da La Stampa del 20 ottobre 2010
Elton John: il pop?
Oggi è tutto uguale
La star: la vera musica non abita nei talent show
ANDREA MALAGUTI
CORRISPONDENTE DA LONDRA
Perché il suo non sembrasse il lamento inevitabile
di una stella della musica che comincia a sentire il peso dell’età, il
Cavaliere dell’Impero britannico Elton Hercules John, 63 anni e 350
milioni di dischi venduti nel mondo, impegnato in questi giorni nella
realizzazione di un musical sulla Fattoria degli animali di Orwell - e
magari influenzato anche un po’ da quello - ha cominciato spiegando a Radio Time Magazine che
a lui Lily Allen, Lady Gaga e Amy Winehouse, idolatrate regine
dell’oggi, piacciono moltissimo. Però poi, girato l’angolo, non è che
si trovi tanto. Certo, ci sono American Idol o X Factor, ma i talent
show, a dire la verità, lo annoiano a morte. La tv prende i ragazzi per
strada, li butta sul palco davanti a un pubblico da corrida e mette
loro in mano una canzone dei Queen. Se lì per lì funziona, li tiene
sotto i riflettori per un anno. Quindi fine della corsa.
«Ma che
fine faranno Leona Lewis o Alexandra Burke, senza qualcuno che scriva
testi per loro?». E sopratutto dov’è finita l’arte? «I talent show fanno
spettacolo. Bravissimi. Ma la musica non abita lì. Anche Susan Boyle è
un fenomeno accattivante, ma credo che non abbia nessuna idea delle
vere difficoltà dello showbusiness». Avvisata. Perché la sepoltura del
Golem fosse completa, Sir Elton ha anche aggiunto che i testi delle
nuove canzoni gli sembrano «piuttosto brutti, omologati, tanto da far
sembrare i pezzi tutti uguali. Manca l’ispirazione». Non come ai suoi
tempi. Ma questo si è ben guardato dal sottolinearlo.
Quando iniziò
lui, in ogni caso, il suo paroliere si chiamava Bernie Taupin e nella
vita, oltre a scrivere canzoni per entrambi e per se stesso, faceva (lo
fa tuttora) il poeta. Un uomo romantico, che si è molto innamorato.
Nell’ottobre
del 1969, ad esempio, quando si presentò a casa di Elton John aveva
l’adrenalina alle stelle e gridava: «Io adoro quella ragazza». Si
infilò una mano in tasca e tirò fuori un pezzo di carta. «Ho scritto
questo: it’s a little bit funny this feeling inside, I’m not one of
those who can easily hide». Era Your Song. Elton John mollò il
caffé sul tavolo e si mise al pianoforte. Per comporre la musica gli
bastarono poco più di dieci minuti. Venne fuori un capolavoro. «Beh,
cercavo una canzone dolce, era mattina e io non volevo risvegliare Ben
dal torpore amoroso in cui era caduto». Semplice no? Solo se sei nato
con una scintilla rara e ci hai lavorato molto sopra. «How wonderful
life is, while you’re in the world».
In quegli anni il sacerdote
indiscusso del piano rock aveva passato molte notti nei club di Londra.
Perché non c’era altra strada, ma soprattutto per vedere le facce
degli esseri umani, per sentirne gli odori, vedere le loro reazioni da
vicino, «respirare la vita».
In questo viaggio tra le
vibrazioni notturne gli capitò di incontrare uno strano cantante blues
con la voce profonda. Era bello, apertamente gay e alto due metri. Si
chiamava John Baldry e gli amici lo avevano ribattezzato Long John. Il
suo singolo, Let the Heartaches Begin, nel ‘67 dominò le
classifiche inglesi, ma per gente come Rod Stewart e Paul McCartney,
Long John era un mito da tempo. Elton John, che suonò nel suo gruppo,
lo considera uno spirito guida. «Mi ha insegnato molto. Se non fosse
per lui sarei una persona diversa, se non avessi girato molto per
locali notturni non avrei mai trovato la mia musica. Di certo non
l’avrei trovata in tv». Quella paralizza il cervello, lancia carriere
finte, ti convince di avere un’anima, ma se ti siedi e ti metti a
cercarla trovi solo un buco nero e allora ti spegni, come una candela
nel vento.