le recensioni di Max (10)
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Empty Sky
(2012)
Un recensore avveduto e saggio che si trovasse oggi a scrivere
dell’album d’esordio di Elton John non potrebbe esimersi
dall’evidenziare come questo Empty Sky, per quanto acerbo e
confusionario, ci mostri i germogli del leggendario futuro che avrebbe
atteso l’artista.
L’onesta realtà è ben diversa. 1969. Esordiscono Led Zeppelin e Crosby,
Still & Nash con gli omonimi album; si pubblicano dischi come Abbey
Road dei Beatles, At San Quentin di Johnny Cash, Bookends di Simon
& Garfunkel; le radio diffondono le sonorità extraterrestri di
Space Oddity e i media narrano di Woodstock e del Festival dell’Isle of
Wight. Messo lì accanto a certi mostri sacri dell’epoca, per quanto
lieve e mai disprezzabile, impallidisce apparendo modesta opera di un
autore poco geniale, per nulla innovatore e spesso maldestramente
impegnato ad attingere altrove.
Credo che allora gli avrei concesso solo un paio di distratti ascolti.
Il paradosso è che quello che si rivelerà il miglior autore di ballate
di tutti i tempi, in questo esordio sembra assai poco creativo proprio
nei ritmi lenti. Valhalla, Lady What’s Tomorrow e Skyline Pigeon sono i
momenti forse meno riusciti del disco: melodie elementari, testi naive,
vocalità a tratti insicure, il tutto costruito su un modello produttivo
assolutamente privo di brillantezza d’idee e sempre uguale a se stesso
(con un inspiegabile abuso del clavicembalo). In particolare Skyline
Pigeon, forse il primo “marchio di fabbrica” John/Taupin, ballata dalla
melodia semplice ma di effetto, testo generico ma che cattura
l’universo, rimane sconvolta e repressa dentro una produzione senza
senso che soffoca una essenzialità da ornare solo di pianoforte e voce.
Eppure si lasciano ascoltare placide, infondendo un senso di serenità.
Parzialmente diverso discorso per gli uptempo. Aggressivi, taglienti,
tendenti allo psichedelico, arricchiti da alcuni cambi ritmici,
costruiti su schemi che concedono maggior libertà e una certa dignità
al pianista e ai buoni strumentisti che lo circondano. Empty Sky e
Sails, seppur assai poco innovativi per l’epoca, rappresentano episodi
isolati nella discografia di Elton. Il ritornello di Western Ford
Gateway ci concede una visione, seppur pallidissima, dell’Elton
immediatamente successivo; quello di The Scaffold, nella sua leggerezza
country, si lascia ascoltare con un certo incanto.
Una parola anche per il compagno di viaggio, il paroliere Bernie
Taupin. A tratti sembra di leggere le pagine scontate di un diario di
un ragazzino per nulla originale; altre volte, come in Hymn 2000, pare
un pazzo visionario alla Bob Dylan. Sicuramente da rivedere.
Giunge dunque il finale. Gulliver/Hay Chewed è il momento più
imprevedibile, interessante, folle. Forse Elton John si è svelato
regalando una scheggia di luce: ti verrebbe quasi voglia di riascoltare
tutto daccapo. Non fosse per quell’orripilante “reprise” che giunge
inaspettato e improvviso cancellando, in un solo istante, tutto il
pathos costruito con tanta fatica e in mezzo a tante incertezze.
Inadeguato per la qualità di quell’epoca, più che indicare la
traiettoria futura del giovane Reg, ci rivela il suo passato, i suoi
ascolti e modelli giovanili.
Voto: 67/100
“Song by song”:
Empty Sky 6,8
Valhalla 6,2
Western Ford Gateway 7,2
Hymn 2000 6,2
Lady What's Tomorrow 5,8
Sails 7,4
The Scaffold 6,6
Skyline Pigeon 6,1
Gulliver/Hay-Chewed 7,7
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Elton John
2012
Se lo consideriamo il disco di debutto, come fanno gli americani, allora
c’è da rimanere abbagliati. Altrimenti, avessimo ascoltato qualche mese
prima il vero esordio (Empty Sky) incorreremo in eguale stupore nel constatare la improvvisa, quanto imprevedibile, maturazione dell’autore.
Sempre
indecifrabile, invece, il paroliere Bernie Taupin, a tratti
meravigliosamente cinematografico, ora troppo adolescenziale, altre
volte capace di catturare, seppur sempre con generica semplicità, i
sentimenti più comuni della vita.
E’ il disco forse più
sottovalutato dell’intera discografia, raramente incluso nella top 3
eltoniana da critici, grande pubblico e fan. Eppure è un album
strepitoso nel quale si coglie anche un qualche elemento di novità.
Elton John non è mai stato un innovatore o un rivoluzionario, né lo è
qui: l’uso di orchestrazioni classiche era già ampiamente in voga (si
pensi all’album Freak Out! dei Mothers of Invention di Frank
Zappa, datato 1967). Però questo misto di pianismo percussivo, pianismo
classico e orchestrazioni rappresentano comunque qualcosa di
indefinibile e di inconsueto nel panorama musicale dell’epoca; e si
rivelerà anche un episodio unico nella carriera dell’artista, che in
futuro ritornerà sì a calcare queste orme di pop/rock sinfonico ma mai
più in modo tanto ripetuto, deciso e organico (almeno all’interno di un
medesimo album).
