LP d'esordio di Elton John, con testi scritti dal sodale Bernie Taupin, Empty Sky
viene alla luce sul finire degli anni 60, un periodo cruciale in cui si
attenuano gli eccessi della psichedelia e si riafferma la
forma-canzone, spalancando le porte a quella che sarà l'età d'oro del
Rock, il lustro 1970-75.
Come molti dischi d'esordio ha un suono poco
elaborato, quasi da demo e qualche ingenuità (a cominciare dalla poco
attraente copertina, con un Elton capellone sosia di Al Bano), ma
proprio in virtù di questo ispira simpatia, dato che oggi con una
super-produzione alle spalle qualsiasi nullità pop può sbancare già al
primo colpo.
Invece la Dick James Music aveva puntato con un basso
budget sul talento acerbo di un giovane musicista, pianista e cantante
della scuderia, già in rodaggio da due anni (il primo singolo, passato
inosservato, era del 1967). E sprazzi di talento non mancano in questo
album, a cominciare dalla lunga title-track che lo apre, un brano rock
alla Rolling Stones pieno di energia, non a caso proposto live con la
superband a metà anni 70 quando Empty Sky sarà distribuito negli USA a seguito della immensa popolarità conquistata dal suo autore.
Notevoli anche la nervosa Sails, la folkeggiante Hymn 2000 e Western Ford Gateway,
un gioiellino country-rock che sorprende per maturità e freschezza:
sembra scritto oggi, tanto che le strofe verranno scopiazzate (o
citate?) da una hit degli Oasis.
Nelle ballate emerge già lo stile melodico caratteristico della coppia John-Taupin, ma nè Val-Hala nè Lady what's tomorrow nè l'insipida The scaffold sono degne di nota; alla migliore del mazzo, Skyline Pigeon,
qui buffamente arrangiata al clavicembalo, verrà resa giustizia con una
superba piano version uscita come B-side pochi anni dopo.
Discorso a parte merita la conclusiva Gulliver,
che grazie a una struttura melodica meno scontata spicca per bellezza
sulle altre ballads, andando a legarsi ad un brano strumentale jazz dal
titolo Hay Chewed (si legge Hey Jude, tanto per capirci...) e ad una ripresa finale di tutti i ritornelli dell'album.
La
produzione spartana valorizza decisamente i brani rock, dove già si fa
sentire la bella chitarra di Caleb Quaye, penalizzando i lenti: già
questo costituisce un'anomalia nella discografia di Elton e rende Empty Sky
un disco interessante anche se lo si considera al di fuori dal contesto
eltoniano...insomma, non si tratta del classico lavoro consigliabile ai
soli fans e collezionisti.
voto 6/7
Elton John
2011
La storia del secondo LP di Elton John, dal titolo omonimo, è quella di un talento premiato: malgrado i primi singoli ed Empty Sky
fossero passati inosservati, la DJM decise di sostenere il giovane
Elton con un disco prodotto a budget più alto ingaggiando i due artefici
della memorabile Space Oddity di David Bowie, ossia Gus Dudgeon (produttore) e Paul Buckmaster (agli arrangiamenti).
Ma se Elton John scalò le classifiche inglesi e americane non fu per la celeberrima Your Song,
la regina delle canzoni d'amore, perfetta nella sua semplicità la
quale, è bene ricordarlo, inizialmente uscì solo come B-side del secondo
singolo Take me to the pilot; no, il successo Elton se lo
guadagnò grazie alla promozione affidata ai concerti, che colpirono
soprattutto il pubblico americano svelando un talento di compositore e
pianista rock senzazionale.
Il difetto del disco è proprio quello di
non valorizzare appieno l'Elton mago del pianoforte, spesso sovrastato
dagli archi, ma d'altro canto se Elton John è un classico del
pop-rock sinfonico lo deve soprattutto ai barocchi interventi
dell'orchestra condotta da Buckmaster, al servizio di melodie ora cupe (Sixty years on), ora solenni (The king must die), ora classicheggianti (I need you to turn to, dove il clavicembalo è usato assai meglio che in Skyline pigeon), ora delicate (The greatest discovery) ora uggiose (First episode at Hienton,
il brano più debole a mio parere), che gli conferiscono un suono
particolare e originale e ne fanno probabilmente l'album di Elton meno
orecchiabile e radiofonico, tanto più che i testi di Taupin passano con
naturalezza dal romanticismo intimista all'ermetismo puro...giusto per
ribadire del talento premiato e del successo non scontato.
L'orchestra è affiancata a una validissima sezione ritmica in brani che strizzano l'occhio ai generi americani come il R&B (Take me to the pilot, The cage), il gospel (la stupenda Border Song, primo dei due singoli estratti), il country (No shoe strings on Louise) secondo un modello che verrà perfezionato nel successivo Tumbleweed Connection.
Un
disco importante, da avere, ma non l'ideale per chi fosse digiuno di
Elton e volesse iniziare a scoprirlo: meglio partire con un album più
immediato, oppure col live 11-17-70 che immortala una tappa del
tour e l'incredibile energia di Elton al piano accompagnato solo da
basso (Dee Murray) e batteria (Nigel Olsson), una formula purtroppo mai
più ripetuta per la quale oggi metterei la firma, se avesse il coraggio
di riproporla.
Voto 8+
Tumbleweed Connection
2011
Una decina di anni fa, quando vidi il film Quel pomeriggio di un giorno da cani
rimasi colpito dalla splendida canzone che accompagnava i titoli di
testa, chiedendomi inutilmente chi fosse quel bravo cantautore americano
degli anni 70 dalla voce a me ignota.
Rivedendolo alcuni anni dopo, riconobbi subito le note di Amoreena...nel frattempo avevo comprato tutti i dischi di Elton John.
Un
giorno si dovrà indagare su come Elton abbia potuto cambiare così
radicalmente la voce e il modo di cantare, già mutati ben prima della
nota operazione alle corde vocali pre-Reg Strikes Back...forse un caso unico nella storia del Rock.
Ma
a prescindere da questo: sarà per l'amore della coppia John/Taupin per
la musica americana, sarà per consolidare il successo ottenuto presso il
pubblico USA, fatto sta che Tumbleweed Connection, il terzo britannicissimo LP di Elton, sembra un disco totalmente a stelle e striscie.
Benchè realizzato in fretta tra un concerto e l'altro, uscito quando il precedente Elton John
ancora si stava affermando nelle classifiche, è increbidilmente
ispirato e maturo e impeccabilemte prodotto, non solo a livello sonoro
(Buckmaster arrangia tutti gli strumenti, e nessuno prevale sull'altro
pur valorizzando il pianoforte) ma anche estetico, con foto seppiate e
alle illustrazioni a matita di scenari USA ottocenteschi.
Ad Elton e
Bernie non interessa la storia ma il mito, non il West ma il Western,
così su testi (e titoli) zeppi di armi, fuorilegge, soldati, i generi
tradizionali americani (blues, folk, country e tanto, tanto gospel)
incontrano un gusto melodico teatrale e preciso; coerentemente, i
lussureggianti arrangiamenti orchestrali non mancano ma sono
sapientemente calibrati rispetto a Elton John.
Si parte con la magnifica Ballad of a well-known gun, dove spicca la chitarra elettrica di Caleb Quaye, si prosegue con la romantica Come down in time (l'unico brano non a sfondo western, assieme a Love Song); Country Comfort,
all'epoca incisa anche da Rod Stewart, è il modello per tutti i brani
country di Elton, che non sono pochi, benchè sparsi in tanti dischi
diversi; Son of your father velocizza con genio un demo inizialmente ben più lento, My father's gun è una ballata blues che ripete il ritonello all'infinito, eppure vorresti che non finisse mai.
Più semplici e orientate al folk sono Where to now St. Peter?, che ha testo-capolavoro, e Love Song
che, pur scritta da Lesley Duncan, corista qui e in altri brani, si
integra benissimo: tra le pochissime cover della sua discografia, è un
classico di Elton a tutti gli effetti benchè privo di pianoforte (è solo
voce e chitarra acustica).
La citata Amoreena invece è un piano-rock coi fiocchi, Talking old soldiers
un capolavoro solo per piano e voce (ma perchè Elton ne ha fatti così
pochi? Forse perchè resta un modello irraggiungibile, anche di duttilità
vocale), Burn down the mission conclude il tutto con la giusta energia di piano e orchestra che parte inaspettata a ritornello concluso.
Imperdibili le due bonus-track: Into the old man's shoes, B-side di Your Song (uscita come singolo solo nel 1971) ma a tutti gli effetti un brano di questo disco, analogo a My father's gun. E la spettacolare versione originale di Madman across the water con Mick Ronson alla chitarra, che invece sembra uscita dal coevo The Man Who Sold The World di David Bowie.
Probabilente chi conosce solo l'Elton di The One e Circle of Life
resterà spiazzato da questo disco, ma non è detto che non lo apprezzi,
magari non al primo ascolto; più facile che piaccia ai fans di The Band
(citati espressamente come fonte d'ispirazione), degli Eagles di Desperado, del Neil Young di Harvest,
di Crosby Stills & Nash, ecc. ecc. In ogni caso è un pezzo unico
nel percorso artistico di Elton, assolutamente prezioso ma a ben vedere
non così anomalo, visto il risorto amore del suo autore per le sonorità
americane.
E' altrettanto vero, però, che se Elton avesse mantenuto
questo stile per tutta la carriera, oggi la sua discografia sarebbe
assai monotona, inoltre onestamente come avrebbe potuto superarsi?
voto 9
Friends
2012
Filologicamente non dovrei recensirlo alla stregua di un album di Elton
John, trattandosi di colonna sonora in cui cinque canzoni John/Taupin si
alternano a pezzi strumentali firmati Buckmaster; inoltre il film (che
non ho visto), raro quanto dimenticato, gode di pessima fama (ma non può
essere così brutto: il regista è lo stesso di uno degli 007 migliori, La spia che mi amava, e del bellissimo Alfie
con Michael Caine. E poi, diciamolo, un medio film degli anni 70 è
spesso meglio delle americanate ad alto budget attuali, per tacer delle
italianate...): e pensare che il progetto iniziale riguardava le musiche
dell'eccentrico "cult" Harold e Maude! Fatto sta che questo
pugno di canzoni sia troppo rilevante per essere ignorato, perchè
fotografa un Elton in grado di sfoggiare una ispirazione notevole anche
in un lavoro su commissione, incastonato tra Tumbleweed Connection e Madman Across the Water. Il
brano omonimo, con i suoi ricami orchestrali, sembra proprio un
antipasto di Madman, compresso in poco più di due minuti giusto per
accompagnare i titoli di testa, e il talento melodico del primo Elton,
quando le ballate d'amore non esageravano con il miele, bacia anche Michelle's song e Seasons;
ed è quasi un peccato che, in quest'ultima, la parte cantata sia così
breve, posta in coda a un lungo e prescindibile intro sinfonico (chi è
d'accordo con me può ascoltare direttamente Seasons reprise, che riprende ed isola il solo cantato). Da Tumbleweed sembrano invece provenire i due brani rock, come sempre intinti nel gospel: Honey roll che, pur stando qualche gradino al di sotto di una Son of your father, sfodera un sax graditissimo, e Can I put you on forse più nota nella versione contenuta nel live 17-11-70:
quella è indimenticabile per l'Elton scatenato al piano, ma qui c'è la
ruvida chitarra di Caleb Quaye. Da anni il buon Caleb si occupa d'altro,
ma se ci facesse la grazia di tornare con Elton, gli saremmo tutti
riconoscenti, e magari anche il Signore approverebbe...
Voto alle canzoni 8+
Madman Across The Water
2011
Ha un che di misterioso questo disco: il titolo forse poetico forse
inquietante, sicuramente visionario, e la copertina con la scritta
Madman Across the Water cucita su un tessuto jeans non lasciano
immaginare nulla circa il contenuto.
Musicalmente, questo terzo atto dell'Elton John "à la" Buckmaster è la diretta evoluzione dei due album precedenti.
Da Elton John proviene il gusto per le orchestrazioni sontuose, che qui
perdono ogni pesantezza e si incastonano perfettamente nelle canzoni,
non intralciando né il pianoforte né lo splendido lavoro degli altri
musicisti, tra cui un Davey Johnstone alla sua prima apparizione con
Elton e un Rick Wakeman ospite di lusso, che danno il meglio
rispettivamente al mandolino in Holiday Inn e all'organo in Razor Face.
Di Tumbleweed Connection restano i riferimenti all'America e alla sua
musica, decisamente più vaghi e sfumati: se Rotten Peaches e All the
Nasties si concludono con cori gospel, la grandiosa Indian Sunset
dedicata agli ultimi giorni di Geronimo diviene il fiore all'occhiello
di un rock spettacolare e fascinoso che riduce al minimo la chitarra
elettrica.
