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recensioni







le recensioni di

Giorgia Turnone

 (12)
Giorgia Turnone




Elton John

2009

40 (+1) anni d’ispirazione 1970: LA TUA CANZONE


Il primo album è il classico bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno, ma non rispecchia appieno il talento intrinseco nella natura di Reginald e Bernie. Solo due o tre canzoni spiccano alla grande, ma il risultato non è il massimo. La seconda chance, abbiamo detto, è opera di Steve Brown, che convince Dick James nel mettere a disposizione dei due ragazzi un’attrezzatura seria. Questi accetta, riluttante, e così si getta le basi per il secondo album, che sarebbe uscito l’anno dopo.

Intanto, il destino continua a divertirsi con Reg e Bernie. Entrambi sono infatti sconsolati, delusi e per certi versi già stanchi della carriera musicale intrapresa. Muoiono di freddo e di fame sotto i ponti dell’innebbiata Londra. Il loro primo singolo, Lady Samantha, non ha intaccato le classifiche perché, pareva, troppo poco originale. Il pubblico, ancora innamorato degli “Scarafaggi”, presta poco orecchio agli esordienti. Invece, la critica ha espresso toni lodevoli nei confronti dei due artisti, citando il testo di Taupin come “notevole”. Ma è troppo poco per coloro che strapperanno lo scettro ai più grandi.

Poco tempo dopo, i due amici ritrovano entusiasmo e cominciano i lavori per il secondo album. Niente è come prima. Gli arrangiatori e i produttori sono cambiati, adesso c’è gente professionale lì dietro. Paul Buckmuster e Gus Dudgeon, due figure che segneranno il cammino musicale di Reginald Dwight. Arriangiamenti taglienti come coltelli e dolci come la seta saranno caratteristiche della seconda produzione.

Reg canta le liriche del suo paroliere, che raccontano di re condannati al patibolo sotto congiura familiare, autobiografiche esperienze sessuali, un disperato bisogno dell’indeterminato, la voglia di non varcare i 60 anni di età… ma non sarà questo a far decollare il disco. Perché l’album entri nella leggenda, serve una canzone portante. Anzi, più di una canzone. La tua canzone.

In un’epoca lasciata vedova dei Beatles, niente può più stupire. Niente può più vendere, andare alle stelle. Tutto è già stato visto, e chissà quando ne nasceranno altri come loro, si diceva la gente nei bar. Bè, gli eredi erano davanti ai loro occhi.

Taupin era un adolescente pieno di belle speranze e con una fidanzatina. Una mattina, decide di scrivere una lirica per lei. Ma forse, trattava l’amore generico. Troppo idealizzato, colorato, puro. Ma d’altra parte, il paroliere non era ancora maggiorenne. A lavoro finito (leggenda narra: tempo 20 minuti), una macchia di caffè sporca il bordo inferiore del foglio. “Mah, quasi quasi ora lo getto.” avrà pensato Bernie. E invece, il destino ha voluto il contrario. Taupin presenta il suo testo all’amico, che in poco meno di mezz’ora crea il giusto affresco per quella meravigliosa cornice. Era la loro canzone. La nostra canzone. La canzone di tutti. La canzone di chi è innamorato. La canzone di chi vorrebbe esserlo. La canzone di chi ha perso l’amore. La canzone di chi l’ha riconquistato. La canzone degli omosessuali. La canzone di chi sogna. La canzone di chi ama la musica.

Era Your Song.

1970. Possiamo considerare iniziata l’età dell’oro. Il secondo album ottiene un successo che neppure il più ottimista degli ottimisti avrebbe potuto immaginare. Qualcuno paventa la tempesta “Eccoli lì sono loro gli eredi dei Beatles!”. Era ancora presto per dirlo. Nessuno ci ha creduto, meglio così. Reginald e Bernie si sarebbero bruciati in soldi facili, canzoni da classifica, concerti poco memorabili in piazzole semi-deserte. Non basta scoprire l’hit del momento per essere dei geni. E questo, lo sapevano benissimo. La scalata per l’Olimpo della Musica era appena iniziata.

La copertina dell’album è tetra, buia, cupa, mezzo volto del pianista illuminato da una luce fioca, la perfetta contrapposizione di quello che diverrà dopo. Con un altro nome. Il nome dell’album.

Signore e signori... ELTON JOHN.



Tumbleweed Connection

2009

40 anni d’ispirazione -
1970: i signori della musica

Non più tardi di Elton John, sempre 1970, i due artisti hanno creato più di un album. Non lo sapevano, ma avevano creato il disco perfetto. Qualcosa di superiore perfino ai loro miti. Le loro ispirazioni. Bè, ora sono loro che devono osservare gli eredi superare i maestri.
Tesi, antitesi e sintesi. Fate voi, anche perché ricorrere alla canonica Trinità è facile oltre che dovuto. Amen. Comunque, il mondo è un posto migliore quando Elton e Bernie compongono così (cioè sempre), e da quel 1970 tutti gli essere umani di buona volontà (cioè i fans) hanno più motivi per essere ottimisti.
Seriamente: adesso sarebbe ragionevole parlare di Maestri dei Beatles. Loro, John e Taupin, sono così avanti che se si guardano alle spalle vedono il futuro. Che vuoi dire sugli artisti del (recente) passato, quando quei due hanno una classe che manco in oratorio con le squadre squilibrate hanno?
Silenzio, non va sprecato niente di quel 1970. Tenete l’immagine del pianista e del paroliere che vanno verso l’esplorazione di mondi ma visti prima: un album perfetto, senza alcun singolo, non si era mai visto. Primizie.
Lodati siano Elton John e Bernie Taupin. Hanno creato, quasi dal nulla, un album da mille e una notte. Qualcosa come mappare un monte più alto dell’Everest sulla cartina geografica. Esagerazioni simili. E’ difficile trovare termini di paragone, è facile ipotizzare il loro futuro percorso, da predestinati, da geni. Cavoli, neanche Elvis era così lanciato.
Questa è tutta una lode alla coppia. Parole, parole vere, strutturate, davvero non riesco a trovarle per parlare di questo album. Basta il titolo per capire che siamo di fronte a qualcosa di più della musica, almeno da quando la musica è suono: Tumbleweed Connection.
In fondo, due così, che fanno i cecchini sparando fiori, possono anche meritare legittimamente il Nobel per la Pace. Altro che immaginazione al potere, può essere questo lo slogan che finalmente cambia il mondo: mettete dei fiori nei vostri album.



