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recensioni


le recensioni di
Stefano Orsenigo  (35)



Empty Sky

2011

LP d'esordio di Elton John, con testi scritti dal sodale Bernie Taupin, Empty Sky viene alla luce sul finire degli anni 60, un periodo cruciale in cui si attenuano gli eccessi della psichedelia e si riafferma la forma-canzone, spalancando le porte a quella che sarà l'età d'oro del Rock, il lustro 1970-75.
Come molti dischi d'esordio ha un suono poco elaborato, quasi da demo e qualche ingenuità (a cominciare dalla poco attraente copertina, con un Elton capellone sosia di Al Bano), ma proprio in virtù di questo ispira simpatia, dato che oggi con una super-produzione alle spalle qualsiasi nullità pop può sbancare già al primo colpo.
Invece la Dick James Music aveva puntato con un basso budget sul talento acerbo di un giovane musicista, pianista e cantante della scuderia, già in rodaggio da due anni (il primo singolo, passato inosservato, era del 1967). E sprazzi di talento non mancano in questo album, a cominciare dalla lunga title-track che lo apre, un brano rock alla Rolling Stones pieno di energia, non a caso proposto live con la superband a metà anni 70 quando Empty Sky sarà distribuito negli USA a seguito della immensa popolarità conquistata dal suo autore.
Notevoli anche la nervosa Sails, la folkeggiante Hymn 2000 e Western Ford Gateway, un gioiellino country-rock che sorprende per maturità e freschezza: sembra scritto oggi, tanto che le strofe verranno scopiazzate (o citate?) da una hit degli Oasis.
Nelle ballate emerge già lo stile melodico caratteristico della coppia John-Taupin, ma nè Val-HalaLady what's tomorrow nè l'insipida The scaffold sono degne di nota; alla migliore del mazzo, Skyline Pigeon, qui buffamente arrangiata al clavicembalo, verrà resa giustizia con una superba piano version uscita come B-side pochi anni dopo.
Discorso a parte merita la conclusiva Gulliver, che grazie a una struttura melodica meno scontata spicca per bellezza sulle altre ballads, andando a legarsi ad un brano strumentale jazz dal titolo Hay Chewed (si legge Hey Jude, tanto per capirci...) e ad una ripresa finale di tutti i ritornelli dell'album.
La produzione spartana valorizza decisamente i brani rock, dove già si fa sentire la bella chitarra di Caleb Quaye, penalizzando i lenti: già questo costituisce un'anomalia nella discografia di Elton e rende Empty Sky un disco interessante anche se lo si considera al di fuori dal contesto eltoniano...insomma, non si tratta del classico lavoro consigliabile ai soli fans e collezionisti.

voto 6/7



Elton John

2011

La storia del secondo LP di Elton John, dal titolo omonimo, è quella di un talento premiato: malgrado i primi singoli ed Empty Sky fossero passati inosservati, la DJM decise di sostenere il giovane Elton con un disco prodotto a budget più alto ingaggiando i due artefici della memorabile Space Oddity di David Bowie, ossia Gus Dudgeon (produttore) e Paul Buckmaster (agli arrangiamenti).
Ma se Elton John scalò le classifiche inglesi e americane non fu per la celeberrima Your Song, la regina delle canzoni d'amore, perfetta nella sua semplicità la quale, è bene ricordarlo, inizialmente uscì solo come B-side del secondo singolo Take me to the pilot; no, il successo Elton se lo guadagnò grazie alla promozione affidata ai concerti, che colpirono soprattutto il pubblico americano svelando un talento di compositore e pianista rock senzazionale.
Il difetto del disco è proprio quello di non valorizzare appieno l'Elton mago del pianoforte, spesso sovrastato dagli archi, ma d'altro canto se Elton John è un classico del pop-rock sinfonico lo deve soprattutto ai barocchi interventi dell'orchestra condotta da Buckmaster, al servizio di melodie ora cupe (Sixty years on), ora solenni (The king must die), ora classicheggianti (I need you to turn to, dove il clavicembalo è usato assai meglio che in Skyline pigeon), ora delicate (The greatest discovery) ora uggiose (First episode at Hienton, il brano più debole a mio parere), che gli conferiscono un suono particolare e originale e ne fanno probabilmente l'album di Elton meno orecchiabile e radiofonico, tanto più che i testi di Taupin passano con naturalezza dal romanticismo intimista all'ermetismo puro...giusto per ribadire del talento premiato e del successo non scontato.
L'orchestra è affiancata a una validissima sezione ritmica in brani che strizzano l'occhio ai generi americani come il R&B (Take me to the pilot, The cage), il gospel (la stupenda Border Song, primo dei due singoli estratti), il country (No shoe strings on Louise) secondo un modello che verrà perfezionato nel successivo Tumbleweed Connection.
Un disco importante, da avere, ma non l'ideale per chi fosse digiuno di Elton e volesse iniziare a scoprirlo: meglio partire con un album più immediato, oppure col live 11-17-70 che immortala una tappa del tour e l'incredibile energia di Elton al piano accompagnato solo da basso (Dee Murray) e batteria (Nigel Olsson), una formula purtroppo mai più ripetuta per la quale oggi metterei la firma, se avesse il coraggio di riproporla.


Voto 8+



Tumbleweed Connection

2011

Una decina di anni fa, quando vidi il film Quel pomeriggio di un giorno da cani rimasi colpito dalla splendida canzone che accompagnava i titoli di testa, chiedendomi inutilmente chi fosse quel bravo cantautore americano degli anni 70 dalla voce a me ignota.
Rivedendolo alcuni anni dopo, riconobbi subito le note di Amoreena...nel frattempo avevo comprato tutti i dischi di Elton John.
Un giorno si dovrà indagare su come Elton abbia potuto cambiare così radicalmente la voce e il modo di cantare, già mutati ben prima della nota operazione alle corde vocali pre-Reg Strikes Back...forse un caso unico nella storia del Rock.
Ma a prescindere da questo: sarà per l'amore della coppia John/Taupin per la musica americana, sarà per consolidare il successo ottenuto presso il pubblico USA, fatto sta che Tumbleweed Connection, il terzo britannicissimo LP di Elton, sembra un disco totalmente a stelle e striscie.
Benchè realizzato in fretta tra un concerto e l'altro, uscito quando il precedente Elton John ancora si stava affermando nelle classifiche, è increbidilmente ispirato e maturo e impeccabilemte prodotto, non solo a livello sonoro (Buckmaster arrangia tutti gli strumenti, e nessuno prevale sull'altro pur valorizzando il pianoforte) ma anche estetico, con foto seppiate e alle illustrazioni a matita di scenari USA ottocenteschi.
Ad Elton e Bernie non interessa la storia ma il mito, non il West ma il Western, così su testi (e titoli) zeppi di armi, fuorilegge, soldati, i generi tradizionali americani (blues, folk, country e tanto, tanto gospel) incontrano un gusto melodico teatrale e preciso; coerentemente, i lussureggianti arrangiamenti orchestrali non mancano ma sono sapientemente calibrati rispetto a Elton John.
Si parte con la magnifica Ballad of a well-known gun, dove spicca la chitarra elettrica di Caleb Quaye, si prosegue con la romantica Come down in time (l'unico brano non a sfondo western, assieme a Love Song); Country Comfort, all'epoca incisa anche da Rod Stewart, è il modello per tutti i brani country di Elton, che non sono pochi, benchè sparsi in tanti dischi diversi; Son of your father velocizza con genio un demo inizialmente ben più lento, My father's gun è una ballata blues che ripete il ritonello all'infinito, eppure vorresti che non finisse mai.
Più semplici e orientate al folk sono Where to now St. Peter?, che ha testo-capolavoro, e Love Song che, pur scritta da Lesley Duncan, corista qui e in altri brani, si integra benissimo: tra le pochissime cover della sua discografia, è un classico di Elton a tutti gli effetti benchè privo di pianoforte (è solo voce e chitarra acustica).
La citata Amoreena invece è un piano-rock coi fiocchi, Talking old soldiers un capolavoro solo per piano e voce (ma perchè Elton ne ha fatti così pochi? Forse perchè resta un modello irraggiungibile, anche di duttilità vocale), Burn down the mission conclude il tutto con la giusta energia di piano e orchestra che parte inaspettata a ritornello concluso.
Imperdibili le due bonus-track: Into the old man's shoes, B-side di Your Song (uscita come singolo solo nel 1971) ma a tutti gli effetti un brano di questo disco, analogo a My father's gun. E la spettacolare versione originale di Madman across the water con Mick Ronson alla chitarra, che invece sembra uscita dal coevo The Man Who Sold The World di David Bowie.
Probabilente chi conosce solo l'Elton di The One e Circle of Life resterà spiazzato da questo disco, ma non è detto che non lo apprezzi, magari non al primo ascolto; più facile che piaccia ai fans di The Band (citati espressamente come fonte d'ispirazione), degli Eagles di Desperado, del Neil Young di Harvest, di Crosby Stills & Nash, ecc. ecc. In ogni caso è un pezzo unico nel percorso artistico di Elton, assolutamente prezioso ma a ben vedere non così anomalo, visto il risorto amore del suo autore per le sonorità americane.
E' altrettanto vero, però, che se Elton avesse mantenuto questo stile per tutta la carriera, oggi la sua discografia sarebbe assai monotona, inoltre onestamente come avrebbe potuto superarsi?

voto 9



Friends

2012

Filologicamente non dovrei recensirlo alla stregua di un album di Elton John, trattandosi di colonna sonora in cui cinque canzoni John/Taupin si alternano a pezzi strumentali firmati Buckmaster; inoltre il film (che non ho visto), raro quanto dimenticato, gode di pessima fama (ma non può essere così brutto: il regista è lo stesso di uno degli 007 migliori,
La spia che mi amava, e del bellissimo Alfie con Michael Caine. E poi, diciamolo, un medio film degli anni 70 è spesso meglio delle americanate ad alto budget attuali, per tacer delle italianate...): e pensare che il progetto iniziale riguardava le musiche dell'eccentrico "cult" Harold e Maude!
Fatto sta che questo pugno di canzoni sia troppo rilevante per essere ignorato, perchè fotografa un Elton in grado di sfoggiare una ispirazione notevole anche in un lavoro su commissione, incastonato tra Tumbleweed Connection e Madman Across the Water.
Il brano omonimo, con i suoi ricami orchestrali, sembra proprio un antipasto di Madman, compresso in poco più di due minuti giusto per accompagnare i titoli di testa, e il talento melodico del primo Elton, quando le ballate d'amore non esageravano con il miele, bacia anche Michelle's song e Seasons; ed è quasi un peccato che, in quest'ultima, la parte cantata sia così breve, posta in coda a un lungo e prescindibile intro sinfonico (chi è d'accordo con me può ascoltare direttamente Seasons reprise, che riprende ed isola il solo cantato).
Da Tumbleweed sembrano invece provenire i due brani rock, come sempre intinti nel gospel: Honey roll che, pur stando qualche gradino al di sotto di una Son of your father, sfodera un sax graditissimo, e Can I put you on forse più nota nella versione contenuta nel live 17-11-70: quella è indimenticabile per l'Elton scatenato al piano, ma qui c'è la ruvida chitarra di Caleb Quaye. Da anni il buon Caleb si occupa d'altro, ma se ci facesse la grazia di tornare con Elton, gli saremmo tutti riconoscenti, e magari anche il Signore approverebbe...