L’autore ci regala qui forse la sua collezione
migliore di melodie. Al 99% degli autori basterebbe il brano di apertura
per giustificare un’intera carriera: una semplicità di testo, musica,
arrangiamento e interpretazione vocale, tale da assegnargli la corona
dell’eternità. Se paragonata alla gemella, e di poco precedente, A Song For You di Leon Russell, Your Song
è sicuramente meno bella e raffinata, ma assai più accessibile. Questa
estrema popolarità dei suoi brani più rappresentativi sarà la croce e la
delizia di tutta la carriera di Elton John: gli garantirà uno
sterminato successo, al tempo stesso oscurando le perle più preziose.
Le classicheggianti I Need You To Turn To, First Episode At Hienton, Sixty Years On, The Greatest Discovery e The King Must Die
mettono in mostra, con disarmante facilità, lo scorrere fluido di un
fenomenale e variegato ventaglio armonico di stampo classico. A
potenziare questo classicismo compositivo, che è parte del bagaglio
d’infanzia dell’artista, gli arrangiamenti orchestrali maestosi
dell’arrangiatore (e genio) Paul Buckmaster capaci di rappresentare, con
eguale perfezione, eleganza ed efficacia la disperazione di una
tragedia di Shakespeare e la grazia di una nuova vita, la delicata
malinconia del ricordo amoroso della Valerie di Hienton e la palpitante
angoscia dell’idea della vecchiaia e della morte. Queste orchestrazioni
così poderose sono il marchio di fabbrica del disco, diventandone a
tratti anche la sua, unica, imperfezione: l’emblema è Sixty Years On,
la melodia migliore del lotto, in cui il pianismo straordinario e
altamente drammatico (che si può ascoltare nel disco live 11-17-1970)
viene pesantemente soffocato dalla supremazia dell’orchestra.
Molto
validi e finalmente terreno di libero sfogo del pianista, pur
nell’ambito di una qualità melodica non così eccelsa, gli episodi rock
come The Cage e Take Me To The Pilot. Splendida, benché un po’ fuori atmosfera (forse avrebbe dovuto scambiarsi di ruolo con la Come Down In Time di Tumbleweed Connection) la puntata nel country/gospel di No Shoestrings On Louise, l’episodio probabilmente più convincente da un punto di vista vocale.
La menzione finale va al brano più riuscito, quello in cui si raggiunge finalmente il perfetto compromesso nell’arrangiamento: Border Song,
racconto di una guerra civile che riesce a dividere anche i fratelli,
non sarà forse il pezzo migliore dal punto di vista della scrittura, ma è
semplicemente stratosferico nel bilanciare e armonizzare la potenza del
pianoforte con la maestosità degli archi, la delicata ma peculiare voce
nasale del cantante con la spiritualità solenne del coro gospel.
Voto: 93/100
“Song by song”:
Your Song 8,5
I Need You To Turn To 8,4
Take Me To The Pilot 8,1
No Shoestrings On Louise 9,3
First Episode At Hienton 9,4
Sixty Years On 9,1
Border Song 9,4
The Greatest Discovery 9,1
The Cage 8,2
The King Must Die 9,0
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Tumbleweed Connection
2012
Ogni giovane al di qua dell’Atlantico ha, almeno una volta, chiuso gli
occhi e immaginato l’America. E in quel film che scorre nella mente non
si riflettono quasi mai gli Stati Uniti contemporanei, ma l’Old West
polveroso dei pionieri. Un’America cruda, genuina, violenta,
maledettamente affascinante perché rappresentativa di un’epoca in cui
coraggio, virtù, romanticismo, appartenevano a ogni personaggio,
sceriffo o outlaw, dama o prostituta, reverendo o peccatore.
In Bernie Taupin questa fascinazione nasce ascoltando, poco più che bambino, l’album Gunfighter Ballads and Trail Songs di Marty Robbins. E’ quell’atmosfera da country western che fornisce l’ispirazione per i testi di questo conceptnaive
e facili sentimentalismisi trasforma in narratore di piccoli
dettagliati racconti di vita di frontiera, guerra e amore coperti dalla
polvere portata dal vento del deserto: criminali in fuga e vecchi
soldati al bancone di un saloon, rivolte sociali, donne che ti lasciano
solo nella notte a contare le stelle, guerre civili che costringono i
figli a scavare la fossa ai propri padri morti.
Elton sarà tante cose nel corso della sua carriera, qui è semplicemente e solo Autore e Artista. Superlativo.
La qualità delle melodie è del medesimo eccelso livello dell’album Elton John,
pur in un contesto completamente diverso: si abbandona il pianismo di
matrice classicheggiante per immergersi nelle radici della musica
tradizionale americana attraverso un impasto di blues, country e rock
ammantato di tinte gospel. E’ quello che Gram Parsons chiamava Cosmic American Music
e che è la più autentica e viva espressione della musica rock.