Captain Fantastic And The Brown Dirt Cowboy

2010

40 (+1) anni d’ispirazione
1975: qui s’interrompe la Storia… ed inizia la Leggenda



E mo? E adesso chi guarda la classifica di Billboard? Qui è un problema pure pensare di finire l’ascolto dell’album, se ci sono sopravvissuti alla prima canzone. Perfetta. Ed è solo la prima traccia. Le seguenti sono sulla sua falsariga. Cinque lettere, un amore, un lungo brivido in fondo al cuore. E-l-t-o-n. Dal 1975, in America è un nuovo modo per dirsi ti amo.
E sì, perché un album così bello, così grosso, così “brown”, così “born in the USA”, così eltoniano, ti porta a cose del genere, anche alla nascita di nuove forme d’amore, quelle per esempio tra un essere umano e un LP. Dal 1975, in America, potreste vedere la gente andare in giro baciando, ai semafori, un vinile. Probabilmente con dolcezza. Sopra ci sarà la faccia di Elton John. O quella di Bernie Taupin. O di Gus Dudgeon. O quella di uno qualsiasi degli eroi di questo album.
Sarebbe un modo per sopravvivere, per cercare di non pensare a quello che rappresenta quel numero, sì, proprio QUEL numero, quello piccolo piccolo piccolo: uno. Uno, anzi, primo. Nelle classifiche di Billboard. Mai nessun disco aveva debuttato direttamente lassù. Ma sarebbe la cosa più normale per portare rispetto a quella che è la perfezione di Captain Fantastic And The Brown Dirt Cowboy: troppa. Straripante. È stato l’album più eltoniano da realizzare. Non “eltoniano” di musica, eltoniano di essenza e di spirito, perché è totalmente autobiografico. Perché rispetto a capolavori (forse) superiori (MA DI QUANTO??!) come Tumbleweed Connection e Madman Across The Water, tale LP è qualcosa di persino più difficile, perché contrariamente ai primi lavori, questo ha battuto un certo potere maligno e malefico che si chiama “pressione”. Perché dopo il successo formidabile di Goodbye Yellow Brick Road, “tutti” (i “tutti” che ti fanno re e nello stesso istante ti condannano ad uno stato di perfezione assoluta che non dura mai) si aspettavano la riconferma. Ed è questo il muro che i comuni mortali non superano. Producono album su album che risultano essere solo pietre utili a costruire una struttura (musicale) perennemente tendente verso il basso, una parabola discendente che prosegue e conclude il suo cammino, inesorabile.
Elton John e Bernie Taupin, no. Hanno abbattuto il muro della pressione semplicemente soffiando, con la stessa semplicità di un bambino che spegne le candeline della sua torta di compleanno. Perché in questo album davvero non si riescono a cogliere punti deboli o mancanze, e quella freschezza di inizio carriera pare sia rimasta inalterata. Come l’acqua limpida delle sorgenti che ancora non è stata inquinata. Sì, la loro classe è limpida così. Tanto limpida da potersi specchiare dentro.
Captain Fantastic And The Brown Dirt Cowboy è la titletrack che rappresenta l’album in tutte le sue sfaccettature. Sembra la descrizione dei protagonisti di un romanzo: il “Captain Fantastic, raised and regimented hardly a hero” ed il “Brown Dirt Cowboy, still green and growing”. Splendida l’intro alla chitarra che richiama una certa atmosfera country.
Con Tower of Babel si abbandona la perfezione e si passa allo stratosferico. La Elton John Band è al suo picco. Il testo di Taupin, forse allegorico, forse metaforico, in ogni caso superbo, è senza dubbio alcuno uno dei più enigmatici del repertorio. Ma la voce del Capitano Fantastico, così soave ed angelica, riesce a dare un senso a quelle parole alle nostre orecchie incomprensibili, alle loro così familiari. Snow… cement… junk… angel… come leggenda vuole, non sapremo mai il reale significato.
Il terzo capitolo di questa splendida autobiografia è Bitter Fingers. Musicalmente parlando, lo stratosferico scema in sublime, ed il testo del Cowboy è, manco a dirlo, di difficile comprensione, ma si può leggere, tra le righe, di certe abitudini giovanili del paroliere (“I'm going on the circuit, I'm doing all the clubs and I really need a song boys to stir those workers up and get their wives to sing it with me, just like in the pubs when I worked the good old pubs in Stepney”) quando era un ragazzino. Non che ora sia molto più grande, visto e considerato che a soli 25 anni sta contribuendo a fare la storia.
Elton John canta e racconta della nostalgia di Bernie verso la sua terra, sentimento ampiamente trattato in Goodbye Yellow Brick Road. Tell Me When The Whistle Blows è la quarta traccia dell’album e qui il nostro caro pianista riesce ancora una volta a deliziarci con una genialità che davvero trapela da ogni parte del suo corpo: il suono del suo pianoforte (il cavallo del Capitano) rende davvero l’idea di un “fischio” che suona, e crea un’atmosfera veramente calda, richiamando alla mente di Taupin la sua vita da giovane campagnolo.
Come in ogni libro (autobiografico o no che sia) che si rispetti, non poteva di certo mancare la storia d’amore. Qui ce ne sono addirittura due, ma non corriamo troppo, altrimenti ci roviniamo il finale di questa splendida storia. Someone Saved My Life Tonight è stato l’unico singolo tratto dall’album, perché effettivamente ha risvolti più commerciali rispetto al resto della produzione. La produzione è dolce, le parole di Bernie anche, la voce di Elton John ovviamente non poteva differire e distaccarsi da questo filo conduttore. Il testo racconta la fine dell’amore (in realtà mai provato) del Capitano verso tale Linda Woodrow, che sarebbe dovuta diventare sua moglie. Fortunatamente (per Elton e per la sua carriera) il matrimonio andò a monte, in seguito ai consigli di Bernie Taupin e Long John Baldry. Il geniale pianista tentò di togliersi la vita dopo aver dichiarato il suo… “non-amore” alla ragazza, e indovinate chi ha impedito questo suicidio alla Woody Allen? Taupin. Anche Lassù si sapeva: questo album doveva nascere.
(Gotta Get A) Meal Ticket ha una trama frizzante ed incredibilmente piacevole all’ascolto, quel buon vecchio “duro” rock che ogni amante di buona musica vorrebbe sentire dal proprio idolo. Il testo è, per non distaccarsi troppo dai canoni di scrittura seguiti fino ad ora, di mille interpretazioni, di cui però solo una sarà quella vera. Bisognerebbe entrare nella mente del paroliere per coglierla, quella mente così inaccessibile, così elevata, quella mente che conosce tutti i segreti di Elton John e di quel mondo a noi, per forza di cose, sconosciuto.
Non più sublime, ma capolavoro assoluto Better Off Dead, assolutamente un pezzo per cuori forti. Nigel Olsson alla batteria crea un’atmosfera lugubre, catapulta l’ascoltatore in vecchie strade londinesi mal frequentate. Live poi, questo pezzo è una meraviglia (soprattutto con il funambolico Cooper alle percussioni! Roba da svenire). Le parole probabilmente fanno da cornice ai bassifondi londinesi cui Elton e Bernie erano soliti recarsi in gioventù. Questi sono i piccoli segreti di grandi geni.
Che dire del penultimo capitolo, Writing? Fa da prologo al meraviglioso finale che seguirà. Writing, “scrivere”. L’attività principale di Taupin, senza la quale probabilmente non sarebbe nato Elton John. O meglio, forse Elton John sì, ma il Capitano Fantastico di sicuro no. Forse musicalmente risulta inferiore rispetto ai precedenti (e successivi) pezzi, ma cavolo in questo album niente può essere criticato. Quindi… eccellente anche la traccia numero 8.
E. E adesso?
Adesso che facciamo? Come ci arriviamo alla fine del romanzo? L’unica soluzione è andare, in apnea, eltoniani come sempre.
E dunque scorrono i titoli di coda su questo meraviglioso capolavoro, che senza dubbio rappresenta il picco della seconda parte di carriera di Elton John e Bernie Taupin. We All Fall In Love Sometimes/Curtains non si possono dividere, sono come i loro autori, gemelli, complementari, un tutt’uno. Dividere queste due canzoni significa spaccare a metà LP, cosa che MAI i nostri occhi (e più in generale quelli di ogni signore con un minimo di lucidità mentale da saper cogliere la differenza tra “musica” e “rumore”) vorrebbero vedere. L’ultimo capitolo dunque racconta dell’amore tra Elton e Bernie. Sì, proprio “amore”. Perché l’amore non è solo quello fisico, sessuale, Taupin racconta tutte le sfaccettature di questo sentimento che in minima parte è presente in ogni essere umano, e trattandosi di album autobiografico, non vi è dubbio alcuno che l’amore raccontato sia quello fraterno tra il Capitano ed il Cowboy. Per stessa ammissione di Elton John, questo testo è uno dei più belli e commoventi mai scritti dal suo paroliere, tant’è vero che anche a lui sono scappate le lacrime… ma non solo. Pure a noi. Udire la sua splendida voce, angelica (questa volta) come non mai, decantare quel legame indissolubile con l’abbronzato Cowboy, e soprattutto al termine di un album così, è da pelle d’oca.
Captain Fantastic And The Brown Dirt Cowboy dura esattamente 47 minuti e 2 secondi. All’incirca un’ora. E’ un bene che il disco abbia debuttato direttamente al numero 1 delle classifiche. Così è Leggenda. E l’ascoltatore, quando ode tale perfezione concentrata in un solo LP, cerca di recuperare quel pezzo di vita che ogni fan di Elton John e Bernie Taupin ha lasciato lì. Non è un’ora (di ascolto) in meno, ma un’ora in più, che avvicina il confine tra il terreno ed il divino. Perché qui si interrompe la Storia. Ed inizia la Leggenda.
Curtains si conclude con la voce di Elton John che fa da eco ai cori della sua band. Quella voce che simula davvero il fischio del vento che scuote il Vecchio Spaventapasseri lasciato lì, in un campo che non sarà seminato mai più.
Mai più così bene. Mai più da quei Due.