Voto alle canzoni 8+



Madman Across The Water

2011

Ha un che di misterioso questo disco: il titolo forse poetico forse inquietante, sicuramente visionario, e la copertina con la scritta Madman Across the Water cucita su un tessuto jeans non lasciano immaginare nulla circa il contenuto.
Musicalmente, questo terzo atto dell'Elton John "à la" Buckmaster è la diretta evoluzione dei due album precedenti.
Da Elton John proviene il gusto per le orchestrazioni sontuose, che qui perdono ogni pesantezza e si incastonano perfettamente nelle canzoni, non intralciando né il pianoforte né lo splendido lavoro degli altri musicisti, tra cui un Davey Johnstone alla sua prima apparizione con Elton e un Rick Wakeman ospite di lusso, che danno il meglio rispettivamente al mandolino in Holiday Inn e all'organo in Razor Face.
Di Tumbleweed Connection restano i riferimenti all'America e alla sua musica, decisamente più vaghi e sfumati: se Rotten Peaches e All the Nasties si concludono con cori gospel, la grandiosa Indian Sunset dedicata agli ultimi giorni di Geronimo diviene il fiore all'occhiello di un rock spettacolare e fascinoso che riduce al minimo la chitarra elettrica.
Personalmente preferisco la versione originale della title-track, ma aver sostituito gli assoli di chitarra con gli archi ha donato al disco uno stile e un suono compatti e omogenei, al servizio di un talento melodico in stato di grazia, nei due singoli estratti (Tiny Dancer e Levon) come in tutti gli altri brani.
Purtroppo sono solo nove, ma si sa che qualità e quantità non vanno mai a braccetto (Goodbye Yellow Brick Road in questo senso sarà un miracolo).
L'ultima traccia si intitola Goodbye, un addio breve e struggente, come se Elton avesse già deciso di non replicarsi e di cambiare rotta, avvicinandosi alla perfezione e fermandosi a un passo dal manierismo. Molto probabilmente, la "svolta pop" (un termine che non sopporto, ma è giusto per rendere l‘idea) fu dovuta agli scarsi risultati ottenuti nelle classifiche inglesi (fuori dalla Top40 e vita breve): questo è per me il vero mistero, che mi lascia basito.
Certo alcuni testi di Taupin sono tra i suoi più ermetici, in ogni caso negli USA il disco consolidò il successo di Elton in un anno per lui intensissimo (uscirono anche la colonna sonora del film Friends, molto simile a questo album e ancora baciata dal tocco di Buckmaster, e il live 11-17-70).

Voto 9/10



Honky Chateau

2011

Qualcuno oggi sostiene che Elton John somigli a Lucio Dalla, probabilmente a causa dell’identico parrucchino indossato (ma Elton non aveva fatto il trapianto?!); ma già nel 1972, l’Elton barbuto in copertina a
Honky Chateau poteva passare per fratello del cantautore bolognese.
Vien da chiedersi perché si scelse una foto così poco “cool” proprio nel periodo in cui Elton iniziava a travestirsi in modo eccentrico, e forse questo prova che l’adeguarsi all’estetica del glam-rock, superandola fino a farne una parodia, fu dovuto più alle insicurezze e fragilità del cantante di fronte alla fama che ad una strategia discografica pianificata a tavolino.
Fatto sta che il periodo d’oro a livello commerciale inizia qui, col primo posto in USA e il secondo in patria; senza svendersi artisticamente, ma grazie a uno stile più rock e meno cantautoriale, con brani ritmati e frizzanti dai testi più leggeri. Chateau è la sala d’incisione, un castello in Francia dove verranno realizzati i due album successivi, Honky è l’honkytonk che consente a Elton di scatenarsi al piano senza orchestrazioni (Dudgeon resta, Buckmaster passa il turno) e con maggior spazio concesso alla chitarra.
Davey Johnstone entra a far parte della band con Dee Murray (basso) e Nigel Olsson (batteria) e anche se preferiamo Caleb Quaye qui fa un ottimo lavoro, in brani dal suono “sporco” come Suzie, Amy e Slave, quest'ultima senza piano e molto blues (ma riappare come bonus track velocizzata e con piano rock and roll: da infarto!).
Tra le perle troviamo poi Honky Cat, sapientemente arrangiata con fiati R&B, e la magnifica Mellow che contiene un notevole assolo elettrico di violino (di Jean-Luc Ponty, ospite di lusso), mentre i brani più ancorati allo stile degli album precedenti come Salvation e Mona Lisas and Mad Hatters, per quanto buoni perdono fascino spogliati degli archi.
Il brano più celebre è Rocket Man, singolo dal ritornello assassino che farà da modello melodico per una bella fetta di future ballate eltoniane: forse oggi non ci si fa più caso, lo stesso Elton nei concerti la deforma e la allunga a dismisura (e forse dovrebbe smetterla, dato che la cosa ha perso spontaneità), eppure resta una canzone pop perfetta; assieme all'ironica (a dispetto del titolo) I think I'm going to kill myself e ai coretti retrò di Hercules anticipa l'atmosfera del successivo album Don't Shoot Me, un po' deliziosamente languida e un po' brillantemente spensierata.
Data la sua natura un po' ibrida, di transizione, gli preferisco i due album precedenti e i due successivi, ma ciò non toglie che Honky Chateau sia tra i migliori di Elton e una fonte di ispirazione per tutti i grandi pianisti rock venuti dopo, da Billy Joel a Joe Jackson a Ben Folds.

Voto 8,5



Don't Shoot Me, I'm Only The Piano Player

2008

Che c’è di più prevedibile di quelle classifiche dei migliori dischi di musica pop stilate con regolare frequenza dagli addetti ai lavori? Al primo posto troviamo sempre Pet Sounds dei Beach Boys, messo lì forse per bilanciare uno strapotere beatlesiano a dir poco eccessivo…chi privilegia l’impegno sociale non fa mancare Bob Dylan, chi odia i Beatles parteggia (chissà perché?) per i Rolling Stones, e così via…

Elton John, uno che faceva rock con il pianoforte e l’orchestra sinfonica quando gli idoli erano i chitarristi, non fu meno geniale dei suoi più mitizzati colleghi, ma va da sé che nei piani alti di questi freddi elenchi non lo troveremo, svalutato com‘è oggi agli occhi della critica (certo, un po’ se l’è cercata, ma non più di tanto…).
Pertanto, rimanendo in un ambito prevalentemente pop (senza tirare in ballo Talking old soldiers o Indian sunset, quella è Arte con la maiuscola), tra ritornelli a prova di bomba e melodie d’impatto istantaneo, per chi scrive il disco da mettere al top si chiama Don’t shoot me I’m only the piano player, un successone di livello mondiale sfornato da Elton nel gennaio del 1973, che ne consolidò definitivamente la carriera negli USA (dopo la #1 del precedente Honky Chateau) e finalmente anche in patria, primo di una serie di quattro #1.

Il disco a prima vista si presenta come un omaggio retrò all’atmosfera spensierata degli anni ‘50, come dimostra il primo singolo estratto, la celeberrima (fu tra l’altro il singolo più venduto in Italia nel 1973) Crocodile Rock, un travolgente rock‘n roll con citazione incorporata del coretto di Speedy Gonzales, successo d’epoca cantato da Pat Boone.
In realtà, a parte “Crocodile” e un altro brano alla Jerry Lee Lewis come Teacher I need you, il revival si mantiene più a livello estetico: la cover del disco in stile American Graffiti, il titolo “rubato” al film di Truffaut Tirate sul pianista, i credits scritti alla maniera di un film classico hollywoodiano (sovrastati dalla foto di un Reg Dwight bambino seduto alla pianola), tutti aspetti che verranno sviluppati ulteriormente col successivo doppio LP Goodbye yellow brick road.
Musicalmente, l’album dosa col giusto equilibrio struggenti ballate pianistiche di mirabile perfezione e brani R’n’B vigorosi e ritmati: tra le prime troviamo Daniel, l’altro singolo estratto, forse la canzone più “debole” (se proprio volessi cercare il pelo nell’uovo) a causa di un arrangiamento un po’artificioso che concede troppo spazio al mellotron, Blues for my baby and me dove ritornano le sfarzose orchestrazioni di Paul Buckmaster, la conclusiva, meravigliosa High flying bird.
Una imponente sezione fiati (la stessa apparsa in Honky Cat, infatti il disco è registrato come il precedente al castello di Hierouville, coi fidi Johnstone, Murray e Olsson, e il produttore Dudgeon) dà invece ulteriore energia alle grintose Elderberry wine, Midnight creeper e I’m gonna be a teenage idol, quest’ultima dedicata da Elton all’amico-rivale Marc Bolan, leader dei T-Rex e inventore del glam-rock.
In mezzo c’è spazio per due capolavori agli antipodi: la semplicità country della leggiadra Texan love song e i toni psichedelici della cupa, barocca Have mercy on the criminal, in cui i riff elettrici si aprono con una citazione della Layla di Eric Clapton per poi fondersi con l’orchestra di Buckmaster con un risultato davvero indimenticabile.

Insomma un album praticamente perfetto che è anche un prodotto commerciale validissimo, apparentemente ripiegato sul passato e sul citazionismo e in realtà eterno, inaffondabile, di una bellezza universale e senza tempo: sembra uscito ieri, e tra 100 anni regalerà le stesse emozioni.
Da amare alla follia fin dal primo ascolto, e ogni volta è una gioia assoluta, credetemi! Se dovessi scegliere un solo disco da portare con me su un’isola deserta, non avrei dubbio alcuno...

Voto 10, il mio Elton preferito!


Aggiungo una postilla alla mia recensione di Don't Shoot Me:
A distanza di 3 anni resta sempre il mio Elton preferito, quello che potrei ascoltare per ore e ore senza stancarmi, e se confrontandolo con gli altri capolavori emerge la sua natura più facile e radiofonica, la miscela di ballate struggenti e ritmi scatenati è veramente irresistibile. Confermo poi il mio giudizio su Daniel: dopo anni di esecuzioni dal vivo in chiave country, penso che avergli appiccicato il mellotron abbia snaturato la versione in studio.
Comunque un ottimo disco, di grande compattezza e immediata bellezza.

Voto 9-



Goodbye Yellow Brick Road

2011

E' difficile descrivere in poche frasi un'opera ricca di spunti di discussione, di richiami estetici, di importanza storica com'è questo disco.
Di certo il 1973 è l'anno d'oro di Elton John, visto che a pochi mesi dal trionfo di Don't Shoot Me... il nostro raddoppia con Goodbye Yellow Brick Road: in tutti i sensi, trattandosi di doppio LP, una scelta che -unita all'opzione di un primo singolo come Saturday night's alright for fighting- lo pone definitamente nell'olimpo del Rock al fianco dei grandi.
Quello che ad oggi resta il suo album di inediti più venduto e celebre è composto da ben 17 brani che ribaltano in positivo il concetto di eclettismo, oltre a unire felicemente quantità e qualità, tanto che l'unico riempitivo (Jamaica Jerk-off) ha un suo perchè: firmato "Reggae Dwight", ci ricorda l'intenzione iniziale di fare un disco giamaicano, poi cestinata (per fortuna?) a favore della vecchia Europa a causa di pesanti problemi tecnici.
In ogni caso Elton si sbizzarrisce in svariate declinazioni del rock, da quello hard della citata Saturday a quello glam e trasgressivo di All the girls love Alice, dal rock'n roll vecchio stile di Your sister can't twist (but she can rock'n roll) al progessive più spettacolare di Funeral for a fiend/Love lies bleeding, il lungo brano-capolavoro introduttivo.
Ovviamente la dimensione privilegiata è la ballad teatrale-malinconica-agrodolce, che qui raggiunge livelli altissimi, sia nei tipici valzer alla Elton -Candle in the wind, la title-track, I've seen that movie too, Sweet painted lady, Harmony- sia in brani dalla struttuta più originale come This song has no title o The ballad of Danny Bailey (1909-34).
In mezzo, ancora lampi di sound americano come Roy Rogers o Social Disease e oggetti anomali come Bennie and The Jets col suo pianoforte aggressivo, Grey seal scritta nel 1970 e qui trasformata in un bizzarro up-tempo, l'aspra ed elettrica Dirty little girl; uno che passa con naturalezza dalla dolcezza struggente di Sweet painted lady alla rabbia sprezzante di questa canzone dev'essere un genio, e anche se quel misogino romantico di Bernie Taupin gli dà l'ispirazione con i suoi testi, la capacità di spaziare tra melodie e interpretazioni così agli antipodi e così efficaci è tutta del cantante.
Se il disco offre una bella carrellata di tante tendenze musicali dei primi anni 70, il risultato non ha nulla di modaiolo o di datato, anzi ad ascoltarlo oggi colpisce per la sua classicità capace di resistere ai tempi e ai mutamenti del gusto; non a caso non si contano i riferimenti a miti del passato, da Marylin Monroe "candela al vento" al cowboy Roy Rogers alla strada di mattoni gialli del Mago di Oz, ai gangster degli anni 30...insomma un'opera sfarzosa e incantevole alla maniera dei migliori film della Hollywood dei bei tempi.
Anche la qualità sonora contribuisce alla riuscita, benchè il livello degli arrangiamenti sia talvolta altalenante: se in Candle in the wind i tocchi di chitarra elettrica e i cori la rendono migliore di qualsiasi esecuzione dal vivo (soprattutto quella da requiem), non si capisce perchè inserire in Bennie and The Jets dei fastdiosi applausi finti al posto di una sezione fiati (forse nessuno si aspettava che il brano sfondasse nelle classifiche R&B, fino ad allora appannaggio di artisti neri); non condotti da Buckmaster, gli arrangiamenti orchstrali sono magnifici quando si fondono col piano nella coda di Danny Bailey o con la chitarra nel bridge di I've seen that movie too, ma in Roy Rogers sono una zavorra che non rende giustizia a un brano ispirato allo stile di Bob Dylan.
Ma si tratta di dettagli in un disco che non dovrebbe mancare nelle collezioni di chi ama il rock, chi ama il pop e chi (come il sottoscritto) li ama entrambi, purchè fatti come li sa fare Elton: col suo stile stile complesso ma orecchiabile, popolare ma raffinato, multiforme ma inconfondibile.