Personalmente preferisco la versione originale della title-track, ma
aver sostituito gli assoli di chitarra con gli archi ha donato al disco
uno stile e un suono compatti e omogenei, al servizio di un talento
melodico in stato di grazia, nei due singoli estratti (Tiny Dancer e
Levon) come in tutti gli altri brani.
Purtroppo sono solo nove, ma si sa che qualità e quantità non vanno mai
a braccetto (Goodbye Yellow Brick Road in questo senso sarà un
miracolo).
L'ultima traccia si intitola Goodbye, un addio breve e struggente, come
se Elton avesse già deciso di non replicarsi e di cambiare rotta,
avvicinandosi alla perfezione e fermandosi a un passo dal manierismo.
Molto probabilmente, la "svolta pop" (un termine che non sopporto, ma è
giusto per rendere l‘idea) fu dovuta agli scarsi risultati ottenuti
nelle classifiche inglesi (fuori dalla Top40 e vita breve): questo è
per me il vero mistero, che mi lascia basito.
Certo alcuni testi di Taupin sono tra i suoi più ermetici, in ogni caso
negli USA il disco consolidò il successo di Elton in un anno per lui
intensissimo (uscirono anche la colonna sonora del film Friends, molto
simile a questo album e ancora baciata dal tocco di Buckmaster, e il
live 11-17-70).
Voto 9/10
Honky Chateau
2011
Qualcuno oggi sostiene che Elton John somigli a Lucio Dalla,
probabilmente a causa dell’identico parrucchino indossato (ma Elton non
aveva fatto il trapianto?!); ma già nel 1972, l’Elton barbuto in
copertina a Honky Chateau poteva passare per fratello del cantautore bolognese. Vien
da chiedersi perché si scelse una foto così poco “cool” proprio nel
periodo in cui Elton iniziava a travestirsi in modo eccentrico, e forse
questo prova che l’adeguarsi all’estetica del glam-rock, superandola
fino a farne una parodia, fu dovuto più alle insicurezze e fragilità del
cantante di fronte alla fama che ad una strategia discografica
pianificata a tavolino. Fatto sta che il periodo d’oro a livello
commerciale inizia qui, col primo posto in USA e il secondo in patria;
senza svendersi artisticamente, ma grazie a uno stile più rock e meno
cantautoriale, con brani ritmati e frizzanti dai testi più leggeri.
Chateau è la sala d’incisione, un castello in Francia dove verranno
realizzati i due album successivi, Honky è l’honkytonk che consente a
Elton di scatenarsi al piano senza orchestrazioni (Dudgeon resta,
Buckmaster passa il turno) e con maggior spazio concesso alla chitarra. Davey
Johnstone entra a far parte della band con Dee Murray (basso) e Nigel
Olsson (batteria) e anche se preferiamo Caleb Quaye qui fa un ottimo
lavoro, in brani dal suono “sporco” come Suzie, Amy e Slave, quest'ultima senza piano e molto blues (ma riappare come bonus track velocizzata e con piano rock and roll: da infarto!). Tra le perle troviamo poi Honky Cat, sapientemente arrangiata con fiati R&B, e la magnifica Mellow
che contiene un notevole assolo elettrico di violino (di Jean-Luc
Ponty, ospite di lusso), mentre i brani più ancorati allo stile degli
album precedenti come Salvation e Mona Lisas and Mad Hatters, per quanto buoni perdono fascino spogliati degli archi. Il brano più celebre è Rocket Man,
singolo dal ritornello assassino che farà da modello melodico per una
bella fetta di future ballate eltoniane: forse oggi non ci si fa più
caso, lo stesso Elton nei concerti la deforma e la allunga a dismisura
(e forse dovrebbe smetterla, dato che la cosa ha perso spontaneità),
eppure resta una canzone pop perfetta; assieme all'ironica (a dispetto
del titolo) I think I'm going to kill myself e ai coretti retrò di Hercules anticipa l'atmosfera del successivo album Don't Shoot Me, un po' deliziosamente languida e un po' brillantemente spensierata. Data
la sua natura un po' ibrida, di transizione, gli preferisco i due album
precedenti e i due successivi, ma ciò non toglie che Honky Chateau
sia tra i migliori di Elton e una fonte di ispirazione per tutti i
grandi pianisti rock venuti dopo, da Billy Joel a Joe Jackson a Ben
Folds.
Voto 8,5
Don't Shoot Me, I'm Only The Piano Player
2008
Che c’è di più prevedibile di quelle
classifiche dei migliori dischi di
musica pop stilate con regolare frequenza dagli addetti ai lavori? Al
primo posto troviamo sempre Pet Sounds dei Beach
Boys, messo
lì forse per bilanciare uno strapotere beatlesiano a dir
poco
eccessivo…chi privilegia l’impegno sociale non fa
mancare Bob Dylan,
chi odia i Beatles parteggia (chissà perché?) per
i Rolling Stones, e
così via…
Elton John, uno che faceva rock con il pianoforte e
l’orchestra sinfonica quando gli idoli erano i chitarristi,
non fu meno
geniale dei suoi più mitizzati colleghi, ma va da
sé che nei piani alti
di questi freddi elenchi non lo troveremo, svalutato
com‘è oggi agli
occhi della critica (certo, un po’ se
l’è cercata, ma non più di
tanto…).
Pertanto, rimanendo in un ambito prevalentemente pop (senza tirare in
ballo Talking old soldiers o Indian
sunset,
quella è Arte con la maiuscola), tra ritornelli a prova di
bomba e
melodie d’impatto istantaneo, per chi scrive il disco da
mettere al top
si chiama Don’t shoot me I’m
only the piano player, un
successone di livello mondiale sfornato da Elton nel gennaio del 1973,
che ne consolidò definitivamente la carriera negli USA (dopo
la #1 del
precedente Honky Chateau) e finalmente anche in
patria, primo di una serie di quattro #1.
Il
disco a prima vista si presenta come un omaggio retrò
all’atmosfera
spensierata degli anni ‘50, come dimostra il primo singolo
estratto, la
celeberrima (fu tra l’altro il singolo più venduto
in Italia nel 1973) Crocodile Rock, un travolgente
rock‘n roll con citazione incorporata del coretto di Speedy
Gonzales, successo d’epoca cantato da Pat Boone.
In realtà, a parte “Crocodile” e un
altro brano alla Jerry Lee Lewis come Teacher I need you,
il revival si mantiene più a livello estetico: la cover del
disco in stile American Graffiti, il titolo
“rubato” al film di Truffaut Tirate sul
pianista,
i credits scritti alla maniera di un film classico hollywoodiano
(sovrastati dalla foto di un Reg Dwight bambino seduto alla pianola),
tutti aspetti che verranno sviluppati ulteriormente col successivo
doppio LP Goodbye yellow brick road.
Musicalmente, l’album
dosa col giusto equilibrio struggenti ballate pianistiche di mirabile
perfezione e brani R’n’B vigorosi e ritmati: tra le
prime troviamo Daniel,
l’altro singolo estratto, forse la canzone più
“debole” (se proprio
volessi cercare il pelo nell’uovo) a causa di un
arrangiamento un
po’artificioso che concede troppo spazio al mellotron, Blues
for my baby and me dove ritornano le sfarzose
orchestrazioni di Paul Buckmaster, la conclusiva, meravigliosa High
flying bird.
Una imponente sezione fiati (la stessa apparsa in Honky Cat,
infatti il disco è registrato come il precedente al castello
di
Hierouville, coi fidi Johnstone, Murray e Olsson, e il produttore
Dudgeon) dà invece ulteriore energia alle grintose Elderberry
wine, Midnight creeper e I’m
gonna be a teenage idol, quest’ultima dedicata da
Elton all’amico-rivale Marc Bolan, leader dei T-Rex e
inventore del glam-rock.
In mezzo c’è spazio per due capolavori agli
antipodi: la semplicità country della leggiadra Texan
love song e i toni psichedelici della cupa, barocca Have
mercy on the criminal, in cui i riff elettrici si aprono con
una citazione della Layla di Eric Clapton per poi
fondersi con l’orchestra di Buckmaster con un risultato
davvero indimenticabile.
Insomma
un album praticamente perfetto che è anche un prodotto
commerciale
validissimo, apparentemente ripiegato sul passato e sul citazionismo e
in realtà eterno, inaffondabile, di una bellezza universale
e senza
tempo: sembra uscito ieri, e tra 100 anni regalerà le stesse
emozioni.
Da
amare alla follia fin dal primo ascolto, e ogni volta è una
gioia
assoluta, credetemi! Se dovessi scegliere un solo disco da portare con
me su un’isola deserta, non avrei dubbio alcuno...
Voto 10, il mio Elton preferito!
Aggiungo una postilla alla mia recensione di Don't Shoot Me:
A
distanza di 3 anni resta sempre il mio Elton preferito, quello che
potrei ascoltare per ore e ore senza stancarmi, e se confrontandolo con
gli altri capolavori emerge la sua natura più facile e radiofonica, la
miscela di ballate struggenti e ritmi scatenati è veramente
irresistibile. Confermo poi il mio giudizio su Daniel: dopo anni
di esecuzioni dal vivo in chiave country, penso che avergli appiccicato
il mellotron abbia snaturato la versione in studio.
Comunque un ottimo disco, di grande compattezza e immediata bellezza.
Voto 9-
Goodbye Yellow Brick Road
2011
E' difficile descrivere in poche frasi un'opera ricca di spunti di
discussione, di richiami estetici, di importanza storica com'è questo
disco.
Di certo il 1973 è l'anno d'oro di Elton John, visto che a pochi mesi dal trionfo di Don't Shoot Me... il nostro raddoppia con Goodbye Yellow Brick Road: in tutti i sensi, trattandosi di doppio LP, una scelta che -unita all'opzione di un primo singolo come Saturday night's alright for fighting- lo pone definitamente nell'olimpo del Rock al fianco dei grandi.
Quello
che ad oggi resta il suo album di inediti più venduto e celebre è
composto da ben 17 brani che ribaltano in positivo il concetto di
eclettismo, oltre a unire felicemente quantità e qualità, tanto che
l'unico riempitivo (Jamaica Jerk-off) ha un suo perchè: firmato
"Reggae Dwight", ci ricorda l'intenzione iniziale di fare un disco
giamaicano, poi cestinata (per fortuna?) a favore della vecchia Europa a
causa di pesanti problemi tecnici.
In ogni caso Elton si sbizzarrisce in svariate declinazioni del rock, da quello hard della citata Saturday a quello glam e trasgressivo di All the girls love Alice, dal rock'n roll vecchio stile di Your sister can't twist (but she can rock'n roll) al progessive più spettacolare di Funeral for a fiend/Love lies bleeding, il lungo brano-capolavoro introduttivo.
Ovviamente
la dimensione privilegiata è la ballad teatrale-malinconica-agrodolce,
che qui raggiunge livelli altissimi, sia nei tipici valzer alla Elton -Candle in the wind, la title-track, I've seen that movie too, Sweet painted lady, Harmony- sia in brani dalla struttuta più originale come This song has no title o The ballad of Danny Bailey (1909-34).
In mezzo, ancora lampi di sound americano come Roy Rogers o Social Disease e oggetti anomali come Bennie and The Jets col suo pianoforte aggressivo, Grey seal scritta nel 1970 e qui trasformata in un bizzarro up-tempo, l'aspra ed elettrica Dirty little girl; uno che passa con naturalezza dalla dolcezza struggente di Sweet painted lady
alla rabbia sprezzante di questa canzone dev'essere un genio, e anche
se quel misogino romantico di Bernie Taupin gli dà l'ispirazione con i
suoi testi, la capacità di spaziare tra melodie e interpretazioni così
agli antipodi e così efficaci è tutta del cantante.
Se il disco offre
una bella carrellata di tante tendenze musicali dei primi anni 70, il
risultato non ha nulla di modaiolo o di datato, anzi ad ascoltarlo oggi
colpisce per la sua classicità capace di resistere ai tempi e ai
mutamenti del gusto; non a caso non si contano i riferimenti a miti del
passato, da Marylin Monroe "candela al vento" al cowboy Roy Rogers alla
strada di mattoni gialli del Mago di Oz, ai gangster degli anni
30...insomma un'opera sfarzosa e incantevole alla maniera dei migliori
film della Hollywood dei bei tempi.