Blue Moves

2009

40 (+1) anni d’ispirazione -
1976: addio, bernie

Diciamolo chiaramente: ripetere la stagione 74/75 e bissarne le vendite sarebbe stato umanamente impossibile, anche per il duo che in poco più di 6 anni rivoluzionò la storia del rock,

Triste come una foglia morta. L’ultimo album John/Taupin anni 70s è la fotografia del loro autunno. Il successo non aveva fatto altro che mascherare le debolezze di entrambi, posticipando un declino fisiologicamente normale, ma psicologicamente davvero drastico. Troppo, per chi era abituato a incassare il doppio dei soldi che spendeva.

L’album alterna colpi geniali a pezzi poco memorabili, come a voler dire: “basta, non ce la faccio più”. Elton John era ormai schiavo delle proprie dipendenze, per anni aveva sfornato dischi come e meglio di una fabbrica, anche per lui arrivò il momento di tirare il fiato. La lucidità e la freschezza erano andate. L’atmosfera era cupa, un alone di oscurità fece da culla al disco che stava nascendo. Nigel Olsson era già stato rimpiazzato alla batteria da Roger Pope, e Kenny Passarelli aveva preso il posto di Dee Murray al basso. Il solo Johnstone risultò essere il superstite della vecchia band. Il lancio dell’album non potè che sancire la fine di un ciclo.

E’ stata una semplice “B” a complicare tutto. Il pianista compromise irrimediabilmente il bilancio delle vendite quando rilasciò la famosa intervista in cui dichiarava la propria bisessualità.

Anche Bernie Taupin, l’alter-ego di Elton, non era esente da problemi: in piena crisi coniugale, iniziava a condurre uno stile di vita non proprio salutare. Questo turbolento stato d’animo, inevitabilmente, si rispecchiava nei testi. Tristi, malinconici, rassegnati. Il paroliere non riusciva ad accettare la fine del suo matrimonio, e da lì a poco sarebbe arrivata anche quella della sua collaborazione con John. Forse ciò fu opera del destino, certo è che sarebbe stato più probabile l’allineamento della Terra con Giove che una separazione tra il Capitano Fantastico e il Cowboy Impolverato. E invece, Blue Moves sancì la (presunta) fine della collaborazione.. Qualcosa di impensabile fino a pochi mesi prima, quando Captain Fantastic & The Brown Dirt Cowboy sbancò le classifiche americane.

Senza Taupin, dunque. Dopo una vita. Dopo album memorabili. La stima, l’amicizia non vennero mai a mancare, ma Elton John voleva rifare il pieno a quella macchina, la sua musica, che doveva ripartire, anzi riprendere a camminare, per usare parole più appropriate al caso. Il cambio di paroliere non sembrava così imminente, e nemmeno così necessario, si è trattato di un puntello in corsa, un ennesimo rimedio perché qualcosa davvero non andava, perché ormai anche lo zoccolo duro dei fans si era accorto di cantare qualcosa che non c'è più.