Voto 8/9



Caribou

2011

Se nella discografia di Elton John non mancano episodi da riscoprire e/o rivalutare
,
Caribou è un raro caso (l'unico?) di album sopravvalutato. Gran successo di pubblico negli anni in cui Elton era un Re Mida, guadagnò pure una nomina ai Grammy e se si considera che nessuno dei cinque dischi precedenti ebbe tale onore si intuisce che molti di questi premi vanno presi con le molle.
Al disco manca quel tocco magico che in Goodbye Yellow Brick Road unificava tanti stili diversi e il risultato, piuttosto altalenante, va apprezzato non nel suo insieme ma nelle singole canzoni. Alcune peraltro ottime, come quel travolgente glam-rock che è l'introduttiva The bitch is back, cui fa da contraltare la dolce (ma non sdolcinata) ballad acustica Pinky; persoanlmente poi ho un debole per due brani allegri e scattanti come l'elettrica Grimsby e il country sudista Dixie Lily, una delle poche concessioni ai gusti del pubblico USA (l'altra è la partecipazione dei Beach Boys ai cori in Don't let the sun go down on me) nel primo di tre album "americani" registrati ai Caribou Studios in Colorado.
Altri brani non vanno al di là del riempitivo, per quanto bizzarri come Solar prestige a gammon col suo testo demenziale e la voce impostata, You're so static chiassosa e quasi ska (un genere che mi garba poco) o l'allucinata I've seen the saucers; anche il rock-blues Stinker sembra solo una discreta imitazione dei Rolling Stones, soprattutto nel tono di voce un po' alla Jagger.
Il suono è decisamente più rock ed energico, col pianoforte spesso messo in ombra dai fiati corposi (se ne occupano i Tower of Power) e dalla band, dove fanno capolino le svariate percussioni del buon Ray Cooper. In questo contesto c'entra poco un brano come Ticking, amara ballata per piano e voce il cui testo gronda disagio sociale e psicologico; il suo andamento aspro e nervoso la rende comunque straordinaria, e assieme alla hit Don't let the sun go down on me (che malgrado sia inflazionata dalle troppe esecuzioni live, nella versione in studio conserva ancora la sua teatrale, grandiosa efficacia) risolleva la media di un disco che, arrivando dopo una sfilza di capolavori, rappresenta un inevitabile calo fisiologico.

Voto 7

PS la versione remastered del 1995 è imperdibile grazie alle bonus tracks: due B-sides che avrebbero meritato l'LP ai tempi (Sick city e Cold highway), un delizioso singolo natalizio agli antipodi della melassa (Step into Christmas) e la mitica versione eltoniana di Pinball Wizard eseguita dall'alto di due metri di stivali da Re del flipper nel film Tommy, la rock-opera dei Who



Captain Fantastic And The Brown Dirt Cowboy

2011

A metà degli anni 70 Elton John ha raggiunto l'apice della carriera: cavalcando la moda del glam-rock si è imposto nelle classifiche inglesi, condividendo la gloria con una folta concorrenza, ma il talento melodico influenzato dalla musica americana gli ha permesso di sfondare senza rivali nelle charts USA, per ultime quelle R&B con singoli come Bennie and The Jets e Philadelphia Freedom. Dopo il primo trionfale Greatest Hits e i duetti live con John Lennon in un ideale passaggio di testimone nella storia del rock, Elton coglie l'occasione per realizzare un disco autobiografico dedicato agli anni della gavetta, quando il ventenne Reg Dwight (il Capitano) e il fido Bernie Taupin (il Kid, un cowboy nell'anima) sbarcavano il lunario in una Londra poco swinging.
La forma è quella del concept album, di moda all'inizio del decennio (Tumbleweed Connection non lo era ma si avvicinava all'idea), con tanto di copertina surrealista-visionaria e un singolo estratto poco radiofonico (Someone saved my life tonight); non ci sono grandi sperimentazioni ma si percepisce un che "di testa", un lavoro più studiato e pensato, meno spontaneo del solito. Curtains per esempio rinuncia alla struttura strofa-ritornello per un lento crescendo, dal testo pieno di auto-citazioni a prima vista fumose, che sfocia in un lungo coro su un tappeto di batteria e percussioni.
Personalmente, dopo Elton John questo Captain Fantastic and the Brown Dirt Cowboy è il suo album che mi ha richiesto un maggior numero di ascolti per essere metabolizzato e apprezzato, tanto che ai primi tempi gli preferivo Caribou e Rock of the Westies (che avevo acquistato prima), più immediati e sopra le righe.
Elton in ogni caso non cerca la messinscena teatrale o le pose da artista intellettuale, la sua è la giocosa auto-celebrazione di una personalità visceralmente eccessiva e spettacolare, di un talento che conquista le masse anche perchè capace di non prendersi troppo sul serio.
La musica è un pop-rock di taglio sartoriale, con canzoni che partono lente ed esplodono nei ritornelli come la stupenda title-track deliziosamente country o Bitter fingers, altri brani dall'andatura media e costante ma non meno epici, come Tell me when the whistle blows arrangiata con archi soul e Tower of Babel (la mia preferita) che contiene uno dei migliori assoli elettrici di Davey Johnstone. Le ballate melodrammatiche al piano (Someone saved my life tonight e We all fall in love sometimes) e il rock tirato (Meal ticket) sono tra il meglio dei rispettivi filoni eltoniani, mentre il tocco eccentrico lo dà la cabarettisitca Better off dead, incantevole anche per i cori. Il suono è molto equilibrato e puntuale, Elton sembra fare un passo indietro e limitare i virtuosisimi per lasciar spazio al lavoro della band (gli altri sono Olsson, Murray e Ray Cooper); a costo di sembrare incontentabile, avrei sostituito Writing (troppo esile e lieve per piacermi) con la bella B-side House of cards e avrei scelto una conclusione più movimentata rispetto alla celebratissima Curtains, che non mi ha mai davvero conquistato.
Anche così, Captain Fantastic resta un ottimo disco utile a ribadire che dopo l'era dei Beatles venne l'era di Elton John.

Voto 8



Rock Of The Westies

2011

Quando si è arrivati in cima scendere è inevitabile, l'importante è farlo piano piano, sosteneva Nilla Pizzi.
Nel 1975 Elton John è il dominatore delle vendite mondiali di dischi ma per la Dick James Music è soprattutto la gallina dalle uova d'oro da sfruttare il più possibile con uscite ravvicinate che sfidano assurdamente la sovraesposizione.
Rock of the Westies esce a pochi mesi da Captain Fantastic e per l'ultima volta raggiunge la #1 in USA; in attesa di rendersi indipendente (l'ultimo disco del contratto con James sarà il live Here and There), in quest'opera su commissione Elton tenta di cambiare rotta, di sperimentare qualcosa di nuovo: avendo esteso la band con due chitarristi (oltre a Johnstone fa ritorno il grande Caleb Quaye), nuovi bassista e batterista (Kenny Passarelli e Roger Pope), alle tastiere un futuro pezzo grosso delle colonne sonore hollywoodiane (James Newton Howard) e un Ray Cooper sempre più scatenato alle sue svariate percussioni, decide di alzare il volume e fare un album quasi totalmente rock, forse per ricreare un studio la carica di energia esibita durante i concerti.
La prima traccia Medley è quella che non ci si aspetterebbe da Elton, con repentini cambi di ritmo e accordi ben poco melodici, non meno folle è la successiva Dan Dare (Pilot of the future) che sembra la parodia isterica di un testo alla "Rocket Man"; se è vero che per il cantante la schiavitù della cocaina iniziava in questo periodo, vien da pensare che molti brani di questo album e di Blue Moves siano stati composti e incisi da un Elton sovraeccitato, ma ancora forte di una ispirazione brillante.
Island girl è l'uptempo facile da dare in pasto alle radio ma sa trasmettere un'allegria contagiosa, quindi arriva il meglio con due rock eccellenti che mi ricordano un po' i Rolling Stones un po' i Lynyrd Skynyrd, Grow some funk of your own e Street kids, e una ballatona western che sarebbe piaciuta agli Eagles, I feel like a bullet (in the gun of Robert Ford).
Meno belle la frenetica Hard luck story e la rumorosa Billy Bones and the white bird, invece mi piace molto Feed me dove Elton non suona ma canta con uno splendido tono dolente versi altrettanto amari mentre tastiere, chitarre e cori si intrecciano con eleganza.
Se Gus Dudgeon avesse aggiunto un sax avremmo ottenuto un muro sonoro da fare invidia al pompatissimo Born to Run
di Springsteen uscito nello stesso periodo, ma Elton di queste cose non si è mai curato (finora?) e spesso la frettolosità, se da un lato gli ha permesso di comporre tanti brani in poco tempo, dall'altro (specialmente negli anni 80) ha pesato come un macigno sulla qualità sonora dei suoi dischi. In ogni caso, se questo è il primo capitolo della fase discendente, allora tanto di cappello.

Voto 7,5 


Blue Moves

2011

La bisessualità di Elton John era un segreto di Pulcinella ma nel '76 bastò metterla nero su bianco per scandalizzare molti fans americani e far crollare le vendite: oggi forse provocherebbe l'effetto opposto ...
Dato che i media già privilegiavano il gossip al musicista, è bene andare a riascoltare Blue Moves, il disco della discordia uscito a ridosso del fattaccio: è il primo realizzato dal cantante per la sua Rocket Records, inciso in vari studi inglesi e americani, pieno di collaborazioni eccellenti, dalla produzione ricca e variegata.  E’ un doppio LP ma è inutile tentare un paragone con la solida classicità di Goodbye Yellow Brick Road: qui sembra mancare un baricentro, tra ritornelli lunghi e dilatati, brani strumentali, orchestrazioni, fiati, cori imponenti e su tutto domina un forte senso di tristezza, spezzato talvolta da euforici scoppi di energia; se Elton non se la passava bene, Bernie viveva i suoi dolori sentimentali e riversava l’amarezza nei testi, dai titoli eloquenti.
Il capolavoro è la sinfonica Tonight, che richiama (e supera) le cose migliori dell’album Elton John; le altre ballate tristi, in ordine di gradimento, sono: Chameleon e Someone’s final song con i cori dei Beach Boys, il primo singolo Sorry seems to be the hardest word e il lamento gospel Where’s the Shoorah?, che invece non si avvicina ai livelli di una Border song.   Diverse, ma molto belle, Cage the songbird dedicata a Edith Piaf e la lenta, ipnotica The wide eyed laughing: senza piano, con chitarra acustica e un Elton che si mimetizza nei cori di Crosby & Nash come se fossimo in un disco dei CSN.
E poi Idol, la mia preferita (e nella mia top 10): con quel piano, quel sax e quegli accordi sofferti sembra uscita da un fumoso locale jazz: visto che il suo autore non la esegue live da anni, la vedrei bene cantata dal vocione di un Tom Waits e invece talvolta finisce nelle scalette di … George Michael!
La stessa rinomata sezione fiati (David Sanborn, Randy e Walter Brecker) rafforza due brani comunque già godibili, uno più ruvido (Boogie pilgrim) e l’altro più patinato (Shoulder holster); senza fiati, ma sempre jazzata, è invece la strumentale Out of the blue che sembra improvvisata ma con stile.  Altri due brevi jingle strumentali poteva benissimo cestinarli, così come Between 17 and 20 che per quanto mi sforzi di ascoltarla continua a sembrarmi una canzone monotona, lamentosa, né carne né pesce.
Crazy water flirta moderatamente con arrangiamenti disco-funky sulla scia redditizia di Don‘t go breaking my heart ma il gioiellino If there’s a God in heaven (what’s he waiting for?) lo fa meglio e offre gli archi più sfavillanti di tutto il repertorio.
Quanto agli scoppi di energia, Elton raggiunge l’apice del barocchismo con One Horse Town (grandioso il lungo intro strumentale: nel lontano sottofondo di synth irrompono le chitarre e quindi l’orchestra) e con Bite your lip (get up and dance!): questa dopo un inizio rock sfocia in un delirio di cori gospel, archi ed evoluzioni pianistiche, che chiudono l’album e l’età d’oro di una creatività che non raggiungerà più questi livelli.
Troppo disomogeneo ed eccessivo per piacere alla critica, che non lo considera mai tra i migliori di Elton, per il mio gusto questo capolavoro mancato (lo sarebbe togliendo quei quattro brani di troppo) è forse il suo album più affascinante.