Anche la qualità sonora contribuisce alla riuscita, benchè il livello degli arrangiamenti sia talvolta altalenante: se in Candle in the wind
i tocchi di chitarra elettrica e i cori la rendono migliore di
qualsiasi esecuzione dal vivo (soprattutto quella da requiem), non si
capisce perchè inserire in Bennie and The Jets dei fastdiosi
applausi finti al posto di una sezione fiati (forse nessuno si aspettava
che il brano sfondasse nelle classifiche R&B, fino ad allora
appannaggio di artisti neri); non condotti da Buckmaster, gli
arrangiamenti orchstrali sono magnifici quando si fondono col piano
nella coda di Danny Bailey o con la chitarra nel bridge di I've seen that movie too, ma in Roy Rogers sono una zavorra che non rende giustizia a un brano ispirato allo stile di Bob Dylan.
Ma
si tratta di dettagli in un disco che non dovrebbe mancare nelle
collezioni di chi ama il rock, chi ama il pop e chi (come il
sottoscritto) li ama entrambi, purchè fatti come li sa fare Elton: col
suo stile stile complesso ma orecchiabile, popolare ma raffinato,
multiforme ma inconfondibile.
Voto 8/9
Caribou
2011
Se nella discografia di Elton John non mancano episodi da riscoprire e/o rivalutare, Caribou
è un raro caso (l'unico?) di album sopravvalutato. Gran successo di
pubblico negli anni in cui Elton era un Re Mida, guadagnò pure una
nomina ai Grammy e se si considera che nessuno dei cinque dischi
precedenti ebbe tale onore si intuisce che molti di questi premi vanno
presi con le molle.
Al disco manca quel tocco magico che in Goodbye Yellow Brick Road
unificava tanti stili diversi e il risultato, piuttosto altalenante, va
apprezzato non nel suo insieme ma nelle singole canzoni. Alcune
peraltro ottime, come quel travolgente glam-rock che è l'introduttiva The bitch is back, cui fa da contraltare la dolce (ma non sdolcinata) ballad acustica Pinky; persoanlmente poi ho un debole per due brani allegri e scattanti come l'elettrica Grimsby e il country sudista Dixie Lily, una delle poche concessioni ai gusti del pubblico USA (l'altra è la partecipazione dei Beach Boys ai cori in Don't let the sun go down on me) nel primo di tre album "americani" registrati ai Caribou Studios in Colorado.
Altri brani non vanno al di là del riempitivo, per quanto bizzarri come Solar prestige a gammon col suo testo demenziale e la voce impostata, You're so static chiassosa e quasi ska (un genere che mi garba poco) o l'allucinata I've seen the saucers; anche il rock-blues Stinker sembra solo una discreta imitazione dei Rolling Stones, soprattutto nel tono di voce un po' alla Jagger.
Il
suono è decisamente più rock ed energico, col pianoforte spesso messo
in ombra dai fiati corposi (se ne occupano i Tower of Power) e dalla
band, dove fanno capolino le svariate percussioni del buon Ray Cooper.
In questo contesto c'entra poco un brano come Ticking, amara
ballata per piano e voce il cui testo gronda disagio sociale e
psicologico; il suo andamento aspro e nervoso la rende comunque
straordinaria, e assieme alla hit Don't let the sun go down on me
(che malgrado sia inflazionata dalle troppe esecuzioni live, nella
versione in studio conserva ancora la sua teatrale, grandiosa efficacia)
risolleva la media di un disco che, arrivando dopo una sfilza di
capolavori, rappresenta un inevitabile calo fisiologico.
Voto 7
PS la versione remastered del 1995 è imperdibile grazie alle
bonus tracks: due B-sides che avrebbero meritato l'LP ai tempi (Sick city e Cold highway), un delizioso singolo natalizio agli antipodi della melassa (Step into Christmas) e la mitica versione eltoniana di Pinball Wizard eseguita dall'alto di due metri di stivali da Re del flipper nel film Tommy, la rock-opera dei Who
Captain Fantastic And The Brown Dirt Cowboy
2011
A metà degli anni 70 Elton John ha raggiunto l'apice della carriera:
cavalcando la moda del glam-rock si è imposto nelle classifiche inglesi,
condividendo la gloria con una folta concorrenza, ma il talento
melodico influenzato dalla musica americana gli ha permesso di sfondare
senza rivali nelle charts USA, per ultime quelle R&B con singoli
come Bennie and The Jets e Philadelphia Freedom. Dopo il primo trionfale Greatest Hits
e i duetti live con John Lennon in un ideale passaggio di testimone
nella storia del rock, Elton coglie l'occasione per realizzare un disco
autobiografico dedicato agli anni della gavetta, quando il ventenne Reg
Dwight (il Capitano) e il fido Bernie Taupin (il Kid, un cowboy
nell'anima) sbarcavano il lunario in una Londra poco swinging.
La forma è quella del concept album, di moda all'inizio del decennio (Tumbleweed Connection non lo era ma si avvicinava all'idea), con tanto di copertina surrealista-visionaria e un singolo estratto poco radiofonico (Someone saved my life tonight);
non ci sono grandi sperimentazioni ma si percepisce un che "di testa",
un lavoro più studiato e pensato, meno spontaneo del solito. Curtains
per esempio rinuncia alla struttura strofa-ritornello per un lento
crescendo, dal testo pieno di auto-citazioni a prima vista fumose, che
sfocia in un lungo coro su un tappeto di batteria e percussioni.
Personalmente, dopo Elton John questo Captain Fantastic and the Brown Dirt Cowboy è
il suo album che mi ha richiesto un maggior numero di ascolti per
essere metabolizzato e apprezzato, tanto che ai primi tempi gli
preferivo Caribou e Rock of the Westies (che avevo acquistato prima), più immediati e sopra le righe.
Elton
in ogni caso non cerca la messinscena teatrale o le pose da artista
intellettuale, la sua è la giocosa auto-celebrazione di una personalità
visceralmente eccessiva e spettacolare, di un talento che conquista le
masse anche perchè capace di non prendersi troppo sul serio.
La
musica è un pop-rock di taglio sartoriale, con canzoni che partono lente
ed esplodono nei ritornelli come la stupenda title-track deliziosamente
country o Bitter fingers, altri brani dall'andatura media e costante ma non meno epici, come Tell me when the whistle blows arrangiata con archi soul e Tower of Babel (la mia preferita) che contiene uno dei migliori assoli elettrici di Davey Johnstone. Le ballate melodrammatiche al piano (Someone saved my life tonight e We all fall in love sometimes) e il rock tirato (Meal ticket) sono tra il meglio dei rispettivi filoni eltoniani, mentre il tocco eccentrico lo dà la cabarettisitca Better off dead,
incantevole anche per i cori. Il suono è molto equilibrato e puntuale,
Elton sembra fare un passo indietro e limitare i virtuosisimi per
lasciar spazio al lavoro della band (gli altri sono Olsson, Murray e Ray
Cooper); a costo di sembrare incontentabile, avrei sostituito Writing (troppo esile e lieve per piacermi) con la bella B-side House of cards e avrei scelto una conclusione più movimentata rispetto alla celebratissima Curtains, che non mi ha mai davvero conquistato.
Anche così, Captain Fantastic resta un ottimo disco utile a ribadire che dopo l'era dei Beatles venne l'era di Elton John.
Voto 8
Rock Of The Westies
2011
Quando si è arrivati in cima scendere è inevitabile, l'importante è farlo piano piano, sosteneva Nilla Pizzi.
Nel
1975 Elton John è il dominatore delle vendite mondiali di dischi ma per
la Dick James Music è soprattutto la gallina dalle uova d'oro da
sfruttare il più possibile con uscite ravvicinate che sfidano
assurdamente la sovraesposizione. Rock of the Westies esce a pochi mesi da Captain Fantastic
e per l'ultima volta raggiunge la #1 in USA; in attesa di rendersi
indipendente (l'ultimo disco del contratto con James sarà il live Here and There),
in quest'opera su commissione Elton tenta di cambiare rotta, di
sperimentare qualcosa di nuovo: avendo esteso la band con due
chitarristi (oltre a Johnstone fa ritorno il grande Caleb Quaye), nuovi
bassista e batterista (Kenny Passarelli e Roger Pope), alle tastiere un
futuro pezzo grosso delle colonne sonore hollywoodiane (James Newton
Howard) e un Ray Cooper sempre più scatenato alle sue svariate
percussioni, decide di alzare il volume e fare un album quasi totalmente
rock, forse per ricreare un studio la carica di energia esibita durante
i concerti.
La prima traccia Medley è quella che non ci si
aspetterebbe da Elton, con repentini cambi di ritmo e accordi ben poco
melodici, non meno folle è la successiva Dan Dare (Pilot of the future)
che sembra la parodia isterica di un testo alla "Rocket Man"; se è vero
che per il cantante la schiavitù della cocaina iniziava in questo
periodo, vien da pensare che molti brani di questo album e di Blue Moves siano stati composti e incisi da un Elton sovraeccitato, ma ancora forte di una ispirazione brillante. Island girl
è l'uptempo facile da dare in pasto alle radio ma sa trasmettere
un'allegria contagiosa, quindi arriva il meglio con due rock eccellenti
che mi ricordano un po' i Rolling Stones un po' i Lynyrd Skynyrd, Grow some funk of your own e Street kids, e una ballatona western che sarebbe piaciuta agli Eagles, I feel like a bullet (in the gun of Robert Ford).
Meno belle la frenetica Hard luck story e la rumorosa Billy Bones and the white bird, invece mi piace molto Feed me
dove Elton non suona ma canta con uno splendido tono dolente versi
altrettanto amari mentre tastiere, chitarre e cori si intrecciano con
eleganza.
Se Gus Dudgeon avesse aggiunto un sax avremmo ottenuto un muro sonoro da fare invidia al pompatissimo Born to Run di Springsteen uscito nello stesso periodo, ma Elton di queste cose non
si è mai curato (finora?) e spesso la frettolosità, se da un lato gli
ha permesso di comporre tanti brani in poco tempo, dall'altro
(specialmente negli anni 80) ha pesato come un macigno sulla qualità
sonora dei suoi dischi. In ogni caso, se questo è il primo capitolo
della fase discendente, allora tanto di cappello.
Voto 7,5
Blue Moves
2011
La bisessualità di Elton John era un segreto di Pulcinella ma nel '76
bastò metterla nero su bianco per scandalizzare molti fans americani e
far crollare le vendite: oggi forse provocherebbe l'effetto opposto ...
Dato che i media già privilegiavano il gossip al musicista, è bene andare a riascoltare Blue Moves,
il disco della discordia uscito a ridosso del fattaccio: è il primo
realizzato dal cantante per la sua Rocket Records, inciso in vari studi
inglesi e americani, pieno di collaborazioni eccellenti, dalla
produzione ricca e variegata. E’ un doppio LP ma è inutile tentare un
paragone con la solida classicità di Goodbye Yellow Brick Road:
qui sembra mancare un baricentro, tra ritornelli lunghi e dilatati,
brani strumentali, orchestrazioni, fiati, cori imponenti e su tutto
domina un forte senso di tristezza, spezzato talvolta da euforici scoppi
di energia; se Elton non se la passava bene, Bernie viveva i suoi
dolori sentimentali e riversava l’amarezza nei testi, dai titoli
eloquenti.
Il capolavoro è la sinfonica Tonight, che richiama (e supera) le cose migliori dell’album Elton John; le altre ballate tristi, in ordine di gradimento, sono: Chameleon e Someone’s final song con i cori dei Beach Boys, il primo singolo Sorry seems to be the hardest word e il lamento gospel Where’s the Shoorah?, che invece non si avvicina ai livelli di una Border song. Diverse, ma molto belle, Cage the songbird dedicata a Edith Piaf e la lenta, ipnotica The wide eyed laughing:
senza piano, con chitarra acustica e un Elton che si mimetizza nei cori
di Crosby & Nash come se fossimo in un disco dei CSN.
E poi Idol,
la mia preferita (e nella mia top 10): con quel piano, quel sax e
quegli accordi sofferti sembra uscita da un fumoso locale jazz: visto
che il suo autore non la esegue live da anni, la vedrei bene cantata dal
vocione di un Tom Waits e invece talvolta finisce nelle scalette
di … George Michael!
La stessa rinomata sezione fiati (David Sanborn,
Randy e Walter Brecker) rafforza due brani comunque già godibili, uno
più ruvido (Boogie pilgrim) e l’altro più patinato (Shoulder holster); senza fiati, ma sempre jazzata, è invece la strumentale Out of the blue che sembra improvvisata ma con stile. Altri due brevi jingle strumentali poteva benissimo cestinarli, così come Between 17 and 20 che per quanto mi sforzi di ascoltarla continua a sembrarmi una canzone monotona, lamentosa, né carne né pesce. Crazy water flirta moderatamente con arrangiamenti disco-funky sulla scia redditizia di Don‘t go breaking my heart ma il gioiellino If there’s a God in heaven (what’s he waiting for?) lo fa meglio e offre gli archi più sfavillanti di tutto il repertorio.
