia guida
spirituale per il nuovo album è stato Ryan Adams con il suo album pubblicato
l’anno scorso, “Heartbreaker”. Leggendo le note di copertina, scoprii che era
stato registrato a Nashville in due settimane e pensai: “Anch’io facevo così,
un tempo. Potrei farlo un’altra volta”. Ho voluto incontrare Ryan, ed è la
prima persona che devo ringraziare per avermi ricordato il meglio di me. È
paradossale, ma i nuovi artisti del presente mi ispirano a tornare al mio
passato. Amo la tecnologia, ma a volte essa ti distrae e porta fuori strada.
Quando abbandoni il pianoforte per il sintetizzatore, devi stare attento a
non deragliare, perché poi tornare in carreggiata è dura. Io rimarrò fedele
al vecchio pianoforte.
In “This train don’t stop there anymore” canti: “Tutto quel che ho detto
nelle canzoni / la mia prosa ricercata / non ha mai significato molto per
me”. Pensi che gli ascoltatori possano farsi un’idea giusta di Elton John
attraverso le sue canzoni, arrivando a conoscerti veramente?
No, non credo. Il mio cuore e la mia anima sono nascosti tra le pieghe della
musica, che è però più difficile da leggere e trovare. Amo cantare i testi di
Bernie Taupin, perché non so scriverne e perché leggere le sue parole ispira
la mia musica. No, non credo che la gente possa capire chi sono e come sono
attraverso le mie melodie.
Sempre in quel 1994,
mi dicesti che a volte condividi completamente quel
che Bernie scrive, altre volte no. Questa volta, pare quasi che sia stato tu
a scrivere le canzoni per intero, visto che vestono bene i tuoi stati
d’animo.
Mi identifico in quasi tutte le canzoni del nuovo album, è vero, a partire
dal primo singolo “I want love”, che oggi non mi appartiene più, ma che
sembra disegnato sulla pelle dell’uomo che ero dieci o undici anni fa, prima
di disintossicarmi. Ero disperato, volevo fortemente una relazione seria, ma
al tempo stesso la rifiutavo, concentrandomi su storie di poco conto. Ne
avevo paura. Come dicevo in una strofa, “ero un uomo che si sentiva morto in
luoghi dove gli altri uomini si sentivano liberati”, disprezzavo l’amore
pulito e normale ma temevo di subire un’altra scottatura se fossi rimasto sul
“lato selvaggio” della vita. L’unica canzone che non sento completamente mia
è “Mansfield”, che racconta del luogo dove Bernie e sua moglie s’incontrarono
dieci anni fa. Ma lei la conoscevo bene, dunque è come l’avessi scritta io.
Bernie mi ha dato 70 testi, ho musicato quelli che avrei voluto scrivere io
stesso. Non mi sarei accontentato, stavolta, di testi obliqui e oscuri;
volevo fossero passionali e appassionati, con un filo rosso di determinazione
che attraversa tutto il lavoro. C’è un senso, nel cammino. Il primo brano è
“The Emperor’s new clothes”, dove si racconta di me e di Bernie agli inizi,
quando scommettevamo sulle nostre vite e sui cavalli e vivevamo come se la
notte non dovesse finire; l’album si chiude con la fine dell’ultimo
matrimonio di Bernie.
Il video di “I want love” è un unico piano-sequenza, senza tagli.