Voto 7,5




A Single Man

2012

A Single Man ultimo atto del periodo d’oro di Elton John? Non sono d’accordo, per tanti motivi. Al di là del mezzo fiasco commerciale (se paragonato con i successi del recente passato), i due anni trascorsi da Blue Moves sembrano secoli: senza occhiali e con look da gentleman, un Elton quasi irriconoscibile guarda perplesso dalla copertina, un uomo solo perché non ci sono più né Taupin né Dudgeon e delle vecchie band resta solo Ray Cooper.

Il nuovo paroliere si chiama Gary Osborne e le canzoni vengono scritte adattando un testo alla musica già composta, all’opposto del metodo John-Taupin: chissà, magari questo Elton meno cantautore e più musicista poteva trovare una sua dimensione in un album strumentale e non mi stupisce che il brano più celebre lo sia.
David Bowie aveva già realizzato due dischi “New Wave” sperimentali e seminali come Low e Heroes, il 1978 poteva essere anche per Elton l’anno del cambiamento, del rinnovamento, invece a parte le poche concessioni modaiole (I don‘t care arrangiata in stile disco-music) si torna quasi al modello sinfonico dei primi album, senza traccia di sintetizzatori, con pochi sapienti tocchi di chitarra elettrica (di Tim Renwick) e orchestrazioni di Buckmaster; ma tutto troppo soft per reggere il confronto con la magia dei capolavori, che rivive solo nella magnifica Ain’t it gonna be easy, otto superbi minuti di rock-blues orchestrale.
Leggere e scattanti invece, oltre a I don’t care, il primo singolo Part-time love oggi praticamente rinnegato dall’autore (lo considera il suo peggior brano, ma non sfigura al confronto con molte hits successive) e la buffa Big dipper che cita con malizia il jazz anni 30. Tra le ballads spicca la classicissima Shine on through, le altre (Shooting star, Georgia, la dolciastra caraibica Return to paradise) non vanno oltre l'elegante esercizio di stile. Anche la barocca Madness, cronaca di un attentato bombarolo, poteva essere assai migliore del risultato finale, malgrado l‘originalità e i virtuosismi pianistici.
Scelta con successo come secondo singolo, Song for Guy è la delicata e commovente strumentale composta in memoria di un giovane fattorino della Rocket vittima di un incidente in moto ed è l‘unica che raramente Elton esegue in concerto: purtroppo è difficile che rispolveri qualche perlina poco nota e A Single Man, pur non essendo un’ostrica tra le più ricche, non è nemmeno un guscio vuoto.

Voto 6/7

PS tra le versioni remastered quella di A Single Man è forse la più interessante: c'è il singolo Ego, ultimo brano scritto da Bernie prima della separazione, tra i più folli e meno orecchiabili di Elton (e infatti fu un bel fiasco), la sua B-side Flintstone boy, svagatamente country e uno dei pochissimi brani in cui il musicista firma anche il testo; quindi due gioielli scartati da Blue Moves: la magnifica, dolente piano-voce I cry at night e la briosa Lovesick. Infine Strangers, un lento che chissà come era finito a far da B-side al singolo Victim of love. Imperdibile: però si poteva far spazio anche a Dreamboat, proveniente dalle stesse sessions e finita in coda alla riedizione di Too Low For Zero (col quale non c'entra niente).


21 At 33

2012

Ci sono cantanti che anticipano o dettano le tendenze musicali e altri, come Elton John, che a volte vi si accodano senza grande convinzione. Dal libretto del cd apprendiamo che le canzoni di 21at33 vennero scritte e in parte incise nell’agosto ‘79, quindi è probabile che al progetto dance di Victim of Love (uscito in ottobre) non dovesse credere nemmeno lui; forse pensava di riconquistare le classifiche col minimo sforzo, limitandosi a prestare la voce e seguire la moda, e così il comprensibile flop travolse anche il povero 21at33 alla sua uscita nel 1980.
Per fortuna a livello artistico il ventunesimo LP del 33enne Elton si fa perdonare lo scivolone: non si concede alle nuove sonorità elettroniche (le tastiere di James Newton Howard sono usate banalmente in vece degli archi) ma tiene degnamente testa a Billy Joel, l’”Elton John d’America” che gli ha sottratto i favori del pubblico USA. Il romantico primo singolo Little Jeannie e la sua gemella Never gonna fall in love again ne richiamano un po’ lo stile, con i loro morbidi fiati, ma non valgono di certo una Just the way you are. Al contrario il rock iniziale Chasing the crown per grinta e potenza supera le varie, pur pregevoli Big shot e You may be right del collega.
Come già A Single Man, l'album è prodotto da Elton con Clive Franks, che se la cavano bene grazie ad un’ottima band cui fanno parte elementi dei Toto (Steve Lukather, David Paich) e gli Eagles ospiti ai cori della bella White lady white powder.
Non c’è più il genio dei primi anni 70 ma l'artista è ancora abbastanza in forma da scrivere una ballad da applausi (Sartorial eloquence) e spruzzare il suo pop di gospel (Dear God), country (Take me back), soul (Give me the love, trascinante), R&B (Two rooms at the end of the world, in cui riallaccia i rapporti con Bernie; gli altri parolieri sono Gary Osborne, Tom Robinson e Judie Tzuke, per lui un record). Risultato onesto, pulito, gradevole, ben confezionato: come un disco di Billy Joel, e meritevole di riscoperta.

Voto 7+



The Fox

2012

Una lavorazione travagliata, un’oscura cover elettronica come primo singolo, una serie di videoclip promozionali censurati: c’erano tutte le premesse per un disastro e invece
The Fox, pur essendo tra gli album di minor successo nella carriera di Elton John, si rivela ben lontano dalla mediocrità.

Di sicuro i rimaneggiamenti produttivi non l’hanno reso più immediato o commercia(bi)le -la Geffen, che era subentrata alla MCA come etichetta di Elton in USA, poco soddisfatta aveva commissionato dei nuovi brani a Chris Thomas e delle sessions iniziali, realizzate in Francia dallo stesso team di 21at33, è rimasto poco- e in questo modo, forse per puro caso, è uscito un disco variegato, inevitabilmente poco omogeneo ma con canzoni di buon livello pur senza veri capolavori.
Suggestiva la copertina, dove la volpe impagliata potrebbe simboleggiare il passato glorioso e ormai svanito del cantante, che “intrappolato” in uno schermo TV tenta di stare al passo con sonorità più tecnologiche e con una musica sottomessa all’immagine.
Può contare in questo senso su un asso nella manica di nome James Newton Howard, talento eclettico che garantisce una certa cura sonora su più fronti: conduce l’orchestra sinfonica nella strumentale Carla/Etude e gli archi nella ballad Chloe, ed è co-autore di un altro pezzo strumentale (Fanfare, stavolta elettronico) che le unisce in un medley; se nella “scandalosa” (e invece di una delicatezza rara) Elton’s song gli archi finti sono abbastanza fastidiosi, in Nobody wins (il primo singolo in questione, cover di un brano francese con testo adattato in inglese da Gary Osborne) la base dance è calibratissima e incalzante.
Nella mia preferita Heart in right place, rock-blues abbastanza tagliente, Howard inserisce dei synth pulsanti e pure un vocoder (per sfumare una parolaccia?): un gran bel pezzo, totalmente riuscito, così come vanno a segno le veloci Breaking down barries, Just like Belgium e Heels of the wind; apprezzo anche il ritmo marziale di Fascist faces, benchè non mi sia chiaro quali fossero i bersagli dell’invettiva di Bernie.
Sulle note malinconiche di un’armonica, una title-track molto anni 70 chiude il disco e dice addio all’Elton più suggestivo e meno imitabile: o meglio arrivederci, perché il volpone farà tanti album più facili e ruffiani ma prima di trovarne uno migliore di questo passeranno vent’anni esatti.
Qunidi The Fox è tutto da riscoprire come i suoi bei videoclip (grazie, youtube), se non altro per zittire quei critici che ancora lo stroncano, probabilmente senza nemmeno averlo ascoltato.

Voto 7+


Jump Up!

2012

Il titolo è fuorviante, la copertina simpaticamente anni 80: ma Jump Up! non è un album dance, è un consueto disco da Elton John, solo un po’ più mosso del solito.
La prima volta di Chris Thomas (dopo la produzione parziale di The Fox) è anche la migliore, ma con una band simile era impossibile far male: Jeff Porcaro alla batteria, Richie Zito alle chitarre, Dee Murray al basso e James Newton Howard che si occupa di archi e tastiere. Forse per merito di questo suono particolarmente robusto e scoppiettante, ai primi tempi il disco mi piaceva assai; purtroppo col tempo l’ho svalutato, lo rovinano in parte troppe canzonette facili e radiofoniche alla ricerca (ancor vana) della classifica perduta.
Dear John per dirne una, dove ritmo frizzante e gustosa autoironia mascherano un pugno di accordi ripetuti all‘usura; o Ball & chain, il più modesto tra i tanti country veloci del repertorio. Decisamente meglio Spiteful child e soprattutto la nervosa ballad Legal boys, prima e più bella collaborazione con Tim Rice.
Gli altri parolieri danno il peggio, Taupin con I am your robot e Osborne con Princess: al testo della prima Elton fornisce un ritornello altrettanto imbarazzante, nell’altra (scritta per Lady Diana ma già dimenticata ben prima che arrivasse la Candle in the wind funebre) le note sono gradevolmente prevedibili quanto le strofe.
Bernie comunque si riscatta con Empty garden (Hey hey Johnny), dedicata alla memoria di John Lennon, e con All quiet on the western front ispirata all’omonimo romanzo antimilitarista, due melodie commoventi interpretate in modo superbo.
Tra le cose belle aggiungo la hit Blue eyes, per il bel vestito orchestrale e un romantico tono da crooner alla Sinatra che il buon Elton non si è mai più degnato di replicare; infine la mia preferita Where have all the good times gone?, magnifica sia come album version (arrangiata con archi) sia in versione B-side velocizzata ed elettrica.
I bei tempi sono andati e non torneranno più, ma resta il buon mestiere e qualche sprazzo di talento: troppo poco per farne un grande album, troppo per condannarlo all'oblio.

Voto 6,5



Too Low For Zero

2012

Pochi anni fa,
Too Low For Zero era il mio preferito tra i dischi anni 80 di Elton John, perché ancora non conoscevo 21 at 33 e avevo stupidamente riposto The Fox dopo i primi, inerti ascolti; comunque anche oggi lo ascolto volentieri e lo reputo il miglior risultato dell’era Chris Thomas.
A lui si deve probabilmente il ritorno della band storica Johnstone-Murray-Olsson e di Taupin, che dopo collaborazioni sporadiche torna a scrivere tutti i testi, ma anche la decisione di sostituire il pianoforte con la tastiera. Una scelta nefasta che qui eccezionalmente funziona perché le canzoni sono tutte di livello medio-buono e sono divise in modo equilibrato tra brani tradizionali-pianistici e altri moderni ed elettronici.
Tra i primi spicca la hit I guess that’s why they call it the blues, un mid-tempo orecchiabilissimo ma mai banale arricchito dall'armonica di Stevie Wonder, quindi la ballad Cold as Christmas e l’orchestrale One more arrow, che cita il mio attore preferito (Robert Mitchum) e si fa perdonare un falsetto ormai anacronistico. I suoni sintetici invece fanno la fortuna di Crystal ma affossano Saint, una bella melodia parzialmente rovinata; molto interessante il brano che sposa le due sonorità, l’amarognola title-track dove alla base di synth e percussioni si unisce un ottimo bridge pianistico.
Tra i brani rock, le tastiere rendono il suono inutilmente piatto e edulcorato nell’altra hit I’m still standing e in Religion, mentre non fanno danni al muro di chitarre del terzo singolo Kiss the bride e alla tirata Whipping boy. Eseguita live, con un vero pianoforte, I’m still standing è ben altra cosa ma ci possiamo consolare: i singoli estratti con cura e gli azzeccati videoclip su MTV ridanno fiato alle vendite, gli anni magri sono terminati. Elton è ancora in piedi e può baciare la sposa.