Quanto agli scoppi di energia, Elton raggiunge l’apice del barocchismo con One Horse Town (grandioso il lungo intro strumentale: nel lontano sottofondo di synth irrompono le chitarre e quindi l’orchestra) e con Bite your lip (get up and dance!):
questa dopo un inizio rock sfocia in un delirio di cori gospel, archi
ed evoluzioni pianistiche, che chiudono l’album e l’età d’oro di una
creatività che non raggiungerà più questi livelli.
Troppo disomogeneo
ed eccessivo per piacere alla critica, che non lo considera mai tra i
migliori di Elton, per il mio gusto questo capolavoro mancato (lo
sarebbe togliendo quei quattro brani di troppo) è forse il suo album più
affascinante.
Voto 7,5
A Single Man
2012
A
Single Man ultimo atto del periodo d’oro di Elton John? Non sono
d’accordo, per tanti motivi. Al di là del mezzo fiasco commerciale (se
paragonato con i successi del recente passato), i due anni trascorsi da
Blue Moves sembrano secoli: senza occhiali e con look da gentleman, un
Elton quasi irriconoscibile guarda perplesso dalla copertina, un uomo
solo perché non ci sono più né Taupin né Dudgeon e delle vecchie band
resta solo Ray Cooper.
Il nuovo paroliere si chiama Gary Osborne e le canzoni vengono scritte
adattando un testo alla musica già composta, all’opposto del metodo
John-Taupin: chissà, magari questo Elton meno cantautore e più
musicista poteva trovare una sua dimensione in un album strumentale e
non mi stupisce che il brano più celebre lo sia.
David Bowie aveva già realizzato due dischi “New Wave” sperimentali e
seminali come Low e Heroes, il 1978 poteva essere anche per Elton
l’anno del cambiamento, del rinnovamento, invece a parte le poche
concessioni modaiole (I don‘t care arrangiata in stile disco-music) si
torna quasi al modello sinfonico dei primi album, senza traccia di
sintetizzatori, con pochi sapienti tocchi di chitarra elettrica (di Tim
Renwick) e orchestrazioni di Buckmaster; ma tutto troppo soft per
reggere il confronto con la magia dei capolavori, che rivive solo nella
magnifica Ain’t it gonna be easy, otto superbi minuti di rock-blues
orchestrale.
Leggere e scattanti invece, oltre a I don’t care, il primo singolo
Part-time love oggi praticamente rinnegato dall’autore (lo considera il
suo peggior brano, ma non sfigura al confronto con molte hits
successive) e la buffa Big dipper che cita con malizia il jazz anni 30.
Tra le ballads spicca la classicissima Shine on through, le altre
(Shooting star, Georgia, la dolciastra caraibica Return to paradise)
non vanno oltre l'elegante esercizio di stile. Anche la barocca
Madness, cronaca di un attentato bombarolo, poteva essere assai
migliore del risultato finale, malgrado l‘originalità e i virtuosismi
pianistici.
Scelta con successo come secondo singolo, Song for Guy è la delicata e
commovente strumentale composta in memoria di un giovane fattorino
della Rocket vittima di un incidente in moto ed è l‘unica che raramente
Elton esegue in concerto: purtroppo è difficile che rispolveri qualche
perlina poco nota e A Single Man, pur non essendo un’ostrica tra le più
ricche, non è nemmeno un guscio vuoto.
Voto 6/7
PS tra le versioni remastered quella di A Single Man è forse la più
interessante: c'è il singolo Ego, ultimo brano scritto da Bernie prima
della separazione, tra i più folli e meno orecchiabili di Elton (e
infatti fu un bel fiasco), la sua B-side Flintstone boy, svagatamente
country e uno dei pochissimi brani in cui il musicista firma anche il
testo; quindi due gioielli scartati da Blue Moves: la magnifica,
dolente piano-voce I cry at night e la briosa Lovesick. Infine
Strangers, un lento che chissà come era finito a far da B-side al
singolo Victim of love. Imperdibile: però si poteva far spazio anche a
Dreamboat, proveniente dalle stesse sessions e finita in coda alla
riedizione di Too Low For Zero (col quale non c'entra niente).
21 At 33
2012
Ci sono cantanti che anticipano o dettano le tendenze musicali e altri,
come Elton John, che a volte vi si accodano senza grande convinzione.
Dal libretto del cd apprendiamo che le canzoni di 21at33 vennero scritte e in parte incise nell’agosto ‘79, quindi è probabile che al progetto dance di Victim of Love
(uscito in ottobre) non dovesse credere nemmeno lui; forse pensava di
riconquistare le classifiche col minimo sforzo, limitandosi a prestare
la voce e seguire la moda, e così il comprensibile flop travolse anche
il povero 21at33 alla sua uscita nel 1980. Per fortuna a
livello artistico il ventunesimo LP del 33enne Elton si fa perdonare lo
scivolone: non si concede alle nuove sonorità elettroniche (le tastiere
di James Newton Howard sono usate banalmente in vece degli archi) ma
tiene degnamente testa a Billy Joel, l’”Elton John d’America” che gli ha
sottratto i favori del pubblico USA. Il romantico primo singolo Little Jeannie e la sua gemella Never gonna fall in love again ne richiamano un po’ lo stile, con i loro morbidi fiati, ma non valgono di certo una Just the way you are. Al contrario il rock iniziale Chasing the crown per grinta e potenza supera le varie, pur pregevoli Big shot e You may be right del collega. Come già A Single Man,
l'album è prodotto da Elton con Clive Franks, che se la cavano bene
grazie ad un’ottima band cui fanno parte elementi dei Toto (Steve
Lukather, David Paich) e gli Eagles ospiti ai cori della bella White lady white powder. Non c’è più il genio dei primi anni 70 ma l'artista è ancora abbastanza in forma da scrivere una ballad da applausi (Sartorial eloquence) e spruzzare il suo pop di gospel (Dear God), country (Take me back), soul (Give me the love, trascinante), R&B (Two rooms at the end of the world,
in cui riallaccia i rapporti con Bernie; gli altri parolieri sono Gary
Osborne, Tom Robinson e Judie Tzuke, per lui un record). Risultato
onesto, pulito, gradevole, ben confezionato: come un disco di Billy
Joel, e meritevole di riscoperta.
Voto 7+
The Fox
2012
Una lavorazione travagliata, un’oscura cover elettronica come primo
singolo, una serie di videoclip promozionali censurati: c’erano tutte le
premesse per un disastro e invece The Fox, pur essendo tra gli album di minor successo nella carriera di Elton John, si rivela ben lontano dalla mediocrità. Di
sicuro i rimaneggiamenti produttivi non l’hanno reso più immediato o
commercia(bi)le -la Geffen, che era subentrata alla MCA come etichetta
di Elton in USA, poco soddisfatta aveva commissionato dei nuovi brani a
Chris Thomas e delle sessions iniziali, realizzate in Francia dallo
stesso team di 21at33, è rimasto poco- e in questo modo, forse
per puro caso, è uscito un disco variegato, inevitabilmente poco
omogeneo ma con canzoni di buon livello pur senza veri capolavori. Suggestiva
la copertina, dove la volpe impagliata potrebbe simboleggiare il
passato glorioso e ormai svanito del cantante, che “intrappolato” in uno
schermo TV tenta di stare al passo con sonorità più tecnologiche e con
una musica sottomessa all’immagine. Può contare in questo senso su un
asso nella manica di nome James Newton Howard, talento eclettico che
garantisce una certa cura sonora su più fronti: conduce l’orchestra
sinfonica nella strumentale Carla/Etude e gli archi nella ballad Chloe, ed è co-autore di un altro pezzo strumentale (Fanfare, stavolta elettronico) che le unisce in un medley; se nella “scandalosa” (e invece di una delicatezza rara) Elton’s song gli archi finti sono abbastanza fastidiosi, in Nobody wins
(il primo singolo in questione, cover di un brano francese con testo
adattato in inglese da Gary Osborne) la base dance è calibratissima e
incalzante. Nella mia preferita Heart in right place,
rock-blues abbastanza tagliente, Howard inserisce dei synth pulsanti e
pure un vocoder (per sfumare una parolaccia?): un gran bel pezzo,
totalmente riuscito, così come vanno a segno le veloci Breaking down barries, Just like Belgium e Heels of the wind; apprezzo anche il ritmo marziale di Fascist faces, benchè non mi sia chiaro quali fossero i bersagli dell’invettiva di Bernie. Sulle
note malinconiche di un’armonica, una title-track molto anni 70 chiude
il disco e dice addio all’Elton più suggestivo e meno imitabile: o
meglio arrivederci, perché il volpone farà tanti album più facili e
ruffiani ma prima di trovarne uno migliore di questo passeranno
vent’anni esatti. Qunidi The Fox è tutto da riscoprire come i
suoi bei videoclip (grazie, youtube), se non altro per zittire quei
critici che ancora lo stroncano, probabilmente senza nemmeno averlo
ascoltato.
Voto 7+
Jump Up!
2012
Il titolo è fuorviante, la copertina simpaticamente anni 80: ma Jump Up! non è un album dance, è un consueto disco da Elton John, solo un po’ più mosso del solito. La prima volta di Chris Thomas (dopo la produzione parziale di The Fox)
è anche la migliore, ma con una band simile era impossibile far male:
Jeff Porcaro alla batteria, Richie Zito alle chitarre, Dee Murray al
basso e James Newton Howard che si occupa di archi e tastiere. Forse per
merito di questo suono particolarmente robusto e scoppiettante, ai
primi tempi il disco mi piaceva assai; purtroppo col tempo l’ho
svalutato, lo rovinano in parte troppe canzonette facili e radiofoniche
alla ricerca (ancor vana) della classifica perduta. Dear John per dirne una, dove ritmo frizzante e gustosa autoironia mascherano un pugno di accordi ripetuti all‘usura; o Ball & chain, il più modesto tra i tanti country veloci del repertorio. Decisamente meglio Spiteful child e soprattutto la nervosa ballad Legal boys, prima e più bella collaborazione con Tim Rice. Gli altri parolieri danno il peggio, Taupin con I am your robot e Osborne con Princess:
al testo della prima Elton fornisce un ritornello altrettanto
imbarazzante, nell’altra (scritta per Lady Diana ma già dimenticata ben
prima che arrivasse la Candle in the wind funebre) le note sono gradevolmente prevedibili quanto le strofe. Bernie comunque si riscatta con Empty garden (Hey hey Johnny), dedicata alla memoria di John Lennon, e con All quiet on the western front ispirata all’omonimo romanzo antimilitarista, due melodie commoventi interpretate in modo superbo. Tra le cose belle aggiungo la hit Blue eyes,
per il bel vestito orchestrale e un romantico tono da crooner alla
Sinatra che il buon Elton non si è mai più degnato di replicare; infine
la mia preferita Where have all the good times gone?, magnifica sia come album version (arrangiata con archi) sia in versione B-side velocizzata ed elettrica. I
bei tempi sono andati e non torneranno più, ma resta il buon mestiere e
qualche sprazzo di talento: troppo poco per farne un grande album,
troppo per condannarlo all'oblio.
Voto 6,5
Too Low For Zero
2012
Pochi anni fa, Too Low For Zero era il mio preferito tra i dischi anni 80 di Elton John, perché ancora non conoscevo 21 at 33 e avevo stupidamente riposto The Fox dopo i primi, inerti ascolti; comunque anche oggi lo ascolto volentieri e lo reputo il miglior risultato dell’era Chris Thomas. A
lui si deve probabilmente il ritorno della band storica
Johnstone-Murray-Olsson e di Taupin, che dopo collaborazioni sporadiche
torna a scrivere tutti i testi, ma anche la decisione di sostituire il
pianoforte con la tastiera. Una scelta nefasta che qui eccezionalmente
funziona perché le canzoni sono tutte di livello medio-buono e sono
divise in modo equilibrato tra brani tradizionali-pianistici e altri
moderni ed elettronici. Tra i primi spicca la hit I guess that’s why they call it the blues, un mid-tempo orecchiabilissimo ma mai banale arricchito dall'armonica di Stevie Wonder, quindi la ballad Cold as Christmas e l’orchestrale One more arrow,
che cita il mio attore preferito (Robert Mitchum) e si fa perdonare un
falsetto ormai anacronistico. I suoni sintetici invece fanno la fortuna
di Crystal ma affossano Saint, una bella melodia
parzialmente rovinata; molto interessante il brano che sposa le due
sonorità, l’amarognola title-track dove alla base di synth e percussioni
si unisce un ottimo bridge pianistico. Tra i brani rock, le tastiere rendono il suono inutilmente piatto e edulcorato nell’altra hit I’m still standing e in Religion, mentre non fanno danni al muro di chitarre del terzo singolo Kiss the bride e alla tirata Whipping boy. Eseguita live, con un vero pianoforte, I’m still standingè ben altra cosa ma ci possiamo consolare: i singoli estratti con cura e
gli azzeccati videoclip su MTV ridanno fiato alle vendite, gli anni
magri sono terminati. Elton è ancora in piedi e può baciare la sposa.