D’altronde, pur essendo questo un filone musicale assai battuto
all’epoca (solo per citare due esemplari, Music From Big Pink di The Band e l’eponimo album di Leon Russell) Tumbleweed Connection
ha la capacità di distinguersi: un po’ perchè scritto da due autori
inglesi (che per di più l’America al tempo non l’avevano nemmeno
visitata…) e, molto, perché il prodotto finale è più memorabile degli
stessi modelli a cui si è ispirato.
Ciò che consente a Elton di
compiere quest’ultimo passo oltre l’eccellenza verso il mito è
innanzitutto la maturazione, direi sconvolgente, delle capacità vocali e
interpretative: sembra quasi impossibile che la voce così giovanilmente
immatura di Sixty Years On si sia in pochi mesi trasformata nella decisa, profonda, vibrante versione che si ascolta, per esempio, in Talking Old Soldiers. E poi c’è un bilanciamento strumentale che non poteva essere migliore, nella perfetta armonia tra pianoforte, backing band
e cori: in particolare le orchestrazioni, pur sempre maestose non si
impongono più come forza unica e assoluta, riuscendo invece a smorzarsi,
a gentilmente accompagnare, anche a ritirarsi per creare "spazio
sonoro", riemergendo poderose solo in selezionati momenti in cui v’è
l’urgenza di un maggior pathos.
L’apertura è una memorabile dedica al fuorilegge in fuga di Ballad Of A Well-Known Gun
e traccia un modello che verrà qui riproposto ad oltranza: strepitosa
intro di pianoforte, qui ulteriormente impreziosita da un tagliente incipit di chitarra elettrica, seguita da strofe spigolose, polverose, ruvide, pungenti che si aprono d’incanto in un refrain
arioso e coinvolgente, sostenuto da affascinanti coralità gospel.
Questo format verrà riproposto nel rabbioso racconto moralistico Son of Your Father, in Country Comfort e nel brano perfetto, My Father’s Gun: storia di guerra civile vista da Sud nello stile di The Night They Drove Old Dixie Down, ma più bella con quel twang
così spiccatamente americano della voce di Elton, con la perfezione
melodica delle drammatiche strofe e con quella coralità soul che
trascina il ritornello nel sogno.
Anche i momenti d’amore non sono da meno: Come Down In Time, con la sua delicatezza e armonia quasi sovrannaturale nel pennellare sentimenti old fashion; Love Song
di Leslie Duncan con il suo docile accompagnamento di chitarra acustica
da fare invia ai migliori Simon & Garfunkel; la rockeggiante Amoreena, così sexy col suo corpo bronzeo grondante di succo di frutta.
E poi i due estremi. Da un lato Talking Old Soldiers,
solo piano e voce, in faccia all’ascoltatore attonito, più d’impatto di
mille strumentazioni, in un’atmosfera da saloon di mezzanotte ormai
sommerso dal fumo dei sigari e dai pensieri malinconici degli avventori
ancora presenti. Dall’altro il finale epico di Burn Down the Mission,
di nuovo il tema della violenza, finalizzata alla sopravvivenza e alla
ribellione sociale: qui trovano libero e definitivo sfogo, tra momenti
di calma e improvvise fragorose accelerazioni, sia il vibrante e
travolgente pianismo di Elton che le poderose orchestrazioni di Paul
Buckmaster.
Il capolavoro di Elton e uno dei capolavori della storia della musica.
Voto: 99/100
Song by song:
Ballad Of A Well-Known Gun 9,7
Come Down In Time 9,4
Country Comfort 9,2
Son Of Your Father 9,4
My Father's Gun 10
Where To Now St. Peter 8,6
Love Song 8,7
Amoreena 9,1
Talking Old Soldiers 9,9
Burn Down The Mission 9,3
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Friends
2012
Difficile recensire questo lavoro. Perché se l’ottica è quella della
colonna sonora, queste sono canzoni abbastanza slegate dal film che
accompagnano. Se lo si approccia come un disco normale, ci si scontra
col fatto che metà dei brani presenti sono o composizioni strumentali di
Buckmaster, oppure reprise e variation di altre canzoni.
Praticamente misconosciuto ai più (non si trova né su cd né nelle
librerie digitali) mi piace immaginarlo semplicemente come un EP di
cinque canzoni, parentesi comunque assai virtuosa, tra due capolavori.
Temporalmente cade, appunto, dopo Tumbleweed Connection
ma presenta maggiori affinità con il precedente Elton John per le
ballate costruite su strutture classicheggianti e guidate dalla presenza
determinante dell’orchestra. Da Elton John si discosta però
radicalmente per il mood che qui è assai arioso, docile e sereno, contrapponendosi alla cupezza del primo.
I testi, la cinematografica Can I Put You On
esclusa, sono estremamente semplici e (troppo) fanciulleschi nel
soffermarsi su temi come l’amicizia e l’amore spesso mediante l’utilizzo
di clichè (l’inverno è freddo e l’amore lo scalda, con gli amici la vita è meravigliosa, e così via).