Voto 6/7



Breaking Hearts

2012

Il rapporto sentimentale tra Elton e sua moglie Renate durò pochi anni e non lasciò eredi, quello professionale vide la presenza di lei come tecnico del suono in un pugno di dischi di lui, baciati da discreto successo commerciale, più europeo che americano.

Leggerino, spensierato e fin troppo orecchiabile, Breaking Hearts è il disco “nuziale” della coppia e come tale, teoricamente, avrebbe meritato un taglio d’eccezione, degno delle grandi occasioni; purtroppo, al contrario, ad ascoltarlo oggi lo trovo decisamente ordinario.
A parte Chris Thomas il team è lo stesso di Goodbye Yellow Brick Road, ma di quel grande album restano solo gli inconfondibili coretti di Davey, Dee e Nigel; siamo piuttosto in zona Too Low For Zero, rispetto al quale presenta canzoni globalmente più modeste e il medesimo difetto: il suono finto e industriale della tastiera Yamaha nei brani rock.
Le schitarrate in canzoni mosse come Restless, Slow down Georgie e Li’l frigerator sembrano disseminate per coprire l‘assenza di un pianoforte che si rispetti: per questo motivo preferisco nettamente il ritmo funky di Who wears these shoes?
Tra i lenti vecchio stile, la bella Burning buildings sovrasta le più scontate Breaking hearts e In neon. Non ci sono quindi grandi sorprese ed è meglio così, perché quando arriva Passengers, che tenta sonorità africane con un risultato da Zecchino d’Oro, rimpiango quasi Victim of Love.
Si prosegue con Did he shoot her?, che mi sembra la brutta copia di Radio GaGa dei Queen, infine la non travolgente hit Sad songs (say so much) chiude un album che sicuramente non è il lavoro peggiore di Elton, ma per il mio orecchio è forse quello meno interessante, tanto che a livello compositivo gli preferisco il successivo Ice on Fire, in genere più bistrattato.

Voto 5,5


Ice On Fire

2012


Leggendo il nome di Gus Dudgeon alla produzione, per la prima volta da Blue Moves, ci si potrebbe aspettare da Ice on Fire una sorta di ritorno allo stile dell’Elton John anni 70; al contrario, l'ascolto rivela un tuffo a capofitto nel pop anni 80 più smaccato.
Da amante delle novità, e data la scarsa consistenza del modello sonoro "vecchio-nuovo" lanciato da TLF0, già infiacchitosi al secondo capitolo, in teoria non mi sento di condannare questa svolta più radicale; oltre al fatto che nel 1985 buona parte delle rockstar della generazione di Elton si era adeguata alla nuova, redditizia tendenza, e tenendo conto della riscoperta/rivalutazione avvenuta in anni recenti di quelle sonorità a base di tastiere, bassi pulsanti e fiati squillanti, oggi riproposte da tanti nuovi artisti.
L’album, tra l’altro, parte bene con la travolgente, aggressiva This town e prosegue meglio con la drammatica ballad Cry to heaven, dove un leggero tappeto di synth non intralcia il pianoforte. In seguito si adagia su un pop blandamente soul-funky, lontano dall’estro compositivo dell'Elton migliore, più vicino a Phil Collins che a Donald Fagen, ma non sgradevole: Soul glove, Satellite, la romantica hit Nikita (dal suono talmente rinnovato che spesso ci si dimentica quanto sia bella la melodia) che ospita due divetti giovanili, Nik Kershaw e George Michael. Con il Wham, prossimo ad iniziare la carriera solista, duetta in Wrap her up, aggiornamento agli anni 80 di certe follie barocche del decennio precedente, non per tutti i gusti ma divertente almeno quanto il suo delizioso videoclip (vedere per credere!).
Il resto si può buttare, partendo dal pessimo lento Too young, che spreca la presenza di metà dei Queen (John Deacon, Roger Taylor), passando per le scarse Tell me what the papers say e Candy by the pound. Anche la conclusiva Shoot down the moon, pur essendo tra le poche oasi pianistiche, mi sembra noiosetta rispetto all’analoga Cry to heaven.
Tra i bonus dell’edizione remastered c’è una brutta B-side strumentale dedicata a John Lennon (The man who never died) ma manca il singolo Act of war in duetto con Millie Jackson, che era presente nella prima edizione cd: un vero peccato, perché quel brano hard-rock ci riporta a un Elton in grado di azzardare e convincere, e avrebbe risollevato la media di un album globalmente dignitoso ma troppo modaiolo per essere davvero rappresentativo nella discografia del suo autore.

Voto 5,5


Leather Jackets

2008



Se qualcuno oggi volesse procurarsi una copia di "Leather Jackets", album di inediti sfornato da Elton John nel lontano 1986, non lo troverebbe facilmente in quanto fuori catalogo, mai più ripubblicato nè rimasterizzato....con un po' di fortuna, cercando tra web e mercatini, potrebbe imbattersi in qualche copia in vinile o in CD dell'epoca, con tutte le limitazioni del caso...
Si dice che tutto ciò che è bello sia raro, ma non il contrario! Eppure...Oddio, facendo parlare i fatti e le realtà ufficiali quel qualcuno scoprirebbe che tale disco alla sua uscita non se lo filò nessuno (il picco più alto nella classifica USA?? #91....), che al giorno d'oggi lo stesso autore lo considera il suo peggior lavoro e che gran parte dei fans condivide il giudizio...e vabbè, ma ve li immaginate Madonna o Michael Jackson o i Beatles o i Queen che si ritrovano con un album di inediti totalmente rimosso? Inconcepibile!
Ecco, in quanto raro e poco noto, questo disco non dev'essere poi COSI' brutto come si dice: ascoltare per credere!
La copertina, in stile Andy Warhol, promette una buona dose di pop, e d'altronde siamo all'epoca del massimo splendore di Wham, Duran Duran, Paul Young e mille altre icone del pop anni '80, anche Elton all'inizio del decennio ha ridotto il pianoforte in favore di tastiere e synth nei suoi lavori in studio, sappiamo già insomma che non ci troveremo al cospetto di un "Honky Chateau"...
Appena messo nel lettore, si capisce che il difetto non sta nel quadro ma nella cornice: il produttore, si legge, è il mitico Gus Dudgeon, un nome una garanzia...ma che combina? Prende un brano rock pieno di energia come la title-track e lo annega nelle tastiere! E' l'andazzo generale, la tendenza è quella di prendere delle piacevoli canzoni pop e renderle fredde, sintetiche, robotizzate, senza vita!
La formula eltoniana, si sa, alterna brani rock ritmati a ballate pianistiche lente e intense, infatti subito dopo troviamo la bella Hoop of fire, che ci riporta alla mente le atmosfere malinconiche e liriche di certi suoi lavori anni '70, non fosse che dieci anni prima quel brano avrebbe avuto l'onore di arrangiamenti sontuosi, adesso sono miseri e sciatti...
Don't trust that woman invece è quasi danzereccia e, per quanto grossolana, resta abbastanza divertente, certo non meno di tante altre amene canzonette che Elton sfornava in quegli anni (Wrap her up, Town of plenty,...): udite udite il testo è firmato da Cher, e qui ci stava bene un duetto, visto che la diva di "Bang bang" e "Believe", quanto a look eccessivo e versatilità musicale, è quasi una Elton in gonnella!
Il duetto arriverà puntuale, ma con la vecchia gloria Cliff Richard, forse in omaggio ai tempi del piano-bar in cui il giovane Reg Dwight aveva in repertorio i successi del collega...il brano è Slow rivers, secondo singolo (inutilmente) estratto, forse la cosa meno storpiata dalla produzione, forte degli arrangiamenti orchestrali curati dall'ottimo James Newton Howard, qui in una delle sue ultime collaborazioni con Elton.
Lo stesso non si può dire di Go it alone, un brano potenzialmente quasi hard-rock totalmente svilito e castrato da brutti suoni sintetici...peccato, perchè il ritmo fa battere il piedino!
Gypsy heart è una ballatona enfatica con cori gospel, molto "già sentita" ma non brutta nè mediocre, anche se chi scrive preferisce i toni country di Memory of love, dove troviamo per l'ultima volta una lirica firmata Gary Osborne: a parte queste due eccezioni, tutto il resto è opera del fido Bernie Taupin.
Sempre chi scrive è letteralmente pazzo per i due brani successivi: Heartache all over the world, primo singolo, con quel coretto "girls girls" e tanti synth da seppellirci una carriera intera, eppure incredibilmente allegra, con un ritornello che rimane irresistibilmente in testa senza riuscire a sfrattarlo.
E poi Angeline, dalle vaghe atmosfere rock'n roll anni '50, altro coretto buffo sovrapposto al rombo di una moto, altro brano un po' burino eppure davvero simpatico....vi suona metà dei Queen (John Deacon e Roger Taylor), ma rispetto all'altra loro collaborazione con Elton (la brutta Too young, sull'album precedente) non c'è neanche da mettere!
Concludono l'album le atmosfere leggere e acustiche di Paris e quelle melodrammatiche di I fall apart, dove il ricorso all'elettronica è decisamente più accorto e minimale.
Una parolina sulle outtake finite tra le B-sides ma assolutamente meritevoli, nella speranza che un giorno vengano ripescate dall'oblio: Lord of the flies, Billy and the kids, Highlander, tre gioiellini di cui l'ultimo si inserisce tra le bizzarrie strumentali eltoniane (vedi Hay Chewed o Earn while you learn).
Insomma, alla fine Leather Jackets non sarà figlio dell'Elton genio di "Tumbleweed Connection", ma nemmeno di quello tedioso e sdolcinato di "Aida", Electricity, All that I'm allowed....non vi pare?!

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Revisione 2012

Mia colpa, mia grandissima colpa. Rileggendo quanto scritto in passato, devo ammettere di essermi lasciato trasportare, per due motivi: ero schiavo del pregiudizio “disco raro = disco bello” e non davo grande importanza al lato tecnico (produzione, arrangiamenti) delle canzoni nel loro giudizio complessivo.  E devo ammettere che da questo punto di vista Leather Jackets è scadentissimo, non tanto per l'uso dell’elettronica in sé (comunque dozzinale rispetto ad Ice on Fire) ma per il senso di sciatteria e povertà che affligge anche quei brani dove il ricorso ai suoni sintetici è più limitato.
Quindi un lavoro mediocre ma non indecente, perché composto da melodie passabili, senza infamia e senza lode (tranne Hoop of fire, davvero bella): e sto ancora aspettando la remastered!