Voto 6/7
Breaking Hearts
2012
Il rapporto sentimentale tra Elton e sua moglie Renate durò pochi anni e
non lasciò eredi, quello professionale vide la presenza di lei come
tecnico del suono in un pugno di dischi di lui, baciati da discreto
successo commerciale, più europeo che americano.
Leggerino, spensierato e fin troppo orecchiabile, Breaking Hearts
è il disco “nuziale” della coppia e come tale, teoricamente, avrebbe
meritato un taglio d’eccezione, degno delle grandi occasioni; purtroppo,
al contrario, ad ascoltarlo oggi lo trovo decisamente ordinario.
A parte Chris Thomas il team è lo stesso di Goodbye Yellow Brick Road, ma di quel grande album restano solo gli inconfondibili coretti di Davey, Dee e Nigel; siamo piuttosto in zona Too Low For Zero,
rispetto al quale presenta canzoni globalmente più modeste e il
medesimo difetto: il suono finto e industriale della tastiera Yamaha nei
brani rock.
Le schitarrate in canzoni mosse come Restless, Slow down Georgie e Li’l frigerator
sembrano disseminate per coprire l‘assenza di un pianoforte che si
rispetti: per questo motivo preferisco nettamente il ritmo funky di Who wears these shoes?
Tra i lenti vecchio stile, la bella Burning buildings sovrasta le più scontate Breaking hearts e In neon. Non ci sono quindi grandi sorprese ed è meglio così, perché quando arriva Passengers, che tenta sonorità africane con un risultato da Zecchino d’Oro, rimpiango quasi Victim of Love.
Si prosegue con Did he shoot her?, che mi sembra la brutta copia di Radio GaGa dei Queen, infine la non travolgente hit Sad songs (say so much)
chiude un album che sicuramente non è il lavoro peggiore di Elton, ma
per il mio orecchio è forse quello meno interessante, tanto che a
livello compositivo gli preferisco il successivo Ice on Fire, in genere più bistrattato.
Voto 5,5
Ice On Fire
2012
Leggendo il nome di Gus Dudgeon alla produzione, per la prima volta da Blue Moves, ci si potrebbe aspettare da Ice on Fire
una sorta di ritorno allo stile dell’Elton John anni 70; al contrario,
l'ascolto rivela un tuffo a capofitto nel pop anni 80 più smaccato.
Da amante delle novità, e data la scarsa consistenza del modello sonoro "vecchio-nuovo" lanciato da TLF0,
già infiacchitosi al secondo capitolo, in teoria non mi sento di
condannare questa svolta più radicale; oltre al fatto che nel 1985 buona
parte delle rockstar della generazione di Elton si era adeguata alla
nuova, redditizia tendenza, e tenendo conto della
riscoperta/rivalutazione avvenuta in anni recenti di quelle sonorità a
base di tastiere, bassi pulsanti e fiati squillanti, oggi riproposte da
tanti nuovi artisti.
L’album, tra l’altro, parte bene con la travolgente, aggressiva This town e prosegue meglio con la drammatica ballad Cry to heaven,
dove un leggero tappeto di synth non intralcia il pianoforte. In
seguito si adagia su un pop blandamente soul-funky, lontano dall’estro
compositivo dell'Elton migliore, più vicino a Phil Collins che a Donald
Fagen, ma non sgradevole: Soul glove, Satellite, la romantica hit Nikita
(dal suono talmente rinnovato che spesso ci si dimentica quanto sia
bella la melodia) che ospita due divetti giovanili, Nik Kershaw e George
Michael. Con il Wham, prossimo ad iniziare la carriera solista, duetta
in Wrap her up, aggiornamento agli anni 80 di certe follie
barocche del decennio precedente, non per tutti i gusti ma divertente
almeno quanto il suo delizioso videoclip (vedere per credere!).
Il resto si può buttare, partendo dal pessimo lento Too young, che spreca la presenza di metà dei Queen (John Deacon, Roger Taylor), passando per le scarse Tell me what the papers say e Candy by the pound. Anche la conclusiva Shoot down the moon, pur essendo tra le poche oasi pianistiche, mi sembra noiosetta rispetto all’analoga Cry to heaven.
Tra i bonus dell’edizione remastered c’è una brutta B-side strumentale dedicata a John Lennon (The man who never died) ma manca il singolo Act of war
in duetto con Millie Jackson, che era presente nella prima edizione cd:
un vero peccato, perché quel brano hard-rock ci riporta a un Elton in
grado di azzardare e convincere, e avrebbe risollevato la media di un
album globalmente dignitoso ma troppo modaiolo per essere davvero
rappresentativo nella discografia del suo autore.
Voto 5,5
Leather Jackets
2008
Se qualcuno oggi volesse procurarsi una copia di "Leather Jackets",
album di inediti sfornato da Elton John nel lontano 1986, non lo
troverebbe facilmente in quanto fuori catalogo, mai più ripubblicato nè
rimasterizzato....con un po' di fortuna, cercando tra web e mercatini,
potrebbe imbattersi in qualche copia in vinile o in CD dell'epoca, con
tutte le limitazioni del caso...
Si dice che tutto ciò che è bello
sia raro, ma non il contrario! Eppure...Oddio, facendo parlare i fatti
e le realtà ufficiali quel qualcuno scoprirebbe che tale disco alla sua
uscita non se lo filò nessuno (il picco più alto nella classifica USA??
#91....), che al giorno d'oggi lo stesso autore lo considera il suo
peggior lavoro e che gran parte dei fans condivide il giudizio...e
vabbè, ma ve li immaginate Madonna o Michael Jackson o i Beatles o i
Queen che si ritrovano con un album di inediti totalmente rimosso?
Inconcepibile!
Ecco, in quanto raro e poco noto, questo disco non dev'essere poi COSI' brutto come si dice: ascoltare per credere!
La
copertina, in stile Andy Warhol, promette una buona dose di pop, e
d'altronde siamo all'epoca del massimo splendore di Wham, Duran Duran,
Paul Young e mille altre icone del pop anni '80, anche Elton all'inizio
del decennio ha ridotto il pianoforte in favore di tastiere e synth nei
suoi lavori in studio, sappiamo già insomma che non ci troveremo al
cospetto di un "Honky Chateau"...
Appena messo nel lettore, si
capisce che il difetto non sta nel quadro ma nella cornice: il
produttore, si legge, è il mitico Gus Dudgeon, un nome una
garanzia...ma che combina? Prende un brano rock pieno di energia come
la title-track e lo annega nelle tastiere! E' l'andazzo generale, la
tendenza è quella di prendere delle piacevoli canzoni pop e renderle
fredde, sintetiche, robotizzate, senza vita!
La formula
eltoniana, si sa, alterna brani rock ritmati a ballate pianistiche
lente e intense, infatti subito dopo troviamo la bella Hoop of fire,
che ci riporta alla mente le atmosfere malinconiche e liriche di certi
suoi lavori anni '70, non fosse che dieci anni prima quel brano avrebbe
avuto l'onore di arrangiamenti sontuosi, adesso sono miseri e sciatti... Don't trust that woman
invece è quasi danzereccia e, per quanto grossolana, resta abbastanza
divertente, certo non meno di tante altre amene canzonette che Elton
sfornava in quegli anni (Wrap her up, Town of plenty,...):
udite udite il testo è firmato da Cher, e qui ci stava bene un duetto,
visto che la diva di "Bang bang" e "Believe", quanto a look eccessivo e
versatilità musicale, è quasi una Elton in gonnella!
Il duetto
arriverà puntuale, ma con la vecchia gloria Cliff Richard, forse in
omaggio ai tempi del piano-bar in cui il giovane Reg Dwight aveva in
repertorio i successi del collega...il brano è Slow rivers,
secondo singolo (inutilmente) estratto, forse la cosa meno storpiata
dalla produzione, forte degli arrangiamenti orchestrali curati
dall'ottimo James Newton Howard, qui in una delle sue ultime
collaborazioni con Elton.
Lo stesso non si può dire di Go it alone,
un brano potenzialmente quasi hard-rock totalmente svilito e castrato
da brutti suoni sintetici...peccato, perchè il ritmo fa battere il
piedino!
Gypsy heart è una ballatona enfatica con cori
gospel, molto "già sentita" ma non brutta nè mediocre, anche se chi
scrive preferisce i toni country di Memory of love, dove
troviamo per l'ultima volta una lirica firmata Gary Osborne: a parte
queste due eccezioni, tutto il resto è opera del fido Bernie Taupin.
Sempre chi scrive è letteralmente pazzo per i due brani successivi: Heartache all over the world,
primo singolo, con quel coretto "girls girls" e tanti synth da
seppellirci una carriera intera, eppure incredibilmente allegra, con un
ritornello che rimane irresistibilmente in testa senza riuscire a
sfrattarlo.
E poi Angeline, dalle vaghe atmosfere rock'n roll
anni '50, altro coretto buffo sovrapposto al rombo di una moto, altro
brano un po' burino eppure davvero simpatico....vi suona metà dei Queen
(John Deacon e Roger Taylor), ma rispetto all'altra loro collaborazione
con Elton (la brutta Too young, sull'album precedente) non c'è neanche da mettere!
Concludono l'album le atmosfere leggere e acustiche di Paris e quelle melodrammatiche di I fall apart, dove il ricorso all'elettronica è decisamente più accorto e minimale.
Una
parolina sulle outtake finite tra le B-sides ma assolutamente
meritevoli, nella speranza che un giorno vengano ripescate dall'oblio: Lord of the flies, Billy and the kids, Highlander, tre gioiellini di cui l'ultimo si inserisce tra le bizzarrie strumentali eltoniane (vedi Hay Chewed o Earn while you learn).
Insomma,
alla fine Leather Jackets non sarà figlio dell'Elton genio di
"Tumbleweed Connection", ma nemmeno di quello tedioso e sdolcinato di
"Aida", Electricity, All that I'm allowed....non vi pare?!
Mia colpa, mia grandissima colpa. Rileggendo quanto scritto in passato,
devo ammettere di essermi lasciato trasportare, per due motivi: ero
schiavo del pregiudizio “disco raro = disco bello” e non davo grande
importanza al lato tecnico (produzione, arrangiamenti) delle canzoni
nel loro giudizio complessivo. E devo ammettere che da questo punto di
vista Leather Jackets è scadentissimo, non tanto per l'uso
dell’elettronica in sé (comunque dozzinale rispetto ad Ice on Fire) ma
per il senso di sciatteria e povertà che affligge anche quei brani dove
il ricorso ai suoni sintetici è più limitato.
Quindi un lavoro mediocre ma non indecente, perché composto da melodie
passabili, senza infamia e senza lode (tranne Hoop of fire, davvero
bella): e sto ancora aspettando la remastered!
Voto 5
Reg Strikes Back
2012
E’ vero che la voce di Elton John aveva subìto mutamenti ben prima
dell’intervento alle corde vocali del 1987, ma ciò non toglie che un
profano faticherebbe ad associare la stessa persona ascoltando di
seguito un suo disco dei primi 70 e Reg Strikes Back, l'album del
ritorno sulle scene. Quale altro celebre cantante può dire di aver
vissuto un destino analogo? L’unico che mi sovviene è il mio amatissimo
Gino Paoli…
Il fatto che io l’abbia conosciuto con questo lavoro,
tuttavia, cambia la prospettiva: la voce del “mio” Elton è quella di
fine anni 80-primi 90, meno duttile e versatile ma piena, matura,
leggermente nasale, più potente rispetto al tono “da castrato” (Elton
dixit) dei primi tempi.
Anche a livello artistico la riflessione si
fa soggettiva, perché ero un bimbo quando guardavo un programma RAI
pomeridiano per l’infanzia che aveva per sigla il videoclip di Town of plenty
ed ero ipnotizzato da quel buffo ed eccentrico Willy Wonka pianista;
per anni, prima di interessarmi seriamente alla (sua) musica, ho avuto
la ferrea convinzione che quel brano fosse la più irresistibile canzone
pop mai scritta.