Per molti anni ho odiato i videoclip, e non ne ho fatto mistero con la
stampa. Ma, quando ho visto agli MTV Awards il video di Fatboy Slim con
Cristopher Walken, mi sono ricreduto. Così ho pensato a un racconto maturo,
con l’assenza mia e la presenza di un attore. Dopo aver scartato un paio di
ipotesi, mi sono ricordato di Robert Downey, con il quale ho passato molto
tempo a parlare e conoscerci, dopo un mio concerto a Los Angeles, in
febbraio. Anche lui ha conosciuto i miei stessi demoni, attraversando le
stesse lande. Dieci anni fa ho toccato il punto più basso della mia
esistenza, come tutti sanno. Lui era il personaggio ideale per portare sullo
schermo la mia storia. Robert ha accettato con piacere. Dopo 16 tentativi, è
arrivata la versione buona. “I want love” è un video che ha la stessa
maturità del disco, per nulla adatto al pubblico adolescenziale. È il lavoro
di un adulto di 54 anni. Curiosamente, è piaciuto molto. Attualmente è il
terzo video più trasmesso da Mtv America, evento che, nella mia carriera, non
ho mai avuto il piacere di sperimentare. Erano secoli che Mtv non metteva in
rotazione un mio video. È un’opera d’arte, non solo un video: per questo
piace. Se realizzerò altri video, saranno tutti su questa falsariga,
inseguendo questa maturità.
Francois Truffaut diceva che i film sono come la vita, ma senza tempi
morti e senza ingorghi. Avanzano come treni nella notte. Che cosa sono le canzoni?
Non ci penso spesso, perché le canzoni sono un accidente della mia vita.
Penso ad esse come a momenti che attraversano la mia esistenza, ma non ne
rappresentano la totalità. Se componessi musica ogni giorno, diventerei
matto. Lavoro una volta l’anno e poi lascio depositare la mia musica affinché
sedimenti. Il problema dell’artista, non solo del musicista, è che è
costantemente proiettato in avanti. I pittori dipingono tele e le buttano in
soffitta, perché pensano al quadro successivo. Così chi fa musica. Le canzoni
sono importanti, come veicolo che trasmette le mie emozioni - come potrei
comunicare con la gente, altrimenti? - ma non sono tutto. Se lo fossero,
vorrebbe dire che nella mia vita c’è qualcosa che non funziona. Solo da
qualche anno sono riuscito a raggiungere un equilibrio tra vita privata e
lavorativa. Ho una vita divertente: mi dedico alla casa, colleziono
fotografie, guido la fondazione contro l’Aids, possiedo la mia squadra di
calcio, scrivo musical e colonne sonore per film hollywoodiani. Mi tengo
impegnato. Cosa potrei volere di più? Il mio amico Gianni Versace mi
raccomandava sempre di assorbire la bellezza della vita come fossi una
spugna: mi mostrava come scoprire la meraviglia nelle chiese, in strada, in
campagna. Assorbire la bellezza e trasformarla in arte. Questo faceva lui,
questo cerco di fare io.
Da piccolo, quando i tuoi genitori litigavano, suonavi il pianoforte per
fuggire la realtà. La musica è ancora un veicolo di liberazione e catarsi?
Fuggivo nella mia stanza per ascoltare dischi o la radio, non solo per
suonare il piano. Da quando ho tre anni, la musica è la mia compagna di vita,
mia moglie, la prima fidanzata, il mio primo fidanzato. Nei momenti di dolore
e peggior tristezza, mi ha accompagnato e, nei limiti del possibile, suturato
le ferite. Non oso pensare che cosa sarebbe stata la mia vita senza la
musica. La prima cosa che faccio, la mattina, prima di entrare sotto la
doccia è accendere la radio. E così in macchina o a casa, il pomeriggio. La
musica è mia compagna per la vita.
In “Look ma, no hands” giochi sul fatto di essere sul tetto del mondo.
Pensi che il successo ti abbia viziato, nutrito, aiutato, danneggiato?
Un po’ di tutte queste cose. Mi ha ispirato e aiutato a incontrare persone
meravigliose, ma mi ha anche reso egoista, intrattabile e insopportabile,
perché pensavo che tutto mi fosse concesso. Il successo mi ha condotto a
tutte le sensazioni ed emozioni proprie dell’animo umano. Non diventerò mai
un lavorodipendente, un tossico del lavoro che se ne lascia assorbire a tempo
pieno; ma è indubbio che il successo dia dipendenza. E’ difficile farne a
meno, anche perché porta con sé denaro e benessere. Il successo, tuttavia, ti
trasforma in un mostro. La maggior parte degli artisti lo sono. Ho
sperimentato tutto e lo sperimento ancora, ogni giorno. La mia vita è stata
una bellissima, surreale corsa sulle montagne russe, densa di riconoscimenti
e ricompense che, però, solo ora che sono disintossicato sono in grado di
apprezzare. Ci sono stati tempi in cui il mio naso era così assuefatto alla
cocaina che non ero nemmeno in grado di sentire il profumo di una rosa. Oggi
sto bene e mi godo la vita.