E così, inevitabilmente, il nome di Bernie si slegò da quello di Elton per anni. Il paroliere, notoriamente la parte più debole, cadde nel trauma del divorzio e della dipendenza. Il genio di Pinner si auto-convinse che Gary Osborne, il nuovo compagno di scrittura, fosse la persona giusta con cui ritornare grande. Ci riuscì, in parte. D’altronde, un posto nella Storia del rock l’aveva. Ma per entrare nella Leggenda ed essere il numero 1 indiscusso, occorreva quella credibilità, quella sicurezza che solo un nome amato poteva dare, quella solida base che Elton John aveva costruito solo e unicamente con Taupin, quando i due erano solo ragazzini.

Un anno, il 1976, all’insegna della “B”.

B come bisessualità. B come Blue Moves.

B come “Bye bye, Bernie Taupin”.



A Single Man

2010

40 (+1) anni d’ispirazione -

1978: John vs Taupin

Splendido. E’ un aggettivo che si addice perfettamente ad un album, questo, che sancisce il definitvo tramonto dello strapotere Eltonjohniano anni 70s. L’ultimo vero capolavoro. Brani delicati ed energici, che forse peccano solo nei testi, altrimenti sarebbero davvero a livelli stellari. La canzone “Madness” è particolarissima e spumeggiante, l’intro al pianoforte è da brividi. Buon accordo tra testo e musica in “Shine On Through” . Si lascia ascoltare senza troppe pretese la calda “Georgia”, che tratta dell’omonimo stato d’America. Ma tra tutte spicca una gemma. E’ la splendida “Song For Guy”, interamente strumentale. Però, sul finale, quel “life isn’t everything” racchiude in se tutta la particolarità della vita che può farti sentire un re e un attimo dopo può affossarti. Perché, è vero, non basta una vita per cancellare un attimo, ma a volte basta un attimo per cancellare una vita.

Che si può dire, su un album così? Niente, è tutto perfetto. O quasi. Ormai spremuto come un limone, Elton affoga la sua depressione in una dose che spesso risulta essere di troppo. E non inganni la splendida riuscita di questo disco: passeranno due decenni prima di vederne altri così.

Si sono amati, poi “detestati”, ora il rapporto è di totale indifferenza. Però si parlano. Poco, ma si parlano. Ciao, come va? Tutto a posto? Così, poche parole ormai tra Elton John e Bernie Taupin. Due che hanno fatto divertire parecchia gente da queste parti (e non solo): un pianoforte lì, un pennino di là, una musica pazzesca, un testo fantastico. E ora? Niente o quasi.

Distanti. E’ rimasto il ricordo di una vecchia amicizia, nata nel lontano 1967, quando Reg Dwight conosce il 17enne Taupin. Entrambi protetti dal loro talento. Tutti al fianco del pianista, il paroliere invece solo come un lupo. Così simili, così diversi. Album spettacolari, tour fantastici, un grande rapporto di amicizia. Poi, le dipendenze della rockstar, il trauma matrimoniale di Taupin, Blue Moves, quindi il vuoto. Un fatale battibecco per questioni private, l’allontanamento l’uno dall’altro con la conseguente scomparsa di Bernie nella carriera di John.

Era bello vederli comporre con il sorriso sulle labbra, non il massimo osservare che ora si citino solo nelle interviste. Su richiesta, per giunta. Da lì, la decadenza di Taupin coincideva addirittura con la crescita di Elton. Mi spiego. Il primo, perso nei guai del divorzio e dell’alcool, era a stento ricordato per il celebre passato, il secondo stappava applausi convinti alla critica con questo album, appunto, scritto senza il suo principale paroliere. Poi i rapporti sono leggermente migliorati. Come detto, almeno si parlano.

Tutti parlano di Elton John, di Bernie Taupin no. Una sorta di bello e brutto anatroccolo. Il paroliere, nello stesso anno, scrive i testi per un album di Alice Cooper, “From The Inside”, e si parla già di concorrenza agguerrita con il pianista di Pinner. Magari vi era solo rivalità commerciale, ma nulla di più. Qualitativamente, non è mistero che “A Single Man” sia nettamente superiore. Forse, il John avrà pensato ad un nuovo volto della sua carriera, con Gary Osborne. Perché il primo album insieme è stato davvero un capolavoro, superiore forse all’ultimo scritto con Taupin. Ma si sa, una rondine non fa primavera.

E il prossimo album? Chissà. Chi vivrà, vedrà. L’eco dei vecchi successi della coppia scoppiata non è del tutto scomaprso, ed è probabile che Elton e Bernie si siano incontrati. Si riparte da questo. Come va? Tutto a posto? Poi ognuno per la sua strada, con il ricordo di quando e quanto si erano amati. E con la speranza per John di continuare la sua serie positiva con Osborne. Taupin muore con il suo matrimonio e con il primo Elton.

Il destino di due fenomeni, un tempo così vicini, ora mai così lontani.


Victim Of Love

2010

40 (+1) anni d’ispirazione -
1979: Elton John, come una pietra scalciata


Cosa accade quando si arriva ad un punto di non ritorno? E quando cerchi di spingere la tua carriera al limite delle tue potenzialità rischiando di bruciare il tuo talento?

E’ il caso di Reginald Dwight, meglio conosciuto come Elton John. La sua carriera potrebbe essere riassunta in un’unica frase: fiducia, ma troppo amore.

Di fiducia , il pianista ne ha ricevuta molta, fin dai tempi in cui non componeva ad altissimi livelli. Perché il suo talento era una finestra che si apriva su un mondo fantastico. Non poteva restare inesploso.

Ma qui si esagera. Passi la rottura con Bernie Taupin, se le esigenze personali e professionali volevano questo. Passi la dipartita della sua band. Passi la produzione di alcuni brani non proprio (per nulla) esaltanti. Qui, però, si crea un vero e proprio crac.

Cosa ha spinto il più geniale artista del secolo a gettarsi a capofitto in questo squallido progetto dance, senza né capo né coda? Di certo non poteva rilanciarsi, poteva solo peggiorarsi. Non avrebbe tratto alcun beneficio da questa assurda collaborazione. Che Elton John stia pagando dazio ai suoi vizi e ai suoi ececssi, bè, questo gli si legge negli occhi. La figura del ragazzo allegro che cantava perché gli piaceva farlo, non perché doveva farlo, si dirada silenziosa… lentamente… proprio come cantava in “Goodbye”… sparisce come una pagina senza testo.