Di certo molti fans italiani sono tali grazie a
questo album, che a sorpresa (visto il flop inglese) fu un successone
nel nostro Paese, trainato anche dal secondo singolo A word in Spanish, solare ballata in pieno boom del pop latino. Ancora oggi lo ascolto con piacere benché mi appaia per quello che è: un Leather Jackets
più bello, più ispirato, più brioso, confezionato meglio ma ugualmente
infarcito di suoni elettronici di grana grossa alternati ad inutili
schitarrate, lo stesso difetto che gravava sul più dozzinale Breaking Hearts.
Il pezzo forte è I don’t wanna go on with you like that,
giustamente estratto come primo singolo, con ritornello killer e
martellante incedere di tastiera e batteria: è il pop che sconfigge il
rock ma in questo caso l’arrangiamento danzereccio è l’arma vincente.
Quindi, a parte le già citate, in ordine di gradimento scelgo: Since God invented girls, ultimo di una breve serie di gioiellini adornati dai cori dei Beach Boys; Poor cow, rabbiosa nel tono e nel testo; Mona Lisas and mad hatters (part two),
che in molti considerano un insulto all’originale e invece dimostra la
versatilità di un musicista che passa senza problemi dalla delicatezza
acustica all’energia funky (grande assolo di tromba!); le ballate
elettroniche The camera never lies e Japanese hands e, infine, due canzoncine veloci, una elettrica (Goodbye Marlon Brando) e una acustica (Heavy traffic), troppo easy ma senza infamia.
Pur con tutti i limiti dell’Elton mestierante, mi è impossibile voler male a questo disco.
Voto 6,5
Sleeping With The Past
2012
Acquistato
da mio fratello a pochi mesi di distanza da Reg Strikes Back, anche il
successivo Sleeping with the Past ebbe una parte da leone nella colonna
sonora della mia fanciullezza. Ma, a
differenza dell’altro, riascoltandolo oggi devo esprimere qualche
riserva in più, di fronte alle maggiori ambizioni del suo autore non
confluite in un miglior risultato: la dedica di Elton e Bernie ai
“pionieri della musica Soul anni 60 e 70”, quasi superflua dato che fin
dagli esordi non mancarono mai le sfumature nere nelle loro canzoni, si
scontra infatti con scelte sonore in cui Chris Thomas estremizza
l’estetica plastificata anni 80, alla Ice on Fire per intenderci, e non
occorre essere esperti o appassionati di Motown, Stax & co. per
notare che, se questo voleva essere un esercizio di stile retrò, allora
perde notevolmente il confronto sia con certi brani di Don’t Shoot Me,
sia con l’analogo An Innocent Man di Billy Joel. Un esempio
lampante: i fiati sono tutti sintetici, con l’eccezione del sax in Club
at the end of the street (forse per non far rivoltare nella tomba il
povero Marvyn Gaye, citato nel testo), e ammazzano le potenzialità di
brani come la title-track o I never knew her name. Passata
l’amarezza di sentire Elton alle prese con arrangiamenti da piano-bar
(la ballad Whispers è forse la peggiore in questo senso), restano le
canzoni; alcune, decisamente buone, riescono a difendersi: Durban deep,
sorprendentemente dura e martellante; la coinvolgente Healing hands,
carica di ottimismo; Amazes Me, tinta di blues e gospel; la malinconica
Blue Avenue, dove finalmente si sente un pianoforte decente, offeso
però da una tromba finta. Ci sarebbe
anche Sacrifice, ruffianata di grande e immeritato successo
commerciale, in grado di riportare Elton in vetta alle classifiche
inglesi, con l’effetto collaterale di spingere una grande rockstar a
dispensare zuccherini per un decennio. Concludendo:
se lo si considera un album di black music, è un bidone; come album
pop, funziona a dovere; come album di Elton John, resta un’occasione
mancata.
Voto 6
The One
2012
Riconquistato un certo peso nelle classifiche, nei primi anni 90 Elton
John si disintossica finalmente dalla dipendenza da alcool e droghe:
l’album The One, anno 1992, rappresenta una sorta di grande ritorno, a livello personale prima che artistico o commerciale. Già ai tempi di Reg Strikes Back
Elton aveva detto addio a tutto il kitsch di scena ed ora si presenta
con un look serio ed essenziale, in linea con canzoni meno poppettare,
più sobrie e riflessive. Ma mentre evapora la sbornia elettropop e si
riafferma il rock, in concorso di colpa con Chris Thomas insiste con la
tastiera Roland (tristemente impiegata anche durante i concerti) al
posto del pianoforte e, non contento, elimina la batteria a favore di
una drum machine sintetica. Emblematico di tali scelte, il primo brano Simple life
sembra una canzone di Bob Dylan suonata dai Pet Shop Boys, con tanto di
armonica finta: nulla contro i PSB, grandi nel loro genere, ma la crisi
di rigetto arriva inevitabile. Oppure Whitewash County, definita testualmente “country-rock”, ma se non l’avessi letto, non l’avrei mai detto. O Emily, che farebbe una discreta figura in un disco come The Union
ma qui mi suona quasi inascoltabile. Una dissennatezza sonora che fa a
pugni con l’esibita eleganza della copertina, firmata Gianni Versace. Più convincenti, sotto questo aspetto, due pezzi meno canonicamente "alla Elton": Sweat it out,
che offre inoltre una coda piano-jazz da applausi, facendo nascere il
rimpianto per quanto poco l'autore abbia frequentato il genere; e Understanding women, dove tra ossessivi suoni elettronici trova posto la chitarra tirata di David Gilmour. Un altro ospite rinomato è Eric Clapton, che suona e canta nel bel duetto rock Runaway train, mentre On dark street conserva tutti i difetti pseudo-soul di Sleeping with the Past e delude. Tra
i lenti, svetta la celeberrima title-track, trionfo di romanticismo
eltoniano, non rovinata dall’arrangiamento (pregevoli, al contrario,
dettagli come il rumore del mare e dei gabbiani in sottofondo); quindi The last song, toccante ma non all’altezza dell’iniziale citazione beatlesiana, la melodicamente valida The North e When a woman doesn’t want you, sdolcinata con moderazione, ma avrebbe meritato l’album anche la bella b-side Suit of wolves inserita nell’edizione remastered. Se questo disco avesse il vestito di un Made in England o un Songs From the West Coast lo definirei un lavoro molto buono: così com’è, lascia ancora una volta l’amaro in bocca.
Voto 6,5
Duets
2012
Ho sempre detestato le compilation, quelle ammucchiate di canzoni
accomunate esclusivamente dall’appartenenza alla stessa casa
discografica; col tempo ho iniziato a odiare anche i greatest hits,
ormai li tollero solo se sono (come minimo) doppi e cronologici.
Detto questo, per recensire dettagliatamente Duets
ci vorrebbero fiumi di inchiostro o di pixel e, francamente, non ne
vale la pena: nella discografia di Elton John rappresenta un capitolo
poco rilevante. Non che sia un brutto disco, semplicemente è una
compilation e forse l’unico aspetto interessante nasce dalla sua natura
bizzarra, per usare un eufemismo, in cui musicalmente convive di tutto
un po‘.
Si alternano ritmi dance (la bella Teardrops con k.d.lang) e romanticismi da crooner (True love
con la fida Kiki Dee: ma perché, tra i tanti capolavori di Cole Porter,
scegliere proprio questo non esaltante brano?) e ogni canzone ha una
sua genesi produttiva autonoma. Quasi tutte, inoltre, provengono da
repertori altrui o sono state scritte per l’occasione dagli artisti
ospiti, e tra queste ultime non c‘è nulla di buono.
A ben pensarci,
però, si tratta di una intuizione intelligente: evitare di far scempio
dei successi di Elton, poco adatti a essere eseguiti in coppia (incubo
purtroppo realizzato in seguito dal terribile live One Night Only),
allontanando così quell’odore stantio di decadenza artistica e/o
autocelebrazione di un passato glorioso che spesso emanano gli album di
duetti. Non a caso, i due inediti John/Taupin sono studiati
accuratamente per la doppia voce: l’ottimo rock-funky The power con Little Richard e la più scontata ballatona A woman’s need
con Tammy Wynette, e se avessero applicato tale criterio a tutto il
progetto, sarebbe uscito un album vero e proprio, magari di buon
livello. E anche i pochi remakes sono azzeccati: la Don’t let the sun go down on me dal vivo con George Michael, già uscita come singolo due anni prima, e il remix targato Moroder di Don’t go breaking my heart con la drag-queen RuPaul, ironico ritorno al kitsch sfrenato.
Il meglio arriva alla fine, con due perle estratte dal canzoniere classico americano: Love letters con Bonnie Raitt e Born to lose in un magico incontro con la rochissima voce di Leonard Cohen.
Facilmente stroncabile se lo si considera un album, trattandolo da compilation Duets acquista punti e si lascia ascoltare, talvolta anche con piacere.
Voto 6
Made In England
2012
Fresco di Oscar, di Grammy, di ingresso nella Rock and Roll Hall of
Fame (introdotto da Axl Rose!), di una rinnovata popolarità, che cosa
manca all’Elton John del 1995? Un
fidanzato, direte voi maliziosi…errore: a partire da Made In England la
voce “David Furnish” inizia a comparire nei sempre più chilometrici
ringraziamenti-credits! Scherzi a
parte, l’album in questione riflette la volontà dell’autore di tornare
a fare del rock di qualità, nello stile del periodo d’oro, dopo troppi
anni di plastica, proseguendo in quel cantautorato riflessivo che in
The One era stato parzialmente vanificato dalla produzione. Da dettagli
come i titoli delle canzoni formati da una sola parola (ma la copertina
è quanto di più anonimo ci sia) si comprende l’ambizione di fare un
album e non una semplice raccolta di brani da dare in pasto alle radio
e finalmente la produzione si rivela molto adeguata, sia nella
strumentazione che nella resa sonora. Onore poi alla scelta come primo
singolo di Believe, quanto di più maestoso Elton abbia composto dai
tempi di Ain’it gonna be easy, una canzone NON d’amore ma SULL’ amore
come sentimento puro e universale, che Bernie evoca in pochi magistrali
versi. Purtroppo, a
questo iniziale gioiello fanno seguito la title-track, uno dei suoi
rock più piatti e commerciali di sempre, e il lento orchestrale (ma più
confidenziale…) House, perfetto per combattere l‘insonnia. Dopo una
Believe in minore (Cold), e un rock più decente (Pain), benchè
leggermente scopiazzato da hits altrui (Rolling Stones, Duran Duran),
Elton resuscita la gloriosa suite orchestrale, peccato che Belfast stia
a Tonight come Federico Moccia a Somerset Maugham: ci sono gli archi di
Buckmaster ma non la drammaticità di Elton John o la visionarietà di
Madman Across the Water. Ma sono assenti anche le influenze del rock
americano, quindi è meglio evitare i confronti col passato e assaporare
l’album come un esempio di rock sinfonico meno eltoniano e più
beatlesiano, o comunque “made in England”, a base di piano, archi e
sferzate elettriche, mai abbastanza ruvide. E proprio il mitico George
Martin fa capolino nell’arrangiamento del bel (brit)folk Latitude,
primo di una serie di brani che, se non altro, risollevano il livello:
il piacevole (brit)pop Please, le ballate Man (all’organo hammond) e
Blessed (dal sapore latino), la ritmata Lies. Globalmente,
il difetto del disco è nel manico, nell’ispirazione non all‘altezza
delle ambizioni, talvolta smarrita in un alone di pesantezza e noia: un
parere del tutto personale, però a questo Elton (improbabilmente)
elegante e patinato preferisco l’onesta popstar (con tutto il suo
carico di kitsch) di 21at33, TLF0 o Reg Strikes Back.
Voto 6+
The Big Picture
2012
Prima di frequentare il “Bad Side Forum”, non avevo proprio idea di
quanto sia generalmente detestato The Big Picture, album che ascoltavo
spesso quando uscì (ricordo che fu un gran successo in Italia) e che
seguitava a piacermi anche dopo aver conosciuto l’Elton degli anni 70.