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Hai sempre detto che alcol e cocaina hanno danneggiato la tua creatività;
altri artisti la pensano in maniera drasticamente diversa, e sostengono che
l’eroina allarghi le porte della conoscenza e della coscienza. Dipende dal
differente tipo di droghe o dal differente tipo di idea?
Entrambe le cose. Ho conosciuto molti artisti che componevano meravigliosamente
sotto l’effetto della droga: i Beatles e Jimi Hendrix, per esempio. Non mi
sono mai fatto di eroina, per cui non posso giudicare. La cocaina mi dava
eccitazione, esaltazione, gioia: mai voglia di scrivere musica. Non ho mai
scritto una canzone sotto l’effetto della droga. La gente metabolizza le
droghe in modo diverso, siano marijuana, cocaina o eroina. Il danno peggiore
che mi ha provocato la droga è stata l’illusione che il mio lavoro, in quel
periodo, fosse davvero valido. Va detto, tuttavia, che è stata una fortuna
che io abbia continuato a suonare. Non l’avessi fatto, ora sarei morto,
perché avrei passato tutto il tempo a sniffare. Sono andato in tour ogni
anno, e ogni anno sono salito sul palco... anche se non ricordo niente di
quel che sul palco ho fatto!
In “Birds” canti: “Questi giorni sono diversi da quelli di un tempo / i
riflessi cambiano nello specchio”. Che cos’è cambiato, da allora, in meglio e
in peggio?
In peggio, nulla. Da quando ho superato la boa dei cinquant’anni, sono felice,
forse anche da più tempo: diciamo da otto o nove anni. Solo l’insuccesso di
“Aida” mi ha disturbato. Io sono cambiato molto, anche nelle piccole cose: ho
smesso di lamentarmi e mi sono domandato perché la gente, quando deve parlare
di me, parli della mia vita privata e non della musica: le mie abitudini
sessuali, la mia omosessualità, i miei amanti, il calcio, la fondazione
contro l’Aids, David. Forse la mia musica non era all’altezza, mi sono detto.
E ho lavorato sul disco nuovo. Sono ansioso che piaccia, perché se così non
sarà, non sarà mai. Non posso fare meglio di questo, ne sono certo. I
riflessi cambiano nello specchio, ma non rinnego il passato, perché i miei
errori mi hanno portato qui. Non sarei arrivato così lontano se non avessi
attraversato queste terre di desolazione e abbrutimento.
È difficile imparare dai propri errori. Tutti dovremmo farlo, ma non
sempre riesce.
È possibile. Solo riflettendo sui miei sbagli, sono riuscito a trasformarmi
da quel che ero – un alcolizzato che passava la notte a bere, e un tossico
che consumava quantità sconsiderate di cocaina, tanto che perfino George
Harrison, una volta, mi raccomandò di andarci piano – in un essere umano. Ho
imparato ad ascoltare, a seguire i consigli della gente, a pensare che non ero
l’unico depositario della verità, ammesso che qualcuno possieda questo dono;
ho imparato a chiedere scusa e a chiedere aiuto. Il drogato tarda a
disintossicarsi perché è convinto di essere in grado di venirne fuori da
solo. La droga devasta anche le persone intelligenti, e sono soprattutto loro
quelle che vorrebbero venirne fuori e non riescono. Quando stavi bene, sapevi
di essere forte, con una forza di volontà tale da sradicare un albero. Io
pensavo: hai scalato fino alla cima ogni gradino, sei diventato qualcuno,
vuoi non essere capace di lasciare la cocaina? E invece ho dovuto chiedere
aiuto. E ho capito che la qualità migliore della vita è la sua mutevolezza.