Ora, Elton non è né il più ricercato, né il più ignorato. E’ Reginald Dwight, con tutte le sue paure e debolezze. Messo a nudo, il guscio del successo si è sgretolato lentamente sotto i colpi sempre più incessanti delle dipendenze, della fama, dello stress. Semplicemente Reg Dwight, dunque.

O no? A pensarci bene, niente affatto, tanta roba, in musica (ma ultimamente poca) e nell’anima, perfino tormentata a volte. Che fare? Che sentire? Lasciarsi andare o frenarsi? Ma forse il genio, sì, anche lui che prima non ne sbagliava una, ha chiesto troppo a se stesso. Gettarsi in una simile produzione che è all’estremo opposto dal suo genere… però, la gente non riesce a capire che il suo talento non è andato perduto. Invece, tutti i critici che un tempo lo ammaliavano se la sono letteralmente data a gambe levate. Ed ora quale futuro per John? Per un pianista ormai adulto che aveva tutto ma che chiedeva di più, cosa si prospetta? Chi vivrà vedrà. Ma una scena (ormai troppe volte ripetutasi) sarà rimasta impressa di sicuro nella mente di tutti: Elton che, crogiolandosi nei suoi vizi, si compiace delle vendite redditizie di singoli o LP, in cui non c’è neanche un po’ “di lui”. Nei suoi occhi velati dal desiderio e dalla dipendenza si legge una gioia immensa, ma… cosa si prova a godere del successo di un prodotto che non si è creato con il proprio sudore, la propria gioia, con il proprio modo di fare musica? Forse questo, Elton non lo pensa: i soldi che arrivano dalle vendite sono molti, abbastanza per far dimenticare ogni problema. Una cosa è certa: lui non è un artista mancato, come molti, è uno serio, un genio, un fenomeno. Ma nel periodo che corre è davvero a pezzi, ha chiesto troppo e non è stato ricompensato con niente tranne che con soldi “sporchi” e “finto” successo massacrante.

Coincidenza per i nostalgici. 1969-1979. Fosse rimasto con Taupin, avrebbe festeggiato 10 anni di collaborazione e amicizia. Adesso, di uno si sono perse le tracce (fine ingloriosa) e dell’altro invece si hanno troppe notizie… negative. Forse Elton non lo sa, ma in questo momento è una pietra scalciata.

Ed ora, cosa ne sarà di lui?



The Fox

2010

40 (+1) anni d’ispirazione -
i 70 non torneranno più


I 70 non torneranno più.

Con questa massima nella testa, Elton John decide di tornare a fare la persona seria, un anno dopo lo scempio di “Victim Of Love”. Per fortuna, quel “disco” non è interamente roba sua, anche se persino il più ottimista dei fans faticava a riconoscere nel cantante di VOL il compositore di “A Single Man”, grande album che vide la luce solo un anno prima.
I 70 non torneranno più, dunque. Come per magia, in “The Fox” non c’è alcun pezzo “spacca-classifica”. I cosidetti “singoloni” erano stati un marchio di fabbrica del mercato eltoniano, sono pezzi come “Rocket Man” e “Crocodile Rock” che hanno consacrato il John ai vertici della musica mondiale, non i capolavori assoluti dei primissimi anni (purtroppo).
Ma cavoli, ragazzi, qui la voce gioca un ruolo fondamentale. E quella del geniale compositore di Pinner resta calda, graffiante e soffusa al contempo. Riesce a dare un senso vero e profondo ai testi non proprio eccelsi del suo songwriter Gary Osborne, il cui talento non è nemmeno minimamente e lontanamente paragonabile a quello di Taupin. Non li si deve mettere a confronto neanche per scherzo, né il primo Aprile, né a Capodanno, né a Ferragosto, né il giorno della festa del Santo Patrono. Massimo rispetto per l’Osborne, ma il paragone è impietoso.
Signori, questo è un album bellissimo. Voce a parte, sono altre le componenti che rendono questo disco l’ultimo grande lavoro di Elton da qui fino ai ’00. Rock frizzante mescolato a cori gospel e qualche passaggio “blues” è il tema portante che ci accompagna per tutto l’ascolto. La prima traccia è musicalmente molto allegra e vivace, con un testo (di Gary Osborne) che non ha nulla da chiedere. “Heart In The Right Place” si rifà ad un rock con accenni di blues, che mette molto in risalto la graffiante chitarra di Zito. Anche questo testo è però poco pretenzioso.
“Just Like Belgium” non sarà un capolavoro ma è davvero piacevole all’ascolto, perfettamente in linea con la tendenza che il Nostro ci propone in questo album. Per la prima volta dopo 1 anno fa capolino Bernie in un lavoro di Elton, anche se il suo testo non è degno del paroliere che conosciamo. D’ispirazione casuale è “Nobody Wins”, originariamente cantata in lingua francese da Jean Paul Dreau (il pezzo si chiamava “J’veux de la Tendresse”) e riadattata dal pianista di Pinner, con il tema del testo che differisce totalmente dall’originale. La coppia John/Taupin si riaffaccia nell’album con “Fascist Faces”, un rock bello duro che tratta di una chiara presa di posizione politica.
Arriva forse il pezzo migliore dell’album: la strumentale “Carla Etude”, splendida nella sua semplicità pianistica con un retrogusto classico che rinfresca la memoria di un pubblico che non riconosceva più Elton John come “il più grande”. Il brano poi si snoda nella più banale “Fanfare” e successivamente in “Chloe”, in cui Reg Dwight torna a cantare, e lo fa seguendo un testo firmato Osborne che lo rimanda con la mente ad un suo amante dell’epoca. “Heels Of The Wind” non regge il passo di questi ultimi tre pezzi, ma si conferma brano piacevole e in qualche modo “frizzantino”, con il testo di Taupin d’impronta (al solito) pessimista.
Tom Robinson ha scritto la decima lirica dell’album, “Elton’s Song”, che tratta una storia omosessuale in un college, ma non inganni il nome della canzone: è stato scelto solo perché a commissionarne la scrittura era stato, appunto, Elton John. Musicalmente forse è un po’ troppo “caramellosa”, ma resta un grande pezzo, niente di paragonabile al “miele” in cui saranno intrise “Sacrifice” e “Can You Feel The Love Tonight”.
Mettiamola così: Elton è come un grandissimo calciatore da 200 gol in carriera, ma alla soglia dei 34 anni. Sa che ha già dato, sa che il suo tempo è passato e sa che il meglio, i suoi sostenitori, l’hanno già visto, ma ci tiene a sparare le ultime cartucce per ricordare al pubblico chi è, il fuoriclasse che è stato. Ecco: il genio londinese è conscio che non tornerà più a vendere come nei gloriosi 70’s. Probabilmente sa anche che non scriverà più capolavori mostruosi, ma con “The Fox” chiude un’epoca, anche se già con “A Single Man” c’era stato un netto taglio con il passato. Il sorriso spento sul retro della copertina e quegli occhi ormai dipendenti lo certificano in maniera inconfutabile.
E arrivò il momento della titletrack, “The Fox”, appunto. Per chiudere un bellezza un grande disco, Elton non può che rivolgersi ad un grande paroliere. Il testo, signed by Bernie Taupin, denota una leggera malinconia, accompagnata da un sound tipicamente eltonjohniano, che rimanda con la mente ai primi album e richiama un’atmosfera unica che nessun altro artista sarebbe mai riuscito a creare.