Ma
l’Elton del 1970-1971 è in stato di grazia e la facilità con cui riesce
a comporre melodie di qualità riscatta gran parte di questa assenza di
contenuto poetico. La title track, che apre il disco, è una
ballata che scorre fluida e con un notevole appeal melodico, pur nella
sua generica semplicità. I pezzi più rock, Honey Roll e Can I Put You On, risultano convincenti pur senza incantare. Michelle’s Song
è, nuovamente, di una freschezza disarmante, contornata com’è da dolci
orchestrazioni, da un pianismo assai armonico e dalla calda esecuzione
vocale di Elton. Il capolavoro del disco è però il breve gioiello Seasons,
che grazie alla sua maestosa e lunga intro orchestrale colpisce da
subito l’ascoltatore, conducendolo poi a immaginarsi il brano come un
pezzo strumentale fin quando, d’improvviso, gli archi si placano
aprendosi in un finale in cui si inseriscono piano e voce, nuovamente
leggeri e ariosi come un vento di primavera.
Voto: 89/100
“Song by song”:
Friends 8,3
Honey Roll 8,5
Seasons 9,4
Can I Put You On 8,5
Michelle's Song 8,8
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Madman Across The Water
2012
Con la pubblicazione di questo disco si chiude, per Elton John,
un’epoca fondata su un approccio compositivo, e di arrangiamento,
puramente istintivo e privo di qualsivoglia deriva, o tentazione,
commerciale. Da molti accomunato a Tumbleweed Connection, Madman Across
The Water ha in realtà pochissime affinità con il suo predecessore se
non il condividerne, pur a un livello complessivo (seppur
infinitesimamente) inferiore, lo status di capolavoro.
E questa (marcata) differenziazione si coglie già nei due, splendenti,
brani che aprono l’album. Il suono e le melodie sono più ariose,
accattivanti, se vogliamo quasi radiofoniche in quei refrain che si
lasciano cantare, o almeno sussurarre. In qualche modo si rimanda più
alla ammaliante California, appena scoperta e “vissuta” dagli autori,
che allo sporco Tennessee della Guerra Civile. Tiny Dancer è di una
leggiadria incantevole, quasi sospesa nella aria: oltre sei minuti che
scorrono però rapidissimi, immersi in un arrangiamento pop/country in
cui il cristallino suono del pianoforte si coniuga perfettamente con
uno stravagante, quanto riuscitissimo, intreccio di sontuose
orchestrazioni e steel guitar. La successiva Levon è ancora, se
possibile, di livello superiore: si presenta, quasi timida, con una
lenta ma efficace intro di pianoforte per svilupparsi progressivamente
in un trascinante e favoloso rock, a tinte gospel, grazie
all’intervento delle sempre dominanti orchestrazioni, nonché di una più
che vivace batteria.
Anche la narrazione di Bernie Taupin, ad esclusione di Indian Sunset,
si colloca su un piano decisamente differente. Quando non si lascia
attrarre da un eccessivo e (incomprensibile) astrattismo, Bernie
descrive non più l’America antica, riflessa dalla cinematografia
western e plasmata con la sua immaginazione, ma un’America assai
contemporanea. Ecco allora gli Stati Uniti rappresentati dalla sensuale
ballerina in blue jeans di Los Angeles (e futura signora Taupin) e,
soprattutto, da una serie tipici personaggi/finti eroi, più o meno
tutti sconfitti nella loro, disperata quanto vana, ricerca del sogno
americano.
Altri brani di spicco sono la title track e Indian Sunset. La prima è
ossessiva, al limite dell’inquietante, nel suo prolungato e articolato
incedere sostenuto dai violenti archi di Buckmaster. Il quale
Buckmaster raggiunge, proprio in questo disco, le sue vette più alte e
riuscite, potremmo dire la perfezione: dal punto di vista del mixaggio
sonoro è predominante come in Elton John, ma senza mai offuscare gli
altri strumenti, anzi valorizzandoli nell’evidente contrasto che si
crea tra le sonorità rock della band e le orchestrazione classiche
degli archi; per ciò che riguarda l’arrangiamento, invece, è sempre di
eccelsa maestosità senza però mai cadere nel troppo cupo o barocco
(come in Elton John). Indian Sunset è invece un capolavoro unico nel
suo genere, magistralmente prodotto: pianoforte e archi, percussioni e
momenti di silenzio, cantato a cappella e parti corali, si alternano e
mischiano per creare pathos, per enfatizzare le varie sfumature di
sensazioni che il testo vuole comunicare, creando così una sorta di
perfetta colonna sonora alla drammatica narrazione dell’annientamento
degli indiani Iroquois.
Di ottimo spessore, seppur meno caratterizzate, Razor Face, Rotten
Peaches e Holiday Inn, dove la trascinante coda ci consegna una delle
rare performance di valore mai realizzate dal chitarrista (qui al
mandolino) Davey Johnstone. Un po’ estranea al contesto risulta,
invece, All The Nasties, brano assai ben eseguito nella parte
strumentale (eccellente la sezione ritmica), ma mai pienamente
convincente nelle parti vocali: forzato il canto di Elton, pomposo il
coro dei Cantores In Ecclesia.