La vita ti costringe a cambiare giorno dopo giorno, adattandoti, facendo
tesoro delle tue esperienze ma, a volte, facendoti capire che tutto quel che
sai non servirà a salvarti la pelle. Ti devi reinventare continuamente. Nei
primi tre anni di disintossicazione, mi imposi di ascoltare tutti e valutare
le loro parole, anche quando non ero affatto d’accordo. Ma i miei compagni di
disavventura avevano già attraversato quel momento, quella fase, e sapevano
che cosa serviva e cosa no. Tu puoi cambiare. Il problema è che molti pensano
di non volere, dicono: “Sono fatto così: se sono arrivato a 50 anni in questo
modo, pretendi di cambiarmi ora?” Invece è possibile, per il bene di tutti.
Anche di chi ti sta vicino. Io ho rovinato la vita delle persone che amo, per
un certo periodo. Mia madre mi odiava, i miei amici mi evitavano: ero
arrogante e insopportabile. Cambiare mi ha aperto a nuove esperienze, e
questo lo trovo fantastico.
Qual è la tua più grande paura?
Che questo album non venda bene. Ho ricevuto molti complimenti che credo
sinceri, e voglio essere sincero anch’io. Sarei un bugiardo, se dicessi che
non m’importerebbe se la gente non apprezzasse e comprasse l’album. Ho fatto
del mio meglio. Non voglio fare progetti, semmai scongiuri.
E la più grande speranza? Uno dei versi della canzone che chiude l’album
dice: “Non credo più ai miracoli”. Quale sarebbe, un buon miracolo?
Che
finisse questa assurda guerra dietro l’angolo di casa mia, nell’Irlanda del
Nord, dove i bambini non possono andare a scuola e protestanti e cattolici si
odiano e ammazzano. L’odio, mi fa male ammetterlo, nasce in famiglia, trasmesso
dai genitori, che ti spingono a credere in quello in cui loro credono. L’ho
vissuto in prima persona, con mio padre, che ha cercato di trasferire in me
tutte le sua frustrazioni e il suo odio per la diversità. I figli non possono
essere il golem dei padri, la copia carbone; sono sangue dello stesso sangue,
ma non possono essere cervello del medesimo cervello. Mi auguro che nessun
padre si comporti come il mio, ma a Belfast i genitori sono responsabili
della trasmissione genetica dell’odio e della vendetta. Il miracolo sarebbe
ridistribuire le possibilità di sopravvivenza tra le persone, la libertà e il
rispetto, al di là del credo religioso e del colore della pelle. Ma credo di
essere uno stupido idealista. Non cambierà mai nulla.
Perdere molti amici (di Aids, per violenza o in incidenti) ha alterato il
tuo rapporto con la vita e con la morte?
Vivo con intensità e pienezza, come ben sai se leggi i giornali. Rubo la
felicità a ogni singolo giorno, in attesa di sapere quando arriverà il mio...
spero il più tardi possibile. Sono in ottima salute, ogni anno mi sottopongo
a check up completi, l’ultimo dei quali a Los Angeles, ma non puoi mai
sapere. Non ho paura di morire, semmai di non vivere. Non vorrei morire
ucciso sulla porta di casa, com’è capitato a John Lennon e a Gianni Versace.
Odio il destino quando porta via qualcuno nei suoi anni migliori e con
inaudita violenza.
Piangi spesso? Piango in continuazione. Quando vedo film tristi o
ascolto musica malinconica o splendida. Non riesco a sentire le “Variazioni
Enigma” senza commuovermi. Piango davanti a una fotografia, a un quadro.
Piango molto, forse troppo. Ho versato fiumi di lacrime sul finale di “Billy
Elliott”, per quel rapporto padre-figlio che mi ha ricordato da vicino il
mio. Amo le lacrime.