In ultima analisi, what more can I say?...

… Ah, sì.

I 70 non torneranno più.



Jump Up!

2010

40 (+1) anni d’ispirazione -

1982: dov’e’ elton john?


Non è più lo stesso sorriso. Di facciata, al suo pubblico, nelle interviste. Non si vede la gioia, la freschezza, la spontaneità. Perché possono esserci mille motivi per spiegare la deprimente flessione della musica che è stata l’unica ascoltata per 10 anni. Motivi che possono essere opinabili, ma uno di sicuro no. Elton John, appunto. Che fine ha fatto il pianista tutto genio per il quale il pubblico impazziva? Cosa sta succedendo a questo uomo che in passato si metteva al pianoforte, in conservatorio, e capiva tutto prima degli altri? Dove è finito quell’occhialuto che in studio era cuore e cervello, genio e sregolatezza, elegante e cafone, musucista d’élite e commerciale, il pianista incredibile? Non sono domande figlie di questo album, tutto sommato sulla sufficienza (c’è di peggio, suvvia). Fosse così, sarebbero pretestuose, ingiuste e fuori tempo. Sono, al contrario, domande che rappresentano l’inevitabile e naturale conseguenza di un Elton John che da tempo, troppo tempo, non riesce a comporre e incantare come può e sa. E il problema è solo di album, nel senso che poi quando il genio va sul palco spesso e volentieri lo si vede tornare il migliore performer live a cui si erano abituati negli anni scorsi.
Questo Elton, in studio, non si vede da tempo. Sono i suoi occhi, nei post- concerto, a certificarlo in maniera inconfutabile, occhi tristi, dipendenti, che dicono come per lui in questo momento sia meglio non parlare, altrimenti sarebbe costretto a raccontare qualche bugia. Dunque, cosa gli sta succedendo? In una mondo come quello della musica, arricchito (o inquinato, fate voi) dall’enorme successo, dove la chiacchiera di bocca in bocca trasforma una porta in un portone, una fessura in una voragine, un granello di sabbia in un macigno, c’è chi risponde con frasi scomode, pettegolezzi e… sì, anche “cattiverie” che sono accompagnate dalla sempre fastidiosa dicitura “si dice che il John…”. Sarebbe perlomeno ingiusto nei confronti di un uomo che ci ha sempre messo la faccia, che è sempre stato se stesso, che ha avuto un’etica del lavoro al di sopra di ogni sospetto e che da quando ha iniziato la carriera è andato avanti a quasi due album all’anno, sempre e comunque, pure quando non sarebbe stato il caso.

Certo, una brusca separazione professionale e le enormi dipendenze gli hanno fatto scoprire il lato oscuro della vita, il “bad side of the moon”, e su un ragazzo che ha sempre vissuto con la gioia come pelle, questo non poteva che ripercuotersi anche nel suo rendimento in studio.
Il motivo per il quale Elton John sembra un corpo estraneo, ma non solo alla musica, alla sua musica, è quindi da ricercare soprattutto in difficoltà personali, ambientali, che il pianista fa fatica a comprendere ed accettare. Il genio di Pinner vive in prima persona il calo (non troppo rilevante, per la verità) delle vendite e il mutato pensiero che la critica esprime nei suoi confronti, così come una realtà che da un paio d’anni a questa parte gli ha fatto toccare con mano che il progetto e il futuro, a meno di colpi di scena, non è che potranno cancellare un presente anonimo e senza prospettive. Ormai, ha dato il meglio di se e non capisce come possa tornare indietro e riconquistare l’amore di quei fans che gli hanno voltato le spalle appena scoperta la sua tendenza bisessuale, o la stima di ogni critico che solo fino a qualche anno prima lo decantavano fino all’esaurimento nervoso. Un amante sedotto e abbandonato.
Ecco, le prospettive sono il pensiero che nella testa di John è fisso e non trova risposte. Facile, non trovare risposte. Per il semplice fatto che non ce ne sono. Non esistono. Sente parlare di un declino, lui non ci crede e vuole dimostrare di essere ancora carico. Vede le immagini del nuovo, ipotetico, concerto, bellissimo, ma si domanda pure quale pianista ci arriverà a suonare. E quale (quanto) pubblico ancora avrà.

E’ felice che tutto sommato le vendite non siano precipitate del tutto, con il singolo Blue Eyes che tiene ancora vivo questo bilancio, ma sa anche che la stessa cosa succede agli emergenti, che compongono solo per questo scopo, che non cercano la perfezione stilistica né un suono pulito e degno di essere chiamato tale. Lui no, non vuole essere come loro, lui è diverso, lui è Elton John. Forse, però, è qui che pecca. Prima di essere Elton John, lui è Reggie Dwight. Quando la semplicità è virtù invisibile agli occhi, specie se barrati da soldi, fama e gloria.
E poi, una componente fondamentale: questo album è stato scritto assieme a due parolieri. Osborne e… Taupin. Vede i testi che gli si presentano davanti: un po’ (troppo) incolori quelli di Gary. Mentre constata che Bernie fa… il Bernie, ma sa anche che ormai non è più solo il “suo” paroliere. E’ solo una (s)comoda costante. Quindi.
Quale futuro lo aspetta?
Cerca una risposta, ma l’unica che trova, lo spaventa.