Il disco si chiude, in modo splendido e accecante, con Elton solo al
pianoforte a recitare gli amarissimi versi di Goodbye, un po'
richiamando le atmosfere dei brani dei dischi precedenti, quelli che
nemmeno sussurri, meritevoli come sono di un ascolto in religioso
silenzio. Non era certo nelle intenzioni degli autori ma quell’ “addio”
è in qualche modo premonitore di un Elton che non tornerà più.
Voto: 95/100
“Song by Song”
Tiny Dancer 9,3
Levon 9,5
Razor Face 8,6
Madman Across The Water 9,3
Indian Sunset 9,7
Holiday Inn 8,6
Rotten Peache 8,6
All The Nasties 8,0
Goodbye 9,4
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Honky Chateau
2012
Ci furono critici che accolsero questo disco come una liberazione, altri
che lo bollarono come il Grande Tradimento. Etichettature evidentemente
eccessive, per quanto entrambe portatrici di un fondo di verità. Da un
lato, infatti, questa è la prima vera prova (lasciando da parte Empty Sky)
senza Buckmaster e i suoi archi, ritenuti da alcuni una sorta di
“eccesso di produzione”. Dall’altro, c’è il primo vero ammiccamento al
lato commerciale della musica, che era ovvio facesse arrossire i
puristi. Personalmente ritengo l’apporto di Buckmaster superlativo e
propulsivo per l’Elton dei primi anni Settanta: certo è anche vero che
doveva apparire assai strano che un artista che riusciva a stupire il
mondo accompagnato, dal vivo, dai soli basso e batteria, una volta in
studio sentisse la necessità di “proteggersi” dietro un suono assai
pieno e ricco. Per ciò che riguarda la svolta commerciale, che pure
indubbiamente c’è, in realtà anch’essa è una mezza verità, non essendo
qui così marcata da far gridare allo scandalo, pur un’epoca musicalmente
molto rigorosa nella quale barattare le proprie radici per il successo
commerciale era considerato un grave peccato (nel 1965 a Bob Dylan bastò
imbracciare la chitarra elettrica per procurarsi la “scomunica”).
Ad ogni modo, Honky Chateau
perde le orchestrazioni ma non certo il gusto per un suono assai ricco e
lussureggiante (non è certo il sound del concerto del Troubadour…) come
ben testimonia già il suo brioso brano d’apertura: Honky Cat, il
cui irresistibile pianoforte è contornato, non solo dalla fidata ed
eccellente sezione ritmica (Olsson/Murray), ma anche da un predominante
mandolino e, ancor più, da una imponente sezione fiati in pieno stile
New Orleans. Anche il mixaggio, con gli strumenti “in faccia”
all’ascoltatore, amplifica questa atmosfera di notevole impatto sonoro. A
far compagnia ad Honky Cat, e alla sua atmosfera così profondamente dixie, arrivano Salvation ammantata da coralità gospel/soul (reminiscenza di Tumbleweed Connection) e Slave con il suo mood riflessivo e un incedere tanto lento e docile quanto lo scorrere del Mississippi.
L’atmosfera generale più easy e scanzonata fa definitiva irruzione con I Think I’m Gonna Kill Myself, Hercules e Rocket Man. I primi due, per quanto indiscutibilmente ammiccanti, alla lunga tendono forse al troppo accessibile. Rocket Man,
invece, è l’incarnazione perfetta del brano pop (intesa in senso
positivo) dove convivono, perfettamente bilanciati, melodia semplice ma
raffinata, produzione di elevatissimo impatto, interpretazione vocale
che veicola in modo assai convincente sentimenti comuni come la
malinconia e la solitudine: sarà la prima mega hit di Elton John. Questi
tre brani (ma anche Slave e Honky Cat) mostrano peraltro,
per la prima volta nella carriera dell’artista un senso di fretta nel
confezionare i brani: le studiatissime e straordinarie linee di uscita
delle canzoni di Tumbleweed si trasformano qui in “sfumati”, a volte veramente maldestri e raffazzonati (su tutti quello di I Think I’m Gonna Kill Myself).
Ma
i brani di maggior valore sono quelli più legati concettualmente alla
produzione precedente, ma costruiti su arrangiamenti assai innovativi
(per Elton John): Mellow, immersa in atmosfere soul, tra un intricatissimo pianismo e i virtuosismi del violino elettrico di Jean-Luc Ponty ed Amy,
che narra (il tema ricorre) di un amore inappagato per una ragazza con
una ruvidezza e una aggressività più tipiche di un Leon Russell che di
un Elton John (anche grazie al “violento” apporto del violino elettrico
di Ponty).
Il capolavoro è però Mona Lisas And Mad Hatters,
riflessione delicata e coinvolgente sull’ammaliante fascino e,
contemporaneamente, sulla terribile crudezza di New York City. Elton per
lunghi tratti è solo al piano e disegna una melodia fantastica,
incredibilmente evocativa, quasi una seconda Talking Old Soldiers.
Purtroppo il produttore Dudgeon, forse nell’intento di dotala della
medesima ricchezza strumentale che appartiene all’intero album, aggiunge
per tutta la seconda parte un invadente mandolino: fuori luogo in un
brano newyorkese e terribilmente stonato nell’atmosfera generale del
brano.