In “The wasteland” canti: “Avanti, Robert Johnson / anche se apparteniamo a
mondi diversi / entrambi sappiamo che cosa voglia dire / avere il demonio nel
cuore”. È stato difficile?
Molto. Ogni artista porta dentro sé la mostruosità e l’autodistruzione, l’egotismo
e la follia. È dentro di lui in quanto diverso, perché ogni artista vero vive
e affronta il mondo diversamente, ma anche perché il successo ferisce e, a
volte, uccide. È difficile liberarsi dei demoni dell’arte: la paura,
l’insicurezza, l’isolamento. Ma, col tempo, ho acquistato l’ottimismo che a
volte mi aveva abbandonato. Penso positivo, almeno fino a quando uscirà
l’album.
Una volta hai detto che i musicisti non valgono più di tre righe in
un’enciclopedia, una sorta di invito a non prendersi troppo sul serio. La
pensi ancora così?
Certamente. Non siamo poi così importanti, nel grande disegno. Sono felice
che la mia musica trasmetta emozioni, tocchi il cuore della gente, commuova o
dia gioia, entusiasmi o faccia divertire, ma evito accuratamente di pensarci.
Potrebbe darmi uno stupido senso di onnipotenza. Ricevo lettere commoventi di
persone, famose o sconosciute, alle quali la mia musica ha dato molto. Le
leggo, ringrazio Dio del dono che mi ha dato, ma poi, subito, dimentico. E’
troppo pericoloso vivere convinto di essere Dio. Ho una casa in Inghilterra,
una in Francia e una a Venezia. Sono fortunato a vivere in Europa. Vivessi in
America sarebbe molto diverso, perché lì gli artisti vengono costantemente
esposti all’adulazione, che rende irreale la tua esistenza. In Inghilterra, è
l’esatto contrario: la stampa ti attacca in continuazione, ma preferisco
difendermi dalle calunnie che dall’adulazione, perché le prime le posso
smentire con i fatti. Non mi interessa entrare in un’enciclopedia, meglio
entrare nella gioia della vita di tutti i giorni.
È vero che stai lavorando a un film sulla morte di Papa Luciani, dal libro
di David Yallop “In God’s name”?
Non più. Nessuna casa cinematografica ha avuto il coraggio di accettarlo.
Peccato, è un grande libro.
Una tua canzone ha per titolo “Someone saved my life tonight”. Una bella
peculiarità della musica è la capacità di salvare la vita alle persone,
spesso metaforicamente, a volte anche nella realtà. Chi ha salvato la tua
vita, musicalmente e personalmente?
Quando mi drogavo, nel periodo peggiore, ovvero quando ero perfettamente
consapevole di dove stavo scivolando, una canzone mi è servita a resistere:
“Don’t give up”, di Peter Gabriel e Kate Bush. La ascoltavo e continuavo a
ripetere ad alta voce: “Non mollerò, non getterò la spugna”. Il problema era
che non sapevo come, in che modo abbandonare quel buco in cui ero
precipitato. Poi ho capito; avrei dovuto chiedere aiuto: dire “I need help”,
poche parole per convincermi che dovevo farmi aiutare. Non avevo mai avuto il
coraggio di dirle. Ho cominciato a disintossicarmi subito dopo averle
pronunciate. Non dimenticherò mai quel brano, dall’album “So”, di Peter
Gabriel. Ogni volta che permettevo alla situazione di abbattermi, ogni volta
che pensavo che questa vita non valesse nulla, mettevo su “Don’t give up” e
mi convincevo che sì, ne vale la pena. Ancora adesso piango, quando la sento.
Kris Kristofferson ha detto che, sulla sua bara, vorrebbe una strofa di
“Bird on the wire” di Leonard Cohen; Cohen, a sua volta, ha detto di
preferire “It ain’t me, baby” di Dylan, forse perché dice ‘Non sono io,
piccola’. Quale verso di canzone vorresti sulla tua bara?
Il numero della mia carta di credito!
Massimo Cotto
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