Too Low For Zero

2010

40 (+1) anni d’ispirazione -
1983: il passato riaffiora


L’ascensore Elton John davvero non sa a che piano fermarsi: alterna grandi pennellate da artista a motivetti creati solo per far cantare il pubblico. Live, certo, è sempre carico come una molla. Stiamo parlando di un artista al di sopra delle righe, una star così mostruosa il genere umano non l’aveva mai conosciuta. Ma a rendere grande il pianista occhialuto non è stato solo il proprio talento, così puro e genuino che se fosse disceso dal cielo Amedeus Mozart avrebbe esclamato: “ecco come sarei diventato con qualche anno in più”.
No, c’era dell’altro. Una band fantastica, un gruppo unito, gente che disegnava e insegnava l’arte della musica. E poi… in mezzo a tanti profittatori, un amico vero da cui provengono le parole più belle della produzione di Elton John.
“Dobbiamo parlare”. Bastò una telefonata. Il successivo incontro, a Nizza, con l’altra metà di se stesso. Non più un ragazzo, adesso era un uomo con alle spalle una straziante separazione (anzi, due) e sulle spalle il peso di un secondo matrimonio, i capelli un po’ più lunghi del solito e delle mani che potevano scrivere solo per un artista.
Elton John e Bernie Taupin sono tornati, come sanno, come possono, come dovevano. Con l’antica band. Il gruppo era di nuovo unito. Il nuovo album rispecchia le mode anni 80s, periodo in cui la musica stava subendo una metamorfosi. Armonia e melodia stavano diradandosi a favore del “suono” orecchiabile e commerciale.
Ne consegue che per le tendenze dell’epoca, i contenuti del disco risultano essere roba fine del repertorio John/Taupin, 10 brani che fanno musica, numero, cronaca e anche storia. Perché quello che fa il duo non è mai un asterisco, mai nota a margine. Che si tratti di album, di concerti, di un matrimonio, di un tour, di un divorzio, di due mogli bellissime, di avventure omosessuali, di una serie di irresistibili interviste, di una genialità che ormai appartiene loro più ogni altro artista.
Too Low For Zero, dunque, è un vero e proprio segnale perchè chi sa sa e chi non sa non saprà mai. John e Taupin sapevano, sanno e sapranno. D’altronde, si parla di due figure che sono da anni il “best” musicale, la loro visibilità continentale e mondiale non è mai stata limitata dalla sempre più scialba concorrenza.
Se Elton avesse continuato la collaborazione con l’anonimo Osborne, sarebbe celebrato da tutti i giornali e le televisioni come “big”, ma non come “biggest”, la sua carriera non sarebbe stata ricompensata da riconoscimenti personali e adulazioni. Fino all’anno prima, Elton John era alla ricerca di se stesso e Taupin solo una sbiadita incognita, nemmeno ipotesi. Era fondamentale ritrovare la collaborazione, con un passo indietro. Il pianista è un genio, ma un altro fenomeno accanto cambia la vita a chiunque, figuratevi a una produzione piena di guai come quella di John. Monumentale è l’aggettivo giusto per questi due talenti.
Prendete una foto che li ritrae insieme: sembrano una coppia di eroi sul piedistallo, lungo i Fori Imperiali. Eppure, 7 anni fa sembrava la fine di un amore eterno: Elton che lancia sul mercato Blue Moves, poi un album forse superiore, A Single Man, scritto con Gary Osborne: sembrava l’inizio della fine. Epilogo impossibile.
Elton è Bernie e Bernie è Elton. Loro sono quello che vediamo ma non sappiamo completamente. L’impegno di scrivere testi e musica, la felicità di uno sguardo al pubblico, ai fans, mille modi di comporre, per commercio, per gioia, per svago, per le classifiche, di stile, di eleganza, un filo di seta, una frusta di cuoio.
Insieme sono una miscela micidiale, incredibile, un concentrato assurdo di genialità. Dice uno che l’altro fa da sempre parte della sua vita, e viceversa. Forse dovremmo credere a queste parole. Anche se non ci sarà più gusto a seguire nuovi esordienti.
Saranno, per forza di cose, “Too Low For Zero”, no?



Live In Australia

2010

40 (+1) anni d’ispirazione -
1986: don’t cry, reg

Non piangere, Reg. Anche se le lacrime vengono giù da sole, impossibile fermarle o nasconderle dietro un sorriso di facciata o un’ennesima dose, perché tu non sai fingere, davvero, non ci riesci. Mentre ti dirigi dal tuo pubblico, che soffre con te, sapendo del terribile male che affligge la tua splendida voce.
Quella voce con cui hai trasportato le anime del Paradiso dentro ogni tuo album, quella voce con cui hai fatto sognare tutti, quella voce che ha permesso alla morte di danzare accanto all’amore, che ha unito il tutto al nulla, e viceversa.

Non piangere, Reg. Anche se hai paura, perché sai della tua precaria condizione fisica, e sai anche che altri, prima di te, non ce l’hanno fatta a superare l’ostacolo. Sai di non essere né il primo né l’ultimo. E stai tremando.

E così, dopo aver “rassicurato” il tuo amico Davey con la solita ironia che ti contraddistingue (“Ma no, bastardo, mi sono innamorato del primo violino”), sali sul palco, pronto a tenere il tuo (ultimo?) concerto. Un boato esplode con fragore. Tutti si alzano in piedi e ti applaudono. Sì, i tuoi fans sono in pensiero per e con te, cercano di tirarti un po’ su con il loro amore, ancora una volta, forse per l’ultima volta. Tu ti poni con il solito atteggiamento allegro e sbarazzino, guardi tutta la tua gente negli occhi, proprio come a dire “io sono qui, ancora una volta”.


Attacchi “Sixty years on”: mentre il pubblico applaude entusiasta, nella tua mente si scolpiscono le parole del brano “non desidero essere vivo a sessant’anni”. Suonano come profetiche? O ce la farai ancora una volta? Immagini di un rosario rotto accanto ad un fucile… intanto i violini dell’orchestra creano un’atmosfera malinconica che poi si riversa in contrasto con la delicatezza dell’arpa… pazzesco. E interpretazione perfetta, avvantaggiata da una voce sicuramente meno potente dei fasti che furono ma davvero… magica. Non piangere, Reg, nota il boato alla fine del brano.

Decidi di deliziare la tua gente ancora una volta, pescando dallo stesso album un’altra gemma, “I need you to turn to”, splendida in ogni suo accordo. Il titolo non potrebbe davvero rendere al meglio il tuo stato d’animo. Ti guardi intorno, e vedi tanta, ma davvero tanta gente che ti adora, ti osanna, ti venera, e ti accorgi che è questo l’amore puro e vero. Vuoi lasciarti alle spalle, almeno per una notte, la tua notte, tutto il mondo sporco e falso di cui però ormai fai parte. Il maestoso suonare dei violini echeggia per tutto il palco, fondendosi alla tua voce in maniera strabiliante. Non piangere, Reg, perché sei strepitoso e in fondo lo sai.