Un album sicuramente di transizione, verso cosa lo si
scoprirà solo dopo, non all’altezza dei precedenti, ma pur sempre molto
solido e piacevolissimo all’ascolto.
Voto: 85/100
Song by song:
Honky Cat 8,5
Mellow 8,9
I Think I'm Gonna Kill Myself 7,0
Suzie (Dramas) 8,2
Rocket Man 8,9
Salvation 8,4
Slave 8,4
Amy 8,9
Mona Lisas And Mad Hatters 9,3
Hercules 7,0
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Don't Shoot Me, I'm Only The Piano Player
2012
L’aspettativa che si porta dietro un disco di Elton John, anno 1973, è
enorme. Se ci uniamo il fascino oscuro della strepitosa copertina e il
titolo da puro saloon, la curiosità e l’immaginazione non possono che lanciarsi verso le vette più alte. Don’t Shoot Me I’m Only The Piano Player
si rivela all’ascolto immediatamente attraente, ma al tempo stesso così
spiazzante, rispetto alla discografia precedente, da risultare in fine
piuttosto deludente. La svolta commerciale intrapresa con il precedente Honky Chateau giunge, infatti, a pieno compimento con la realizzazione di un prodotto easy, a tratti glam e che strizza ripetutamente l’occhio al mondo dei teenager. Un disco in grado di definitivamente abbattere quella barriera che album “ostici” come Elton John e Tumbleweed Connection
avevano eretto tra l’autore e il pubblico più generalista. Ma il prezzo
da pagare per questa scalata verso l’Olimpo del pop è, da un punto di
vista qualitativo, alto.
Il brano d’apertura, Daniel, è un
commovente racconto (per la verità un po’ vago e indeterminato) di un
reduce di guerra, classica personificazione dell’eroe sfortunato
ricorrente nei testi di Taupin. La melodia è elegante e assai ben
calibrata sul testo, l’interpretazione vocale insolitamente soffice e
gentile. Ma è il suono “ammorbidito” e patinato, a creare il maggior
dislivello rispetto al passato: l'effetto, ovviamente non causale ma
consapevolmente perseguito, è ottenuto tramite un uso intenso, seppur
sapiente, dell’elettronica (il piano elettrico e il mellotron di Elton
accoppiato col sintetizzatore di Ken Scott).
Elderberry Wine e l’omaggio ai Rolling Stones Midnight Creeper
sono pezzi più rock in cui però anche la scrittura si rende meno
sofisticata e più accessibile. La presenza di una sezione fiati ben
arrangiata da Dudgeon, pur non rendendoli memorabili, riesce comunque a
caratterizzarli.
Il tema delle fantasie giovanili, che fa da sfondo a
tutto il lavoro, entra con prepotenza nella ritmata, trascinante, ma
banale, Teacher I Need You (storia di innamoramenti adolescenziali per la propria insegnante) e nella più dinamica e interessante I'm Going To Be A Teenage Idol, dedicata e ispirata all'idolo glam rock Marc Bolan. Texan Love Song tenta di riproporre lo schema, già presente nelle precedenti Love Song e Slave, di ballata dal sapore country "guidata" della chitarra acustica, ma con risultati non altrettanto elevati.
Non
mancano peraltro componimenti eccellenti, richiami (seppur un poco
sfocati) del “vecchio” Elton John. Blues For Baby And Me, splendida
ballata docilmente accompagnata dagli archi di Buckmaster che disegna
perfettamente il senso di fuga verso la libertà, lo “spazio” sterminato
di una highway americana in un viaggio verso ovest. Have Mercy On The Criminal,
dove gli arrangiamenti di Buckmaster si intersecano, qui maestosi, con
la prepotente e profonda interpretazione vocale di Elton, entrambe a
rimarcare il grido disperato e la preghiera del criminale braccato.
Nonchè la toccante e bella High Flying Bird che dovrebbe
rappresentare, nelle parole dell’autore, un “inchino” a Van Morrison (il
quale però dubito si riconoscerebbe appieno in questo brano).
Il punto più smaccatamente commerciale, e anche meno qualitativo, si raggiunge con Crocodile Rock:
attraente e coinvolgente brano nostalgico che tenta di catturare,
riuscendoci, lo spirito del rock and roll di fine anni Cinquanta. Certo
che la Suzie che balla il “rock del coccodrillo” è solo una
pallida e, un po’ inquietante, ombra della “piccola dolce Suzie dagli
occhi neri” di Honky Chateau.
Voto: 73/100
“Song by song”:
Daniel 7,2
Teacher I Need You 6,7
Elderberry Wine 6,9
Blues For Baby And Me 8,6
Midnight Creeper 7,0
Have Mercy On The Criminal 9,0
I'm Gonna Be A Teenage Idol 7,2
Texan Love Song 6,8
Crocodile Rock 5,9
High Flying Bird 7,9
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Caribou
2012
Il contratto discografico record sottoscritto da Elton John nel giugno
1974 gli garantisce il soprannome di “The $8 Million Man” ma
contemporaneamente lo investe di una insostenibile pressione durante le
fasi di realizzazione del successivo lavoro. D’altronde dopo il successo
travolgente di Goodbye Yellow Brick Road, le aspettative di
pubblico e critica sono massime. Sarà la pressione, l’ansia, la fretta
imposta dal contratto, o semplicemente il fatto che quando si è al top a
un certo punto non si può che iniziare la discesa, sta di fatto che
purtroppo Caribou si rivela in fine piuttosto deludente.