In sostanza, gli aspetti critici sono tre, che proverò a ridimensionare: 1) Fattore Diana:
il disco viene alla luce in un periodo in cui l’immagine di Elton, più
che di un artista, sembra quella di buon samaritano del jet-set
internazionale, e il riciclo di Candle in the wind come requiem per
l’amica Lady D, che gli regala nuova popolarità a buon mercato, suona
come il colpo di grazia. Eppure, l’ispirazione si mantiene su livelli
dignitosi, come dignitosa è l’assenza del brano in questione dalla
track-list, nemmeno in qualche “deluxe edition” come si usa oggi. 2) Fattore noia:
monotono e abbastanza tedioso, ma non meno di altri suoi dischi (Made
in England e Peachtree Road su tutti), riesce comunque a non far
esondare la melassa e a mantenersi su un tono malinconico, com’è giusto
per un lavoro segnato dai lutti (è dedicato a Versace). E le
interpretazioni vocali sono tra le più belle di sempre, in grado di
fare la differenza anche nei momenti più stucchevoli come Recover your
soul. 3) Fattore Chris
Thomas: un ritorno ingiustificato (l‘ultimo, per fortuna), che in anni
di brit-pop tenta di svecchiare le melodie con un pesante impasto di
chitarre, elettronica e orchestrazioni; a volte il suono è accettabile
(il singolo Something about the way you look tonight, la title-track,
la dance-rock Wicked dreams), più spesso raggiunge inauditi livelli di
sciatteria (le altrimenti valide Long way form happiness e Live like
horses, un omaggio al melodramma italiano già inciso con Pavarotti).
Tuttavia, trattandosi di un album costituito principalmente da canzoni
pop (c’è appena un accenno di gospel nella bella If the river can bend,
il brano che preferisco), con un arrangiamento tradizionale sarebbe
uscito un Made in England più scontato: si poteva quindi azzardare
qualcosa di moderno e all’avanguardia, magari anticipando di qualche
mese il Ray of Light di (Madonna e) Patrick Leonard… Così com‘è, se lo
riascolto oggi mi appare un’opera di puro mestiere: considerando che
l’Elton mestierante è durato quasi un ventennio, questo capitolo è
forse uno dei più solidi e potabili.
Voto 6,5
Aida
2012
Elton John e il teatro musicale: due mondi destinati inevitabilmente ad
incontrarsi, dove però il nostro non mai dato il meglio, al contrario
esasperando la tendenza alla noia e alla pesantezza dei suoi dischi anni
90. Aida ne potrebbe essere l’esempio più calzante: se l’idea
di rifare Verdi in chiave rock già sapeva di pacchianata, la certezza
di una pop-opera (di rock manco l’ombra) prodotta dalla Disney per il
suo circuito teatrale elimina ogni residuo interesse.
I demos cantati dall’autore in realtà non sono male, relativamente all’Elton da radio AC in stile The Big Picture;
l’album ufficiale, invece, compie l’errore di far interpretare questi
brani ad altri artisti (forse alla Disney avevano tanti soldi da
spendere), a riprova che lo stile di Elton è difficilmente
coverizzabile. Qualche nome di peso riesce a lasciare un’impronta
personale - Sting in Another pyramid, Tina Turner in Easy as life, James Taylor in How I Know you, Lenny Kravitz in Like father like son
- , per il resto il livello dei demos peggiora puntualmente in tronfie,
zuccherose, plasticose esibizioni di bel canto. La voce di Elton si
sente solo in quattro duetti di gusto sanremese, tra cui il brano
portante Written in the stars (con LeAnn Rimes), dei quali il meno peggio è The messenger con Lulu. Si salva indubbiamente Anneris’letter eseguita da Shania Twain, un piano-voce breve e intenso che, solo soletto, rende un buon servizio al demo originario.
Nel
complesso, un album-compilation da dimenticare per il musical eltoniano
meno interessante, perché un lavoro palesemente su commissione: se non
altro, The Lion King è ormai un classico (e tratto dal miglior cartone Disney degli ultimi 30 anni), Billy Elliot è un progetto sentito e semi-autobiografico (l’unico brioso, benché musicalmente molto mediocre) e The Vampire Lestat,
unico flop e scritto con Bernie, azzecca la giusta atmosfera cupa e
opprimente, infilando in mezzo alla noia qualche autentico gioiello,
“teatrale” nel miglior senso del termine.
Per fortuna, o purtroppo, da questi tre musical non è mai stato tratto un album ufficiale analogo ad Aida, ma il fan sfegatato-completista può accontentarsi di qualche demo.
Voto 4,5
(Voto ai demos 5,5)
The Road To El Dorado
2012
Ironia della sorte: la colonna sonora del Re Leone conteneva solo tre
brani interpretati dall’autore ma vendette milioni di copie, al
contrario The Road to El Dorado, altro soundtrack di un altro cartone,
nacque a tutti gli effetti come album di inediti di Elton John (con tre
strumentali di Hans Zimmer in coda) ma passò inosservato.
Come il film del resto, in realtà non disprezzabile esempio di cartoon
Dreamworks “serio” prima della svolta ridanciana dei vari Shrek: ma
alla casa di Spielberg non bastò assoldare il trio d’oro
John-Rice-Zimmer per evitare uno dei suoi pochi fiaschi.
Quanto al disco, mi vien da dire “meglio così”: tutto l’Elton più
lagnoso sembra essere finito in questo lavoro all’insegna del pop
latino (non esattamente la passione di chi scrive…ma A word in Spanish
questi brani se li mangia quasi tutti!), con Friends never say goodbye
che potrebbe fare una discreta figura nel repertorio di qualche boyband
(la partecipazione dei Backstreet Boys non è ufficializzata, forse per
l’imbarazzo, ma purtroppo si sente benissimo), Whitout question che
conta su ospiti più rinomati (gli Eagles) ma non suona meno sdolcinata,
la ninna-nanna The panic in me…e il poco invitante rock 16th century
man che non offre alcuna consolazione. Decisamente preferibili altre
ballads come la malinconica My heart dances, Queen of cities con i
coretti di Davey e Nigel, l’efficace brano di lancio Someday out of the
blue. Solo simpatica It’s tough to be a god, duetto a ritmo di bossa
con un Randy Newman in libera uscita dai cartoni Pixar.
All’improvviso, in mezzo al deserto spunta The trail we blaze, country
veloce che miracolosamente ricorda a tutti quanto è bravo Elton a
scrivere brani di questo tipo e quanto se ne sentisse la mancanza.
Trust me, invece, sembra uscita da Ray of Light e fa risaltare l’altro
punto di forza dell’opera: la bella produzione di Patrick Leonard, in
equilibrio tra suoni acustici ed elettronica di qualità, con un
pianoforte finalmente rimesso in spolvero: di lì a pochi mesi sarà
tutta un’altra musica, ma le fondamenta di Songs From the West Coast
sono gettate.
El Doardo: ultimo atto della decadenza artistica o prima fase della
rinascita? Probabilmente sono vere entrambe le affermazioni,
personalmente opterei per la prima.
Voto 5/6
Songs From The West Coast
2012
Nel 2001 guardavo spesso MTV (si sa, da giovani si fanno molti errori),
senza trovare nulla di appagante fuor dello sfizioso (e talvolta
eltonesco) pop di Robbie Williams. Improvvisamente, due vecchie volpi
fecero uscire nello stesso periodo due brani che sembravano provenire
direttamente da metà anni 70: uno era You rock my world, ultima hit di
Michael Jackson prima del tragico declino, l’altro I want love di Elton
John, ed erano accompagnati da memorabili videoclip, rispettivamente
una variazione sul tema noir-gangster di Smooth criminal e un lungo,
tortuoso piano-sequenza incollato a un pensoso Robert Downey jr. Da
buon samaritano, Elton lo fece uscire di galera apposta per girare il
video, e da lì l’attore avrebbe ricostruito la propria carriera… Songs From the West
Coast, di cui I want love era un ottimo antipasto, mi piacque
moltissimo fin dal primo ascolto, ma fu solo dopo la scoperta di tutta
la discografia eltoniana che ne compresi appieno il valore,
nell’ispirazione come nella confezione. Prendete Emperor’s new clothes:
gli accordi sono complessi, imprevedibili, sorprendenti, il pianoforte
sembra esplodere in un boato liberatorio dopo anni di umiliazioni e
Patrick Leonard gli affianca basso, batteria e archi-di-Buckmaster nel
più inconfondibile stile Madman Across the Water. Incredibile ma vero,
è proprio il produttore di Madonna ad ottenere l’arrangiamento “ricco
ma essenziale” che più si avvicina alle migliori prove di Gus Dudgeon,
che si completa con un suono pulito, limpido, tirato a lucido senza
essere banalmente radiofonico o inutilmente ruffiano, e che valorizza
al meglio una band eterogenea dove trovano posto Nigel e Davey, Jay
Bellerose e Matt Chamberlain, Stevie Wonder e Billy Preston, Gary
Barlow e Rufus Wainwright. Ma è l’ispirazione
a fare la differenza con tutto l’Elton post-Blue Moves: la scrittura è
più cantautoriale, non piagnona ma toccante, Bernie affronta temi
scottanti come l’omofobia (American Triangle) e l’AIDS (Ballad of the
boy in the red shoes) e anche quando l’Elton al miele riaffiora
(Original sin) lo fa con eleganza, la stessa che eleva il riempitivo
(Dark diamond, che avrei sostituito con una a scelta tra le magnifiche
B-sides scartate, magari God never came here); e quando si getta nel
puro pop (Love her like me) il risultato è delizioso. Solo ballads,
dunque? Nossignore! Prima della chiusura, con la suggestiva Mansfield e
la meravigliosa, autobiografica This train don’t stop there anymore
(per chi scrive, il suo lento più bello e commovente dai tempi di
Idol), c’è spazio per The wasteland, un tagliente omaggio alle radici
del blues che, finora, resta il rock più vispo del suo ultimo periodo
(diciamo, del post-Wake up Wendy), e per due brani che giocano col
folk-country (Look ma’, no hands e Birds), segnando l’inizio del
riavvicinamento dell’autore al rock americano e quindi allo stile degli
anni migliori. Un lavoro
importante West Coast, che apre la fase neoclassica di Elton, al quale
però non è più riuscito, dopo questo disco, il colpaccio di conciliare
buone vendite e ottime critiche, soddisfare il fan storico e lo
spettatore di MTV, chi vuole la hit a tutti i costi e chi pretende a
ragione qualcosa di più raffinato.
Voto 7/8
Peachtree Road
2012
Non conservo un buon ricordo di Peachtree Road, lanciato (affossato) da
un singolo di rara mediocrità e scialbezza (ok, direte che Heartache
all over the world era peggio: ma almeno era canticchiabile!): dopo
aver sentito All that I’m allowed passai una notte insonne nel timore
che tutto l’album fosse allo stesso livello; fortunatamente, il primo
ascolto del disco mi fece tirare un sospiro di sollievo ma fu
sufficiente per notare una certa disarmonia tra una prima parte quasi
ottima e una seconda (o meglio, una parte centrale) abbastanza modesta.
Troppa ambizione, Sir Elton: è arduo tornare
sui passi di Tumbleweed Connection quando l’ispirazione e la voce (qui
particolarmente fiacca e appesantita) non sono più quelle di un tempo.
Certo, all’inizio ci si esalta grazie a Weight of the world e Porch
swing in Tupelo, col loro impasto di gospel e country, Turn the lights
out when you leave ci fa piangere e sognare gli orizzonti e i cieli
infiniti dell’America rurale, My elusive drug non può non richiamare
alla mente qualcosa di Talking old soldiers, fatte le ovvie
proporzioni; anche la più commerciale Answer in the sky non manca di
interesse, con quell’attacco di violini che ricorda Philadlephia
Freeedom.
Purtroppo, dopo l'intorpidito rock’n roll They
call her the cat, il letale primo singolo e Freaks in love, valzerone
che sembra un’auto-parodia, l’album inizia a soffrire e tutta l’ultima
parte, con l’eccezione di Too many tears, procede per inerzia tra la
monotonia.
Insomma, un disco di buone intenzioni ma dal
risultato altalenante, praticamente un rodaggio per i successivi The
Captain and The Kid e The Union, più ispirati e convincenti nel ritorno
al rock americano. La band, che oltre a Nigel e Davey comprende i
compianti Guy Babylon e Bob Birch, si mostra comunque all’altezza della
situazione ed Elton, qui produttore in solitaria, riesce a creare il
giusto sound (Patrick Leonard, inizialmente coinvolto, probabilmente
non sarebbe stata la scelta più adatta per un lavoro di questo genere),
ma senza un valido sostegno compie qualche passo falso: chi dobbiamo
ringraziare per avere relegato a B-sides gioielli come So sad the
renegade, A little peace, Keep it a mystery, How’s tomorrow?
Sostituendoli alla zavorra, ecco a voi quell’album di alto livello che
Peachtree Road non riesce ad essere.