Voto 5



Reg Strikes Back

2012


E’ vero che la voce di Elton John aveva subìto mutamenti ben prima dell’intervento alle corde vocali del 1987, ma ciò non toglie che un profano faticherebbe ad associare la stessa persona ascoltando di seguito un suo disco dei primi 70 e Reg Strikes Back, l'album del ritorno sulle scene. Quale altro celebre cantante può dire di aver vissuto un destino analogo? L’unico che mi sovviene è il mio amatissimo Gino Paoli…
Il fatto che io l’abbia conosciuto con questo lavoro, tuttavia, cambia la prospettiva: la voce del “mio” Elton è quella di fine anni 80-primi 90, meno duttile e versatile ma piena, matura, leggermente nasale, più potente rispetto al tono “da castrato” (Elton dixit) dei primi tempi.
Anche a livello artistico la riflessione si fa soggettiva, perché ero un bimbo quando guardavo un programma RAI pomeridiano per l’infanzia che aveva per sigla il videoclip di Town of plenty ed ero ipnotizzato da quel buffo ed eccentrico Willy Wonka pianista; per anni, prima di interessarmi seriamente alla (sua) musica, ho avuto la ferrea convinzione che quel brano fosse la più irresistibile canzone pop mai scritta.
Di certo molti fans italiani sono tali grazie a questo album, che a sorpresa (visto il flop inglese) fu un successone nel nostro Paese, trainato anche dal secondo singolo A word in Spanish, solare ballata in pieno boom del pop latino. Ancora oggi lo ascolto con piacere benché mi appaia per quello che è: un Leather Jackets più bello, più ispirato, più brioso, confezionato meglio ma ugualmente infarcito di suoni elettronici di grana grossa alternati ad inutili schitarrate, lo stesso difetto che gravava sul più dozzinale Breaking Hearts.
Il pezzo forte è I don’t wanna go on with you like that, giustamente estratto come primo singolo, con ritornello killer e martellante incedere di tastiera e batteria: è il pop che sconfigge il rock ma in questo caso l’arrangiamento danzereccio è l’arma vincente.
Quindi, a parte le già citate, in ordine di gradimento scelgo: Since God invented girls, ultimo di una breve serie di gioiellini adornati dai cori dei Beach Boys; Poor cow, rabbiosa nel tono e nel testo; Mona Lisas and mad hatters (part two), che in molti considerano un insulto all’originale e invece dimostra la versatilità di un musicista che passa senza problemi dalla delicatezza acustica all’energia funky (grande assolo di tromba!); le ballate elettroniche The camera never lies e Japanese hands e, infine, due canzoncine veloci, una elettrica (Goodbye Marlon Brando) e una acustica (Heavy traffic), troppo easy ma senza infamia.
Pur con tutti i limiti dell’Elton mestierante, mi è impossibile voler male a questo disco.

Voto 6,5


Sleeping With The Past

 2012


Acquistato da mio fratello a pochi mesi di distanza da Reg Strikes Back, anche il successivo Sleeping with the Past ebbe una parte da leone nella colonna sonora della mia fanciullezza.
Ma, a differenza dell’altro, riascoltandolo oggi devo esprimere qualche riserva in più, di fronte alle maggiori ambizioni del suo autore non confluite in un miglior risultato: la dedica di Elton e Bernie ai “pionieri della musica Soul anni 60 e 70”, quasi superflua dato che fin dagli esordi non mancarono mai le sfumature nere nelle loro canzoni, si scontra infatti con scelte sonore in cui Chris Thomas estremizza l’estetica plastificata anni 80, alla Ice on Fire per intenderci, e non occorre essere esperti o appassionati di Motown, Stax & co. per notare che, se questo voleva essere un esercizio di stile retrò, allora perde notevolmente il confronto sia con certi brani di Don’t Shoot Me, sia con l’analogo An Innocent Man di Billy Joel.
Un esempio lampante: i fiati sono tutti sintetici, con l’eccezione del sax in Club at the end of the street (forse per non far rivoltare nella tomba il povero Marvyn Gaye, citato nel testo), e ammazzano le potenzialità di brani come la title-track o I never knew her name.
Passata l’amarezza di sentire Elton alle prese con arrangiamenti da piano-bar (la ballad Whispers è forse la peggiore in questo senso), restano le canzoni; alcune, decisamente buone, riescono a difendersi: Durban deep, sorprendentemente dura e martellante; la coinvolgente Healing hands, carica di ottimismo; Amazes Me, tinta di blues e gospel; la malinconica Blue Avenue, dove finalmente si sente un pianoforte decente, offeso però da una tromba finta.
Ci sarebbe anche Sacrifice, ruffianata di grande e immeritato successo commerciale, in grado di riportare Elton in vetta alle classifiche inglesi, con l’effetto collaterale di spingere una grande rockstar a dispensare zuccherini per un decennio.
Concludendo: se lo si considera un album di black music, è un bidone; come album pop, funziona a dovere; come album di Elton John, resta un’occasione mancata.

Voto 6


The One

2012

Riconquistato un certo peso nelle classifiche, nei primi anni 90 Elton John si disintossica finalmente dalla dipendenza da alcool e droghe: l’album
The One, anno 1992, rappresenta una sorta di grande ritorno, a livello personale prima che artistico o commerciale.

Già ai tempi di Reg Strikes Back Elton aveva detto addio a tutto il kitsch di scena ed ora si presenta con un look serio ed essenziale, in linea con canzoni meno poppettare, più sobrie e riflessive. Ma mentre evapora la sbornia elettropop e si riafferma il rock, in concorso di colpa con Chris Thomas insiste con la tastiera Roland (tristemente impiegata anche durante i concerti) al posto del pianoforte e, non contento, elimina la batteria a favore di una drum machine sintetica.
Emblematico di tali scelte, il primo brano Simple life sembra una canzone di Bob Dylan suonata dai Pet Shop Boys, con tanto di armonica finta: nulla contro i PSB, grandi nel loro genere, ma la crisi di rigetto arriva inevitabile. Oppure Whitewash County, definita testualmente “country-rock”, ma se non l’avessi letto, non l’avrei mai detto. O Emily, che farebbe una discreta figura in un disco come The Union ma qui mi suona quasi inascoltabile. Una dissennatezza sonora che fa a pugni con l’esibita eleganza della copertina, firmata Gianni Versace.
Più convincenti, sotto questo aspetto, due pezzi meno canonicamente "alla Elton": Sweat it out, che offre inoltre una coda piano-jazz da applausi, facendo nascere il rimpianto per quanto poco l'autore abbia frequentato il genere; e Understanding women, dove tra ossessivi suoni elettronici trova posto la chitarra tirata di David Gilmour.
Un altro ospite rinomato è Eric Clapton, che suona e canta nel bel duetto rock Runaway train, mentre On dark street conserva tutti i difetti pseudo-soul di Sleeping with the Past e delude.
Tra i lenti, svetta la celeberrima title-track, trionfo di romanticismo eltoniano, non rovinata dall’arrangiamento (pregevoli, al contrario, dettagli come il rumore del mare e dei gabbiani in sottofondo); quindi The last song, toccante ma non all’altezza dell’iniziale citazione beatlesiana, la melodicamente valida The North e When a woman doesn’t want you, sdolcinata con moderazione, ma avrebbe meritato l’album anche la bella b-side Suit of wolves inserita nell’edizione remastered.
Se questo disco avesse il vestito di un Made in England o un Songs From the West Coast lo definirei un lavoro molto buono: così com’è, lascia ancora una volta l’amaro in bocca.

Voto 6,5

Duets

2012


Ho sempre detestato le compilation, quelle ammucchiate di canzoni accomunate esclusivamente dall’appartenenza alla stessa casa discografica; col tempo ho iniziato a odiare anche i greatest hits, ormai li tollero solo se sono (come minimo) doppi e cronologici.
Detto questo, per recensire dettagliatamente Duets ci vorrebbero fiumi di inchiostro o di pixel e, francamente, non ne vale la pena: nella discografia di Elton John rappresenta un capitolo poco rilevante. Non che sia un brutto disco, semplicemente è una compilation e forse l’unico aspetto interessante nasce dalla sua natura bizzarra, per usare un eufemismo, in cui musicalmente convive di tutto un po‘.
Si alternano ritmi dance (la bella Teardrops con k.d.lang) e romanticismi da crooner (True love con la fida Kiki Dee: ma perché, tra i tanti capolavori di Cole Porter, scegliere proprio questo non esaltante brano?) e ogni canzone ha una sua genesi produttiva autonoma. Quasi tutte, inoltre, provengono da repertori altrui o sono state scritte per l’occasione dagli artisti ospiti, e tra queste ultime non c‘è nulla di buono.
A ben pensarci, però, si tratta di una intuizione intelligente: evitare di far scempio dei successi di Elton, poco adatti a essere eseguiti in coppia (incubo purtroppo realizzato in seguito dal terribile live One Night Only), allontanando così quell’odore stantio di decadenza artistica e/o autocelebrazione di un passato glorioso che spesso emanano gli album di duetti. Non a caso, i due inediti John/Taupin sono studiati accuratamente per la doppia voce: l’ottimo rock-funky The power con Little Richard e la più scontata ballatona A woman’s need con Tammy Wynette, e se avessero applicato tale criterio a tutto il progetto, sarebbe uscito un album vero e proprio, magari di buon livello. E anche i pochi remakes sono azzeccati: la Don’t let the sun go down on me dal vivo con George Michael, già uscita come singolo due anni prima, e il remix targato Moroder di Don’t go breaking my heart con la drag-queen RuPaul, ironico ritorno al kitsch sfrenato.
Il meglio arriva alla fine, con due perle estratte dal canzoniere classico americano: Love letters con Bonnie Raitt e Born to lose in un magico incontro con la rochissima voce di Leonard Cohen.
Facilmente stroncabile se lo si considera un album, trattandolo da compilation Duets acquista punti e si lascia ascoltare, talvolta anche con piacere.

Voto 6


Made In England

2012

Fresco di Oscar, di Grammy, di ingresso nella Rock and Roll Hall of Fame (introdotto da Axl Rose!), di una rinnovata popolarità, che cosa manca all’Elton John del 1995?

Un fidanzato, direte voi maliziosi…errore: a partire da Made In England la voce “David Furnish” inizia a comparire nei sempre più chilometrici ringraziamenti-credits!
Scherzi a parte, l’album in questione riflette la volontà dell’autore di tornare a fare del rock di qualità, nello stile del periodo d’oro, dopo troppi anni di plastica, proseguendo in quel cantautorato riflessivo che in The One era stato parzialmente vanificato dalla produzione. Da dettagli come i titoli delle canzoni formati da una sola parola (ma la copertina è quanto di più anonimo ci sia) si comprende l’ambizione di fare un album e non una semplice raccolta di brani da dare in pasto alle radio e finalmente la produzione si rivela molto adeguata, sia nella strumentazione che nella resa sonora. Onore poi alla scelta come primo singolo di Believe, quanto di più maestoso Elton abbia composto dai tempi di Ain’it gonna be easy, una canzone NON d’amore ma SULL’ amore come sentimento puro e universale, che Bernie evoca in pochi magistrali versi.
Purtroppo, a questo iniziale gioiello fanno seguito la title-track, uno dei suoi rock più piatti e commerciali di sempre, e il lento orchestrale (ma più confidenziale…) House, perfetto per combattere l‘insonnia. Dopo una Believe in minore (Cold), e un rock più decente (Pain), benchè leggermente scopiazzato da hits altrui (Rolling Stones, Duran Duran), Elton resuscita la gloriosa suite orchestrale, peccato che Belfast stia a Tonight come Federico Moccia a Somerset Maugham: ci sono gli archi di Buckmaster ma non la drammaticità di Elton John o la visionarietà di Madman Across the Water. Ma sono assenti anche le influenze del rock americano, quindi è meglio evitare i confronti col passato e assaporare l’album come un esempio di rock sinfonico meno eltoniano e più beatlesiano, o comunque “made in England”, a base di piano, archi e sferzate elettriche, mai abbastanza ruvide. E proprio il mitico George Martin fa capolino nell’arrangiamento del bel (brit)folk Latitude, primo di una serie di brani che, se non altro, risollevano il livello: il piacevole (brit)pop Please, le ballate Man (all’organo hammond) e Blessed (dal sapore latino), la ritmata Lies.
Globalmente, il difetto del disco è nel manico, nell’ispirazione non all‘altezza delle ambizioni, talvolta smarrita in un alone di pesantezza e noia: un parere del tutto personale, però a questo Elton (improbabilmente) elegante e patinato preferisco l’onesta popstar (con tutto il suo carico di kitsch) di 21at33, TLF0 o Reg Strikes Back.