L’idea
è probabilmente quella di realizzare un disco di impatto, privo di
eccessivi orpelli e ridondanti orchestrazioni, un po’ nella scia di Honky Chateau.
Già il primo brano è però un’avvisaglia che quella immediatezza non si
riesce a raggiungere, come se mancasse qualcosa, un ultimo colpo
vincente capace di giungere diretto all’ascoltatore: The Bitch is Back, melodia travolgente e futuro cavallo di battaglia live, sapientemente ornata dei fiati della Tower of Power Horn Section, trasmette un certo qual senso di confusione sonora (se paragonata a una Honky Cat, per esempio) e un sottile filo di mancanza di incisività. Gli altri due uptempo, Grimsby e You’re So Static
radicalizzano tale incompiutezza, unendo a eguale confusionario suono
(col pianoforte spesso nascosto nell’indeterminato mix) una evidente
inconsistenza compositiva. Stinker è un blues assai poco attraente in cui si appalesano anche i limiti di Elton quale cantante soul, mentre Solar Prestige A Gammon è un non-sense piuttosto insignificante e fuori contesto. Gioiellino country immerso in atmsofere New Orleans è invece Dixie Lily, dove finalmente tutti gli strumenti paiono suonare all'unisono, perfettamente calibrati.
Tra le ballate il meglio si raggiunge nelle bellissima e melanconiche strofe di Don’t Let The Sun Go Down On Me, mega hit senza tempo che però un po’ si incarta nel ritornello, dove la maestosità travalica a tratti in pomposità. I’ve Seen The Saucers risulta invece piuttosto insipida, mentre rimarchevole è la fusione di delicatezza, eleganza e armonia in Pinky: un peccato questa risulti offesa dall’abuso del sintetizzatore (che se in una Rocket Man è imprescindibile veicolo di atmosfere sognanti, qui si trasforma quasi in suono molesto).
L’album si chiude con Ticking,
acquarello di epica drammaticità, racconto di quella parte di America
in cui la brutale e insensata violenza giovanile sfugge ad ogni
coscienza morale e controllo sociale. Pianoforte e voce risuonano
finalmente liberi e potenti, accompagnati solo da sporadici turbini
psichedelici di sintetizzatore (qui tutto sommato ben centrato) in un
continuo susseguirsi di rabbiosi sussulti in crescendo alternati a
sprazzi di pacata riflessione. Diamante scheggiato da qualche
imperfezione produttiva, il brano, da solo, vale un album.
Voto: 71/100
“Song by song”:
The Bitch Is Back 7,3
Pinky 7,5
Grimsby 6,3
Dixie Lily 8,2
Solar Prestige A Gammon 5,8
Yoy're So Static 6,1
I've Seen The Saucers 6,3
Stinker 6,0
Don't Let The Sun Go Down On Me 7,4
Ticking 9,7
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A Single Man
2012
Dopo i risultati piuttosto altalenanti e, a tratti, confusionari dell’ultima opera targata John-Taupin-Dudgeon (Blue Moves) si procede a un cambio radicale per questo A Single Man,
tra cui la decisione di Elton John autoprodursi (pur coadiuvato da
Clive Franks) e di affidarsi a un nuovo paroliere, Gary Osborne.
L’obiettivo sembrava essere quello di liberarsi da ogni eccesso, anche lirico, e realizzare il disco più essenziale e stripped down dai tempi di Honky Chateau.
Il risultato è che questa semplificazione sonora si radica su un
substrato melodico assai fragile, e poco ispirato, finendo per
ingigantirne i difetti piuttosto che valorizzarne i pregi: Elton non è
più il compositore in stato di grazia del 1970, quando alle sue melodie
sarebbe bastato un pianoforte, una voce pur acerba e poco altro per
trovare pieno compimento. Si aggiunga, che questo processo di “spoglio”
produttivo finisce per consegnare all’ascoltatore, nell’accoppiata
suono/arrangiamento, non un qualcosa di grezzo, libero e quindi
vibrante, ma un prodotto troppo spesso scolastico, insipido, vuoto.
Sembra sempre mancare qualcosa, un’idea, un rintocco, un suono capace di
colpire nel segno. Un disco pulito ed elegante ma carente di appeal.
E
l’aspetto più drammaticamente negativo finiscono poi essere i testi di
Gary Osborne, banali, stracolmi di clichè, privi del benché minimo
spirito poetico.
L’album si apre con la miglior melodia del disco, Shine on Through,
una classica ballata eltoniana, ben suonata, ben cantata e costruita su
un arrangiamento essenziale con il pianoforte come punto centrale ed
essenziale: tutto ben calibrato e lineare, ma con un certo annacquamento
della pur evidente radice gospel.