Voto 6,5
The Captain & The Kid
2012
The Captain and The Kid, ovvero la perla nascosta della
discografia di Elton John: pubblicizzato a malapena dalla casa
discografica, rifiutato dal pubblico (specie in USA, dove Captain Fantastic spopolò), non particolarmente amato da quella critica che aveva osannato Peachtree Road…adorato
dal sottoscritto fin dal primo, folgorante ascolto. A distanza di anni,
mi è ancora difficile stabilire una preferenza tra questo album e Songs From the West Coast,
di certo si tratta due opere non sovrapponibili, benché accomunate da
una ritrovata ispirazione: il suono crudo e diretto, magari anche
grossolano, mai ammorbidito (archi grandi assenti), oltre alla
prevalenza (finalmente!) di brani medio-veloci, ne fa uno dei suoi
lavori più rock, con un pianoforte strepitoso e chitarre sferzanti
(Davey è sempre meglio nei lavori in studio che dal vivo, ma qui fa
davvero un figurone). Un disco necessario: Captain Fantastic
non poteva non avere un seguito, ed ecco di nuovo l’epica del capitano e
del cowboy, stavolta alle prese con le gioie di una vorticosa scalata
al successo globale e i dolori delle sue conseguenze. L’euforia va a
braccetto con la malinconia, l’auto-celebrazione sfuma nel rimpianto per
l’innocenza perduta: in questo senso, brani agrodolci come Postcards from Richard Nixon, Tinderbox e Old ‘67 sono perfetti nel racchiudere il senso dell’operazione-nostalgia, ma l’Elton da fazzoletti colpisce ancora con la straziante Blues never fade away, che sta agli anni zero come Candle in the wind stava ai 70 ed Empty garden agli 80. Dovendo trovare un difetto, a parte la scelta come singolo del brano meno adatto, la semplice ed esangue The bridge,
direi che le troppe citazioni e auto-citazioni, peraltro mai pedanti,
lo rendono palesemente un disco “già sentito”: c’è Bob Dylan omaggiato
in I must have lost it on the wind, il rock'n roll delle origini nella gagliarda Just like Noah’s Ark, la title-track si apre e chiude sulle stesse note del brano che introduceva l'album del 1975…And the house fell down addirittura ricorda vagamente un’oscura B-side di Leather Jackets (Lord of the flies),
ma è anche il genere di canzone swingante che attendevo da secoli da
Elton, che nel bridge si concede la prima e finora unica “rappata” della
carriera. Con tradizione e creatività, come negli album migliori, il
cantautorato ispirato ai generi classici americani come blues e country
diviene un pop-rock sfavillante e inimitabile; meno raffinato e purista
di The Union, ma più sentito e personale, questo è attualmente il miglior Elton possibile, nella fiduciosa attesa di essere smentito dal The Diving Board prossimo venturo.
Voto 7/8
The Union
2012
Leon Russell, chi era costui? Provando a immaginare un Elton John
defilato e di nicchia, si otterrebbe una figura non lontana da quella di
Russell, l’uomo che nel 1970 diede un contributo importante al successo
in terra americana del giovane inglesino. Quarant’anni dopo,
l’inglesone mette in cantiere un disco a quattro mani con l’antico
maestro, a compimento del percorso di riscoperta delle proprie radici
musicali. L’incontro tra il Re Sole del pop e il vecchio capellone che,
superata l‘età della pensione, gira ancora gli States con la band a
bordo pulmino (!), costituisce di per sé un evento imperdibile e la
regia di T-Bone Burnett, eminenza grigia di tanto “roots rock”
americano, garantisce la qualità. Si parte giustamente con Leon e la sua If it wasn’t for bad,
brano R&B aperto da un coro gospel valido come dichiarazione di
intenti per l’intero progetto: scopro così un artista in forma, per
nulla imbolsito, dal piglio aggressivo, lo stesso che ritrovo in Hearts have turned to stone. Molto bella anche I should have sent roses
su testo di Bernie, un brano più “alla Elton“ che Burnett saggiamente
differenzia con un arrangiamento in stile vecchia Motown. Ed è
impossibile trattenere le lacrime sul gran finale In the hands of angels, perdonandogli la vistosa somiglianza a Que Serà di Feliciano (la scrisse Jimmy Fontana, ma questa è un’altra storia…grazie, wikipedia!) Quanto ad Elton, con la ballata per cuori spezzati Eight hundred dollar shoes
dimostra di saper ancora fare cose meravigliose con vecchie idee
melodiche e un arrangiamento minimale, poco più di un piano-voce. Nel
rock di Hey Ahab e della quasi improvvisata A dream come true,
unico pezzo firmato John-Russell, più della melodia (buona) vale lo
spettacolo del duello-duetto pianistico, e lo stesso discorso si può
applicare a Jimmie Rodgers’ dream: non è migliore di analoghi
brani country dell’ultimo Elton ma è quello con la veste sonora più
genuina e "doc". Personalmente, all’interno di un lato A di altissimo
livello, scelgo come gemme la desolata tristezza di Gone to Shiloh,
racconto di vecchi soldati parlanti in ritirata dal fronte sudista, che
trova nella terza voce di Neil Young un ospite mai così azzeccato e in
sintonia, e di There’s no tomorrow, in cui Elton fa suo il
lamento degli schiavi neri in catene sulla base di un vecchio brano
gospel di James Timothy Shaw, citato tra gli autori assieme al trio
John-Russell-Burnett. Ovviamente, su sedici brani non tutto è imperdibile: Monkey suit, in teoria il rock di punta, è solo la bella copia di They call her the cat (dove i fiati, però, suonavano molto meglio); When love is dying
soffre di pesante disequilibrio tra strofe e bridge splendidi, in
omaggio al crooning di Sinatra, e un ritornello enfatico che travolge
anche i cori di Brian Wilson; negli altri brani più melodici (The best part of the day, Mandalay again)
non brillano particolarmente né l’Elton autore né il Leon interprete; e
in generale, talvolta ho l’impressione di un disco più “vecchio” che
“classico“, dovuta in parte allo spaesamento di chi predilige sonorità,
se non power-pop, comunque più roboanti e d’impatto, e in parte ad un
Burnett-style più purista che energico. Riserve che passano in secondo piano quando, prima della fine, arriva Never too old,
il duetto che racchiude il senso di tutto l’album: non si è mai troppo
vecchi per fare della buona musica. L’unione fa la forza e The Union,
al di là dei gusti personali e del suo effettivo valore, resterà un
pregiatissimo pezzo unico nella discografia del nostro Elton.
Voto 7,5
Pnau - Good Morning To The Night
2012
Ogni tanto, le popstar di un certo tipo danno in pasto ai fans
oltranzisti un album di remix, ma a quali fans può interessare un
simile progetto a firma Elton John? Oddio, spesso gli si rimprovera di
aver flirtato con l’elettronica negli anni 80 e 90, in realtà il fatto
è che, a parte qualche caso isolato, in quei dischi la si è usata nel
modo più banale e modaiolo, senza la minima creatività. Un album di
remix poteva anche avere un perché ai quei tempi, ma ha senso
realizzarlo dopo The Union? Anche al sottoscritto, che considera
l’eclettismo una virtù, pare una scelta demenziale.
Good Morning to The Night però è cosa altra e diversa: svariati brani
degli anni d‘oro, celebri o meno, vengono smembrati e remixati tra loro
in modo da formare composizioni del tutto nuove; si tratta di dettagli
sonori impercettibili (riconoscere tutti i singoli elementi è a volte
impossibile) come di interi ritornelli e strofe. L’idea, va detto, è
originale e innovativa, probabilmente senza precedenti nella storia del
pop: e qui sta l’inghippo, perché Elton fornisce solo la materia prima,
ma il lavoro sporco lo fa il duo australiano Pnau. Eppure il disco è
ufficialmente accreditato come “album di Elton John”, che da vecchia
volpe lo aggancia alle olimpiadi di Londra e lo fa uscire in piena
estate. Risultato: la prima #1 nell’album chart inglese dal 1990 (!),
una vittoria di Pirro che nel resto del mondo passa del tutto
inosservata.
Opera creativa e furbata commerciale in parti eguali quindi, dove, più
della title-track che macella Mona Lisas and Mad Hatters con Tonight in
un brano dance-house piuttosto raffazzonato, e del singolo Sad che
trasforma Curtains in un sottofondo da cocktail, vanno apprezzati altri
mostri di Frankenstein più simpatici: Black icy stare, in cui la solo
curiosa Solar prestige a gammon acquista punti con la nuova veste;
Foreign fields, gustoso impasto della meravigliosa High flying bird con
scaglie di Cage the songbird; Telegraph to afterlife, cioè Harmony e
Love song in versione trip-hop; Phoenix e la più azzardata Kamatron,
che rifanno rispettivamente Grey seal e Madman across the water senza
scandalo. Il fanalino di coda Sixty, mix strumentale di tre differenti
versioni di Sixty years on, sembra più che altro uno sbrigativo inchino
al pianoforte, strumento in grado di sopravvivere a ogni diavoleria
tecnologica.
Geniale o insopportabile a seconda dei gusti, il disco è perfetto per
un ascolto estivo spensierato (la media di questi otto brani è sui tre
minuti scarsi); bravi Pnau, hanno lavorato con passione e competenza,
ma questo NON è un album di Elton John, a meno che non lo si voglia
considerare un’appendice al suo ultimo periodo: dopo il ritorno al
passato, si riparte dal materiale classico e si crea qualcosa di
futurista. Volendo…volendo…
Voto 6+
The Diving Board
2013
Anch'io sono rimasto delusissimo dai primissimi ascolti (nel sondaggio apposito non ho risposto, ma avrei detto 5
), per due motivi oltre alla cattiva qualità sonora: per colpa dei
raffronti ideali con 11-17-70 e Blue Moves mi ero immaginato un misto di
brani come Rock'n roll madonna, magari un po' meno selvaggi, e
melodrammoni stile Tonight, certamente meno "pompati".
Invece, eccomi
spiazzato da ritmi lenti e suoni scarni, con canzoni per nulla
immediate...quanto ho sofferto nel confronto con The Captain and The
Kid, che mi folgorò fin dal primo ascolto, quanto ho rimpianto Blue
Moves e i suoi sfrenati barocchismi, e lo dice uno che pensa che Elton e
"essenzialità" siano concetti agli antipodi...in fin dei conti è dai
tempi dell'album omonimo, se non addirittura da Empty Sky, che il
pop-rock di Elton tende al barocchismo, non abbiamo mai ascoltato un suo
album in studio DAVVERO scarno e minimale.
Invece, ascolto dopo
ascolto, mi sono innamorato di questo disco apparentemente moscio (che
differenza con la dirompente, sorprendente energia dell'ultimo Bowie!) e
in realtà raffinatissimo e toccante, e mi sono reso conto che le
intenzioni di fare un lavoro intimo e personale, senza tentazioni
commerciali e piacione, sono state realizzate in pieno, grazie a un
Elton (e un Bernie) in ottima forma e a un Burnett dal tocco magico,
fortunatamente privo di quel sentore di vecchio che in parte mi rovinava
il piacere d'ascolto di The Union.
Le canzoni sono tutte belle,
alcune bellissime, crescono ad ogni ascolto, non c'è nessun riempitivo
(a differenza di The Next Day, che poteva risparmiarsi 2-3 brani) e
finalmente Elton ci regala quelle atmosfere jazzate che tanto mi
piacciono e tanto sono mancate nella sua discografia: My Quicksand
(sempre più bella! per niente pesante) e la title-track, meravigliosa,
quasi ai livelli della mia adorata Idol. Insomma, sia nel suono che
nell'ispirazione c'è davvero aria di novità, mai di "già sentito". Il
miglior album da Captain Fantastic!!!!
Attualmente, volendo fare il punto sul periodo della rinascita artistica, direi: Songs from the West Coast: 7/8 Peachtree Road: 6+ The Captain and The Kid: 7/8 The Union: 7,5 The Diving Board: 8
Migliore
ispirazione: TC&TK (perchè c'è il migliore equilibrio melodico tra
pop e cantautorato, e gli ultimi brani autenticamente rock, con la
parziale eccezione di Hey Ahab) Migliore produzione: The Diving Board Miglior suono: West Coast (un po' patinato e artefatto, ma è l'unico che ricorda il miglior Dudgeon) Canzone più amata: Blues never fade away (se la sta giocando con The diving board) Canzone più odiata: Electricity (Elton....BASTA MUSICAL !!!!!!!!!!!!!!) Menzione
speciale a Good Morning to the Night: piaccia o non piaccia, ora anche
Elton ha un album di remix, e per di più originale e avanguardistico!
Sì, tutto sommato sono stati 12 anni più che soddisfacenti...e ancor non è finita!