Voto 6+


The Big Picture

2012

Prima di frequentare il “Bad Side Forum”, non avevo proprio idea di quanto sia generalmente detestato The Big Picture, album che ascoltavo spesso quando uscì (ricordo che fu un gran successo in Italia) e che seguitava a piacermi anche dopo aver conosciuto l’Elton degli anni 70. In sostanza, gli aspetti critici sono tre, che proverò a ridimensionare:

1) Fattore Diana: il disco viene alla luce in un periodo in cui l’immagine di Elton, più che di un artista, sembra quella di buon samaritano del jet-set internazionale, e il riciclo di Candle in the wind come requiem per l’amica Lady D, che gli regala nuova popolarità a buon mercato, suona come il colpo di grazia. Eppure, l’ispirazione si mantiene su livelli dignitosi, come dignitosa è l’assenza del brano in questione dalla track-list, nemmeno in qualche “deluxe edition” come si usa oggi.
2) Fattore noia: monotono e abbastanza tedioso, ma non meno di altri suoi dischi (Made in England e Peachtree Road su tutti), riesce comunque a non far esondare la melassa e a mantenersi su un tono malinconico, com’è giusto per un lavoro segnato dai lutti (è dedicato a Versace). E le interpretazioni vocali sono tra le più belle di sempre, in grado di fare la differenza anche nei momenti più stucchevoli come Recover your soul.
3) Fattore Chris Thomas: un ritorno ingiustificato (l‘ultimo, per fortuna), che in anni di brit-pop tenta di svecchiare le melodie con un pesante impasto di chitarre, elettronica e orchestrazioni; a volte il suono è accettabile (il singolo Something about the way you look tonight, la title-track, la dance-rock Wicked dreams), più spesso raggiunge inauditi livelli di sciatteria (le altrimenti valide Long way form happiness e Live like horses, un omaggio al melodramma italiano già inciso con Pavarotti). Tuttavia, trattandosi di un album costituito principalmente da canzoni pop (c’è appena un accenno di gospel nella bella If the river can bend, il brano che preferisco), con un arrangiamento tradizionale sarebbe uscito un Made in England più scontato: si poteva quindi azzardare qualcosa di moderno e all’avanguardia, magari anticipando di qualche mese il Ray of Light di (Madonna e) Patrick Leonard…
Così com‘è, se lo riascolto oggi mi appare un’opera di puro mestiere: considerando che l’Elton mestierante è durato quasi un ventennio, questo capitolo è forse uno dei più solidi e potabili.

Voto 6,5



Aida

2012


Elton John e il teatro musicale: due mondi destinati inevitabilmente ad incontrarsi, dove però il nostro non mai dato il meglio, al contrario esasperando la tendenza alla noia e alla pesantezza dei suoi dischi anni 90.
Aida ne potrebbe essere l’esempio più calzante: se l’idea di rifare Verdi in chiave rock già sapeva di pacchianata, la certezza di una pop-opera (di rock manco l’ombra) prodotta dalla Disney per il suo circuito teatrale elimina ogni residuo interesse.
I demos cantati dall’autore in realtà non sono male, relativamente all’Elton da radio AC in stile The Big Picture; l’album ufficiale, invece, compie l’errore di far interpretare questi brani ad altri artisti (forse alla Disney avevano tanti soldi da spendere), a riprova che lo stile di Elton è difficilmente coverizzabile. Qualche nome di peso riesce a lasciare un’impronta personale - Sting in Another pyramid, Tina Turner in Easy as life, James Taylor in How I Know you, Lenny Kravitz in Like father like son - , per il resto il livello dei demos peggiora puntualmente in tronfie, zuccherose, plasticose esibizioni di bel canto. La voce di Elton si sente solo in quattro duetti di gusto sanremese, tra cui il brano portante Written in the stars (con LeAnn Rimes), dei quali il meno peggio è The messenger con Lulu. Si salva indubbiamente Anneris’letter eseguita da Shania Twain, un piano-voce breve e intenso che, solo soletto, rende un buon servizio al demo originario.
Nel complesso, un album-compilation da dimenticare per il musical eltoniano meno interessante, perché un lavoro palesemente su commissione: se non altro, The Lion King è ormai un classico (e tratto dal miglior cartone Disney degli ultimi 30 anni), Billy Elliot è un progetto sentito e semi-autobiografico (l’unico brioso, benché musicalmente molto mediocre) e The Vampire Lestat, unico flop e scritto con Bernie, azzecca la giusta atmosfera cupa e opprimente, infilando in mezzo alla noia qualche autentico gioiello, “teatrale” nel miglior senso del termine.
Per fortuna, o purtroppo, da questi tre musical non è mai stato tratto un album ufficiale analogo ad Aida, ma il fan sfegatato-completista può accontentarsi di qualche demo.

Voto 4,5
(Voto ai demos 5,5)


The Road To El Dorado

2012


Ironia della sorte: la colonna sonora del Re Leone conteneva solo tre brani interpretati dall’autore ma vendette milioni di copie, al contrario The Road to El Dorado, altro soundtrack di un altro cartone, nacque a tutti gli effetti come album di inediti di Elton John (con tre strumentali di Hans Zimmer in coda) ma passò inosservato.
Come il film del resto, in realtà non disprezzabile esempio di cartoon Dreamworks “serio” prima della svolta ridanciana dei vari Shrek: ma alla casa di Spielberg non bastò assoldare il trio d’oro John-Rice-Zimmer per evitare uno dei suoi pochi fiaschi.
Quanto al disco, mi vien da dire “meglio così”: tutto l’Elton più lagnoso sembra essere finito in questo lavoro all’insegna del pop latino (non esattamente la passione di chi scrive…ma A word in Spanish questi brani se li mangia quasi tutti!), con Friends never say goodbye che potrebbe fare una discreta figura nel repertorio di qualche boyband (la partecipazione dei Backstreet Boys non è ufficializzata, forse per l’imbarazzo, ma purtroppo si sente benissimo), Whitout question che conta su ospiti più rinomati (gli Eagles) ma non suona meno sdolcinata, la ninna-nanna The panic in me…e il poco invitante rock 16th century man che non offre alcuna consolazione. Decisamente preferibili altre ballads come la malinconica My heart dances, Queen of cities con i coretti di Davey e Nigel, l’efficace brano di lancio Someday out of the blue. Solo simpatica It’s tough to be a god, duetto a ritmo di bossa con un Randy Newman in libera uscita dai cartoni Pixar.
All’improvviso, in mezzo al deserto spunta The trail we blaze, country veloce che miracolosamente ricorda a tutti quanto è bravo Elton a scrivere brani di questo tipo e quanto se ne sentisse la mancanza. Trust me, invece, sembra uscita da Ray of Light e fa risaltare l’altro punto di forza dell’opera: la bella produzione di Patrick Leonard, in equilibrio tra suoni acustici ed elettronica di qualità, con un pianoforte finalmente rimesso in spolvero: di lì a pochi mesi sarà tutta un’altra musica, ma le fondamenta di Songs From the West Coast sono gettate.
El Doardo: ultimo atto della decadenza artistica o prima fase della rinascita? Probabilmente sono vere entrambe le affermazioni, personalmente opterei per la prima.

Voto 5/6


Songs From The West Coast

2012

Nel 2001 guardavo spesso MTV (si sa, da giovani si fanno molti errori), senza trovare nulla di appagante fuor dello sfizioso (e talvolta eltonesco) pop di Robbie Williams. Improvvisamente, due vecchie volpi fecero uscire nello stesso periodo due brani che sembravano provenire direttamente da metà anni 70: uno era You rock my world, ultima hit di Michael Jackson prima del tragico declino, l’altro I want love di Elton John, ed erano accompagnati da memorabili videoclip, rispettivamente una variazione sul tema noir-gangster di Smooth criminal e un lungo, tortuoso piano-sequenza incollato a un pensoso Robert Downey jr. Da buon samaritano, Elton lo fece uscire di galera apposta per girare il video, e da lì l’attore avrebbe ricostruito la propria carriera…

Songs From the West Coast, di cui I want love era un ottimo antipasto, mi piacque moltissimo fin dal primo ascolto, ma fu solo dopo la scoperta di tutta la discografia eltoniana che ne compresi appieno il valore, nell’ispirazione come nella confezione. Prendete Emperor’s new clothes: gli accordi sono complessi, imprevedibili, sorprendenti, il pianoforte sembra esplodere in un boato liberatorio dopo anni di umiliazioni e Patrick Leonard gli affianca basso, batteria e archi-di-Buckmaster nel più inconfondibile stile Madman Across the Water. Incredibile ma vero, è proprio il produttore di Madonna ad ottenere l’arrangiamento “ricco ma essenziale” che più si avvicina alle migliori prove di Gus Dudgeon, che si completa con un suono pulito, limpido, tirato a lucido senza essere banalmente radiofonico o inutilmente ruffiano, e che valorizza al meglio una band eterogenea dove trovano posto Nigel e Davey, Jay Bellerose e Matt Chamberlain, Stevie Wonder e Billy Preston, Gary Barlow e Rufus Wainwright.
Ma è l’ispirazione a fare la differenza con tutto l’Elton post-Blue Moves: la scrittura è più cantautoriale, non piagnona ma toccante, Bernie affronta temi scottanti come l’omofobia (American Triangle) e l’AIDS (Ballad of the boy in the red shoes) e anche quando l’Elton al miele riaffiora (Original sin) lo fa con eleganza, la stessa che eleva il riempitivo (Dark diamond, che avrei sostituito con una a scelta tra le magnifiche B-sides scartate, magari God never came here); e quando si getta nel puro pop (Love her like me) il risultato è delizioso.
Solo ballads, dunque? Nossignore! Prima della chiusura, con la suggestiva Mansfield e la meravigliosa, autobiografica This train don’t stop there anymore (per chi scrive, il suo lento più bello e commovente dai tempi di Idol), c’è spazio per The wasteland, un tagliente omaggio alle radici del blues che, finora, resta il rock più vispo del suo ultimo periodo (diciamo, del post-Wake up Wendy), e per due brani che giocano col folk-country (Look ma’, no hands e Birds), segnando l’inizio del riavvicinamento dell’autore al rock americano e quindi allo stile degli anni migliori.
Un lavoro importante West Coast, che apre la fase neoclassica di Elton, al quale però non è più riuscito, dopo questo disco, il colpaccio di conciliare buone vendite e ottime critiche, soddisfare il fan storico e lo spettatore di MTV, chi vuole la hit a tutti i costi e chi pretende a ragione qualcosa di più raffinato.

Voto 7/8




Peachtree Road

2012


Non conservo un buon ricordo di Peachtree Road, lanciato (affossato) da un singolo di rara mediocrità e scialbezza (ok, direte che Heartache all over the world era peggio: ma almeno era canticchiabile!): dopo aver sentito All that I’m allowed passai una notte insonne nel timore che tutto l’album fosse allo stesso livello; fortunatamente, il primo ascolto del disco mi fece tirare un sospiro di sollievo ma fu sufficiente per notare una certa disarmonia tra una prima parte quasi ottima e una seconda (o meglio, una parte centrale) abbastanza modesta.
Troppa ambizione, Sir Elton: è arduo tornare sui passi di Tumbleweed Connection quando l’ispirazione e la voce (qui particolarmente fiacca e appesantita) non sono più quelle di un tempo. Certo, all’inizio ci si esalta grazie a Weight of the world e Porch swing in Tupelo, col loro impasto di gospel e country, Turn the lights out when you leave ci fa piangere e sognare gli orizzonti e i cieli infiniti dell’America rurale, My elusive drug non può non richiamare alla mente qualcosa di Talking old soldiers, fatte le ovvie proporzioni; anche la più commerciale Answer in the sky non manca di interesse, con quell’attacco di violini che ricorda Philadlephia Freeedom.
Purtroppo, dopo l'intorpidito rock’n roll They call her the cat, il letale primo singolo e Freaks in love, valzerone che sembra un’auto-parodia, l’album inizia a soffrire e tutta l’ultima parte, con l’eccezione di Too many tears, procede per inerzia tra la monotonia.
Insomma, un disco di buone intenzioni ma dal risultato altalenante, praticamente un rodaggio per i successivi The Captain and The Kid e The Union, più ispirati e convincenti nel ritorno al rock americano. La band, che oltre a Nigel e Davey comprende i compianti Guy Babylon e Bob Birch, si mostra comunque all’altezza della situazione ed Elton, qui produttore in solitaria, riesce a creare il giusto sound (Patrick Leonard, inizialmente coinvolto, probabilmente non sarebbe stata la scelta più adatta per un lavoro di questo genere), ma senza un valido sostegno compie qualche passo falso: chi dobbiamo ringraziare per avere relegato a B-sides gioielli come So sad the renegade, A little peace, Keep it a mystery, How’s tomorrow? Sostituendoli alla zavorra, ecco a voi quell’album di alto livello che Peachtree Road non riesce ad essere.