Segue l'assai banale Return to Paradise, una sorta di riciclo minore di Island Girl. I brani uptempo Part Time Love, I Don’t Care e la confusionaria Madness
non servono a innalzare il livello del lavoro, nè il suo fascino,
apparendo futili esercizi senza troppo costrutto (valorizzabili, in
teoria, solo con arrangiamenti più taglienti e sprezzanti stile Rock of the Westies). Più interessanti e riuscite sono invece la divertente, teatrale, recitata provocazione di Big Dipper e il lento southern gospel corale di Georgia (che pure sembra affievolirsi nel finale). Accettabile, anche se in un certo senso incompiuta, la sofferta Shooting Star.
Il brano complessivamente più riuscito, e che finisce per distinguersi abbastanza nettamente dagli altri, è invece It Ain't Gonna Be Easy:
oscuro, malinconico pezzo rock/blues condotto dal predominante duo
composto dal pianoforte di Elton e alla splendida chitarra di Tim
Renwick attorno ai quali si integrano, perfettamente a loro agio,
percussioni, basso e archi.
Si conclude con la strumentale Song for Guy,
brano piuttosto elementare ma di qualche impatto seppur offuscato dal
sintetizzatore, che troverà la sua collocazione finale quale sottofondo
di spot pubblicitari, hall e ascensori di alberghi.
Gli anni
Settanta volgono al termine e il loro grande, eccelso, Fantastico
dominatore non era mai suonato tanto vuoto e irrilevante.
Voto: 61/100
Song by song:
Shine On Through 7,0
Return To Paradise 5,3
I Don't Care 5,3
Big Dipper 7,0
It Ain't Gonna Be Easy 8,0
Part Time Love 5,2
Georgia 6,7
Shooting Star 6,2
Madness 5,4
Reverie/ Song For Guy 6,5
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The Complete Thom Bell Sessions
2012
Abbandonare le proprie radici artistiche per cavalcare una moda
comporta sempre la necessità di percorrere un sentiero sì stimolante,
ma al tempo stesso pericoloso: i rischi sono elevatissimi, soprattutto
se non ci si accompagna ai giusti collaboratori. Ma vi anche è uno modo
elegante, attento, rispettoso al tempo stesso di “chi si è”
artisticamente e del “luogo” che ci si accinge a esplorare: The
Complete Thom Bell Sessions questo sono, una riuscita incursione in
quel genere tanto in voga nella seconda metà degli anni ’70, miscela
accattivante di disco e soul music.
E si comprende veramente a fatica, o forse non si comprende per nulla,
la ragione per cui il prodotto all’epoca venne, di fatto, completamente
scartato da Elton John: si trattava, infatti, di un disco
straordinariamente più qualitativo dell’orribile album dance (Victim
of Love) che venne poi fatto uscire; nonché di un prodoto assai più
attraente, contemporaneo, “vivo” dell’ultimo, anemico disco “standard”
dell’artista (A Single Man). Il tutto anche e soprattutto grazie
agli eccellenti accompagnatori e collaboratori: il Maestro del Philly
sound Thom Bell (The Stylistic, The Spinners) alla
produzione, sezione fiati dei celeberrimi MFSB e cori degli Spinners,
probabilmente il più importante gruppo soul dei primi anni ’70.
Cinque brani su sei ripercorrono il medesimo schema compositivo, sonoro
e produttivo regalando all’ascoltatore una esperienza (soprattutto nei
ritornelli) allegra, spensierata e mai decadente nel vacuo e nel
banale. I brani in sé sono molto semplici, commerciali, senza troppe
pretese ma trovano la loro realizzazione in un assemblaggio coerente ed
estremamente curato: dalla perfetta integrazione di archi e fiati agli
avvolgenti cori soul/black, per completarsi nelle ammalianti,
convincenti, “viziose” esecuzioni vocali di Elton. Il tutto con una
certa qual dose di novità, almeno per quanto riguarda la discografia di
Elton (che pure aveva già in passato osato due, riusciti, “crossover”
nell’R&B/soul - Bennie and the Jets e Philadelphia
Freedom).
Si stacca un po’ dal contesto easy e danzereccio, non tanto a
livello sonoro quanto di "genere", Shine on Through: splendente
rispetto alla scialba versione contenuta su A Single Man. Qui,
grazie al paragone tra le due versioni, la produzione di Bell (che
probabilmente avrebbe potuto beneficiare anche altri brani di A
Single Man, I Don’t Care e Part Time Love su tutte)
mette inesorabilmente a nudo le mancanze tecniche e di visione
dell’Elton produttore. Ogni passaggio, ogni emozione, ogni radice
musicale del brano trova compimento: il pianismo, il canto, il coro; la
tipica semplicità delle ballate eltoniane (stile Your Song) e
la forza espressiva della matrice gospel.
In definitiva le Thom Bell Sessions rappresentano una delle più
riuscite, se non la migliore, sperimentazione di Elton John. Un disco
brillante, inspiegabilmente e ingiustamente relegato a pezzo per fan e
collezionisti.
Voto: 75/100
Song by song:
Nice And Slow 7,6
Country Love Song 7
Shine On Through 8,1
Mama Can't Buy You Love 7,3
Are You Ready For Love 7,5
Three Way Love Affair 6,9
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© badsideofthemoon
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