Voto 6,5


The Captain & The Kid

2012


The Captain and The Kid
, ovvero la perla nascosta della discografia di Elton John: pubblicizzato a malapena dalla casa discografica, rifiutato dal pubblico (specie in USA, dove Captain Fantastic spopolò), non particolarmente amato da quella critica che aveva osannato Peachtree Road…adorato dal sottoscritto fin dal primo, folgorante ascolto. A distanza di anni, mi è ancora difficile stabilire una preferenza tra questo album e Songs From the West Coast, di certo si tratta due opere non sovrapponibili, benché accomunate da una ritrovata ispirazione: il suono crudo e diretto, magari anche grossolano, mai ammorbidito (archi grandi assenti), oltre alla prevalenza (finalmente!) di brani medio-veloci, ne fa uno dei suoi lavori più rock, con un pianoforte strepitoso e chitarre sferzanti (Davey è sempre meglio nei lavori in studio che dal vivo, ma qui fa davvero un figurone).
Un disco necessario: Captain Fantastic non poteva non avere un seguito, ed ecco di nuovo l’epica del capitano e del cowboy, stavolta alle prese con le gioie di una vorticosa scalata al successo globale e i dolori delle sue conseguenze. L’euforia va a braccetto con la malinconia, l’auto-celebrazione sfuma nel rimpianto per l’innocenza perduta: in questo senso, brani agrodolci come Postcards from Richard Nixon, Tinderbox e Old ‘67 sono perfetti nel racchiudere il senso dell’operazione-nostalgia, ma l’Elton da fazzoletti colpisce ancora con la straziante Blues never fade away, che sta agli anni zero come Candle in the wind stava ai 70 ed Empty garden agli 80.
Dovendo trovare un difetto, a parte la scelta come singolo del brano meno adatto, la semplice ed esangue The bridge, direi che le troppe citazioni e auto-citazioni, peraltro mai pedanti, lo rendono palesemente un disco “già sentito”: c’è Bob Dylan omaggiato in I must have lost it on the wind, il rock'n roll delle origini nella gagliarda Just like Noah’s Ark, la title-track si apre e chiude sulle stesse note del brano che introduceva l'album del 1975…And the house fell down addirittura ricorda vagamente un’oscura B-side di Leather Jackets (Lord of the flies), ma è anche il genere di canzone swingante che attendevo da secoli da Elton, che nel bridge si concede la prima e finora unica “rappata” della carriera.
Con tradizione e creatività, come negli album migliori, il cantautorato ispirato ai generi classici americani come blues e country diviene un pop-rock sfavillante e inimitabile; meno raffinato e purista di The Union, ma più sentito e personale, questo è attualmente il miglior Elton possibile, nella fiduciosa attesa di essere smentito dal The Diving Board prossimo venturo.

Voto 7/8



The Union

2012

Leon Russell, chi era costui? Provando a immaginare un Elton John defilato e di nicchia, si otterrebbe una figura non lontana da quella di Russell, l’uomo che nel 1970 diede un contributo importante al successo in terra americana del giovane inglesino.

Quarant’anni dopo, l’inglesone mette in cantiere un disco a quattro mani con l’antico maestro, a compimento del percorso di riscoperta delle proprie radici musicali. L’incontro tra il Re Sole del pop e il vecchio capellone che, superata l‘età della pensione, gira ancora gli States con la band a bordo pulmino (!), costituisce di per sé un evento imperdibile e la regia di T-Bone Burnett, eminenza grigia di tanto “roots rock” americano, garantisce la qualità.
Si parte giustamente con Leon e la sua If it wasn’t for bad, brano R&B aperto da un coro gospel valido come dichiarazione di intenti per l’intero progetto: scopro così un artista in forma, per nulla imbolsito, dal piglio aggressivo, lo stesso che ritrovo in Hearts have turned to stone. Molto bella anche I should have sent roses su testo di Bernie, un brano più “alla Elton“ che Burnett saggiamente differenzia con un arrangiamento in stile vecchia Motown. Ed è impossibile trattenere le lacrime sul gran finale In the hands of angels, perdonandogli la vistosa somiglianza a Que Serà di Feliciano (la scrisse Jimmy Fontana, ma questa è un’altra storia…grazie, wikipedia!)
Quanto ad Elton, con la ballata per cuori spezzati Eight hundred dollar shoes dimostra di saper ancora fare cose meravigliose con vecchie idee melodiche e un arrangiamento minimale, poco più di un piano-voce. Nel rock di Hey Ahab e della quasi improvvisata A dream come true, unico pezzo firmato John-Russell, più della melodia (buona) vale lo spettacolo del duello-duetto pianistico, e lo stesso discorso si può applicare a Jimmie Rodgers’ dream: non è migliore di analoghi brani country dell’ultimo Elton ma è quello con la veste sonora più genuina e "doc". Personalmente, all’interno di un lato A di altissimo livello, scelgo come gemme la desolata tristezza di Gone to Shiloh, racconto di vecchi soldati parlanti in ritirata dal fronte sudista, che trova nella terza voce di Neil Young un ospite mai così azzeccato e in sintonia, e di There’s no tomorrow, in cui Elton fa suo il lamento degli schiavi neri in catene sulla base di un vecchio brano gospel di James Timothy Shaw, citato tra gli autori assieme al trio John-Russell-Burnett.
Ovviamente, su sedici brani non tutto è imperdibile: Monkey suit, in teoria il rock di punta, è solo la bella copia di They call her the cat (dove i fiati, però, suonavano molto meglio); When love is dying soffre di pesante disequilibrio tra strofe e bridge splendidi, in omaggio al crooning di Sinatra, e un ritornello enfatico che travolge anche i cori di Brian Wilson; negli altri brani più melodici (The best part of the day, Mandalay again) non brillano particolarmente né l’Elton autore né il Leon interprete; e in generale, talvolta ho l’impressione di un disco più “vecchio” che “classico“, dovuta in parte allo spaesamento di chi predilige sonorità, se non power-pop, comunque più roboanti e d’impatto, e in parte ad un Burnett-style più purista che energico.
Riserve che passano in secondo piano quando, prima della fine, arriva Never too old, il duetto che racchiude il senso di tutto l’album: non si è mai troppo vecchi per fare della buona musica. L’unione fa la forza e The Union, al di là dei gusti personali e del suo effettivo valore, resterà un pregiatissimo pezzo unico nella discografia del nostro Elton.

Voto 7,5




Pnau - Good Morning To The Night

2012

Ogni tanto, le popstar di un certo tipo danno in pasto ai fans oltranzisti un album di remix, ma a quali fans può interessare un simile progetto a firma Elton John? Oddio, spesso gli si rimprovera di aver flirtato con l’elettronica negli anni 80 e 90, in realtà il fatto è che, a parte qualche caso isolato, in quei dischi la si è usata nel modo più banale e modaiolo, senza la minima creatività. Un album di remix poteva anche avere un perché ai quei tempi, ma ha senso realizzarlo dopo The Union? Anche al sottoscritto, che considera l’eclettismo una virtù, pare una scelta demenziale.
Good Morning to The Night però è cosa altra e diversa: svariati brani degli anni d‘oro, celebri o meno, vengono smembrati e remixati tra loro in modo da formare composizioni del tutto nuove; si tratta di dettagli sonori impercettibili (riconoscere tutti i singoli elementi è a volte impossibile) come di interi ritornelli e strofe. L’idea, va detto, è originale e innovativa, probabilmente senza precedenti nella storia del pop: e qui sta l’inghippo, perché Elton fornisce solo la materia prima, ma il lavoro sporco lo fa il duo australiano Pnau. Eppure il disco è ufficialmente accreditato come “album di Elton John”, che da vecchia volpe lo aggancia alle olimpiadi di Londra e lo fa uscire in piena estate. Risultato: la prima #1 nell’album chart inglese dal 1990 (!), una vittoria di Pirro che nel resto del mondo passa del tutto inosservata.
Opera creativa e furbata commerciale in parti eguali quindi, dove, più della title-track che macella Mona Lisas and Mad Hatters con Tonight in un brano dance-house piuttosto raffazzonato, e del singolo Sad che trasforma Curtains in un sottofondo da cocktail, vanno apprezzati altri mostri di Frankenstein più simpatici: Black icy stare, in cui la solo curiosa Solar prestige a gammon acquista punti con la nuova veste; Foreign fields, gustoso impasto della meravigliosa High flying bird con scaglie di Cage the songbird; Telegraph to afterlife, cioè Harmony e Love song in versione trip-hop; Phoenix e la più azzardata Kamatron, che rifanno rispettivamente Grey seal e Madman across the water senza scandalo. Il fanalino di coda Sixty, mix strumentale di tre differenti versioni di Sixty years on, sembra più che altro uno sbrigativo inchino al pianoforte, strumento in grado di sopravvivere a ogni diavoleria tecnologica.
Geniale o insopportabile a seconda dei gusti, il disco è perfetto per un ascolto estivo spensierato (la media di questi otto brani è sui tre minuti scarsi); bravi Pnau, hanno lavorato con passione e competenza, ma questo NON è un album di Elton John, a meno che non lo si voglia considerare un’appendice al suo ultimo periodo: dopo il ritorno al passato, si riparte dal materiale classico e si crea qualcosa di futurista. Volendo…volendo…


Voto 6+


The Diving Board

2013
Anch'io sono rimasto delusissimo dai primissimi ascolti (nel sondaggio apposito non ho risposto, ma avrei detto 5 :ph34r: ), per due motivi oltre alla cattiva qualità sonora: per colpa dei raffronti ideali con 11-17-70 e Blue Moves mi ero immaginato un misto di brani come Rock'n roll madonna, magari un po' meno selvaggi, e melodrammoni stile Tonight, certamente meno "pompati".
Invece, eccomi spiazzato da ritmi lenti e suoni scarni, con canzoni per nulla immediate...quanto ho sofferto nel confronto con The Captain and The Kid, che mi folgorò fin dal primo ascolto, quanto ho rimpianto Blue Moves e i suoi sfrenati barocchismi, e lo dice uno che pensa che Elton e "essenzialità" siano concetti agli antipodi...in fin dei conti è dai tempi dell'album omonimo, se non addirittura da Empty Sky, che il pop-rock di Elton tende al barocchismo, non abbiamo mai ascoltato un suo album in studio DAVVERO scarno e minimale.

Invece, ascolto dopo ascolto, mi sono innamorato di questo disco apparentemente moscio (che differenza con la dirompente, sorprendente energia dell'ultimo Bowie!) e in realtà raffinatissimo e toccante, e mi sono reso conto che le intenzioni di fare un lavoro intimo e personale, senza tentazioni commerciali e piacione, sono state realizzate in pieno, grazie a un Elton (e un Bernie) in ottima forma e a un Burnett dal tocco magico, fortunatamente privo di quel sentore di vecchio che in parte mi rovinava il piacere d'ascolto di The Union.

Le canzoni sono tutte belle, alcune bellissime, crescono ad ogni ascolto, non c'è nessun riempitivo (a differenza di The Next Day, che poteva risparmiarsi 2-3 brani) e finalmente Elton ci regala quelle atmosfere jazzate che tanto mi piacciono e tanto sono mancate nella sua discografia: My Quicksand (sempre più bella! per niente pesante) e la title-track, meravigliosa, quasi ai livelli della mia adorata Idol. Insomma, sia nel suono che nell'ispirazione c'è davvero aria di novità, mai di "già sentito". Il miglior album da Captain Fantastic!!!!

Attualmente, volendo fare il punto sul periodo della rinascita artistica, direi:
Songs from the West Coast: 7/8
Peachtree Road: 6+
The Captain and The Kid: 7/8
The Union: 7,5
The Diving Board: 8

Migliore ispirazione: TC&TK (perchè c'è il migliore equilibrio melodico tra pop e cantautorato, e gli ultimi brani autenticamente rock, con la parziale eccezione di Hey Ahab)
Migliore produzione: The Diving Board
Miglior suono: West Coast (un po' patinato e artefatto, ma è l'unico che ricorda il miglior Dudgeon)
Canzone più amata: Blues never fade away (se la sta giocando con The diving board)
Canzone più odiata: Electricity (Elton....BASTA MUSICAL !!!!!!!!!!!!!!)
Menzione speciale a Good Morning to the Night: piaccia o non piaccia, ora anche Elton ha un album di remix, e per di più originale e avanguardistico!

Sì, tutto sommato sono stati 12 anni più che soddisfacenti...e ancor non è finita! :) :) :)