Poi. Altro brano e altre immagini in mente. “The greatest discovery” è di quelle canzoni che porterai per sempre nel tuo cuore: esecuzione eccellente, e vedi passarti davanti agli occhi immagini di un bambino che nasce, proprio come stava nascendo la tua carriera, contestata solo dagli ignoranti, quando componesti il brano. L'arrangiamento di questo concerto fa poi il suo: il tuo pianoforte, fuso con il delicato suono dei flauti e quello tagliente dei violini, è fantastico. Ma ci fosse una, e dico una, volta che non lo sia stato. Non piangere, Reg, perché qui tutti sono in estasi per te.

Segue la struggente “Tonight”, 7 minuti in cui negli occhi di ogni persona leggi l’odio del tuo paroliere per il mondo quando una straziante separazione l’aveva dilaniato e annientato. Non piangere, Reg, anche se questo momento, sì, è commovente davvero.

Dallo stesso, triste album tiri fuori una versione incantevole di “Sorry seems to be the hardest word”, la cui esecuzione perfetta è tradita, forse, da un finale troppo rapido. Ma va bene così. Mentre i tuoi fans si spellano le mani a furia di omaggiarti, tu ti rituffi nel passato, intonando “The king must die” (pezzo già di per se divino, ma quest’oggi con un arrangiamento maestoso) e nella tua mente assisti ad una crudele congiura. Il Re è morto, Lunga vita al Re. Non piangere, Reg, perché King John I scamperà al patibolo.

I cortigiani e i cospiratori scompaiono per fare posto a figure animate e non, si staglia uno scenario senza senso e tu ti cimenti in una divertente “Take me to the pilot”, per scacciare la malinconica degli ultimi pezzi. Non piangere, Reg, perché il pilota della tua anima sei proprio tu.


Scocca l’ora di “Tiny dancer”. Un brano che dovrebbe andare di pari passo con l’amore, ma tu chiudi gli occhi e sai che non è così, perché quell’immagine del paroliere che danza con la sua donna è illusoria come potrebbe esserla quella di un diavolo seduto su una nuvola. Ma la canzone è stupenda. Non piangere, Reg, perché il tuo amico Bernie è fiero di te.

“Have mercy on the criminal” è maestosa in tutta la sua ermeticità. Anche se la tua voce inizia a perdere colpi, non ti abbatti, come sempre d’altronde. Cadi e ti rialzi. Non piangere, Reg, perché guardati, non ti sei fatto neanche un’ammaccatura.

La tua gente sta toccando il cielo con un dito, e te ne compiaci. Vivi per loro. Il prossimo brano è “Madman across the water”. A dispetto dell’originale, questa versione è più lunga. Sì, non nasconderti, si vede che cerchi di ammazzare la malinconia, su quei tasti che ti sono cari come genitori, prima che la malinconia ammazzi te. Non piangere, Reg, perché tu sei più forte di qualsiasi demone.

Arriva “Candle in the wind”. Pezzo, questo, di una bellezza inaudita, resa immortale dalle sfumature della tua voce, non più chiara ma profonda e cupa, proprio come si addice al testo così caro al tuo amico Taupin. Mentre suoni, si vede nei tuoi occhi il sorriso angosciato di Marylin. Non piangere, Reg, la tua carriera non finirà dopo questa notte.

“Burn down the mission” è splendidamente arrangiata, ma inutile sprecare le parole, non c’è un singolo brano a cui tu non abbia reso onore, stasera. Non piangere, Reg, perché le tue lacrime sono le lacrime di tutti.

Ad un certo punto, l’apice del tuo splendido spettacolo. Quando intoni le note finali del brano e ti giri verso il pubblico, ti accorgi che questo non c’è più. Il palco è scomparso. Sei immerso nel vuoto. All’improvviso, e non ti spieghi come, vedi davanti a te uno specchio. Ti alzi, gli vai accanto, ma non riflette la tua immagine. No, i tuoi occhi vedono un ragazzino con un foglio in mano. “Questo è per te, Reg”. Te lo pone in mano, tu leggi il titolo e capisci ogni cosa. “Your song”. “Bernie!” ti volti e vedi il tuo paroliere, sbucato dal nulla, diverso da come lo era nello specchio. Il volto è segnato dagli anni, ora è un uomo, i capelli un po’ più lunghi. “Non so più chi sono! Non voglio più essere Elton John! Voglio tornare Reginald Dwight!”. Lui ti guarda e sorride. “Suona, ti stanno aspettando”. Tu, sbalordito dalle parole di Taupin, inizi un brano che è leggenda. E senti di nuovo gli applausi e il boato, mentre innanzi al tuo volto vedi immagini di fans vestiti come te, proprio come te, la tua band divertita in tour, tu e il tuo amico paroliere che fantasticate su un futuro da star quando eravate poco più che ragazzini. Finisci questo capolavoro e torni a rivolgerti a Bernie “Bernie, davvero non so più che fare!” “Io ti sarò accanto per sempre… ma ricordati… tu sei Elton John!”. La figura del poeta si dirada come una nuvola in cielo… “Non andare via Bernie!” gridi, disperato, ma ti accorgi di parlare al nulla. Ricordandoti delle ultime parole di Taupin, concludi cantando e suonando un MUST di ogni tuo concerto, “Don't let the sun go down on me”. Da brividi. Quando tocchi la nota conclusiva chiudi gli occhi e ti perdi in un mondo fantastico… ma il fragore degli applausi ti riporta alla realtà. Sei sul palco, di nuovo, acclamato come un Dio dell’Olimpo. Saluti tutti, commosso, e vai via, pensando all’imminente operazione alle corde vocali. La tristezza è grande, il magone di più, temi di non poter più riprovare simili emozioni.

Non piangere, Reg.


Sii fiero di essere… Elton John.



Songs From The West Coast

2010

40 (+1) anni d’ispirazione -

2001: DUE FENICI RISORTE

Lettera a due vecchi amici:

“Mi avevano detto che ormai Elton John non era più un granchè. Che non poteva più ritornare come prima.
Mi avevano detto che i testi di Bernie Taupin non erano poi così geniali.
Mi avevano detto che la vostra è stata solo fortuna.
Mi avevano detto che non eravate all’altezza dei Beatles.
Mi avevano detto che non eravate geniali.

.........

Mi avevano detto che se la musica si era commercializzata era solo per colpa vostra...
Mi avevano detto che, comunque andasse a finire, avevate fatto qualcosa di sbagliato...
Mi avevano detto che Taupin doveva parlare di più, quando stava zitto...
Mi avevano detto che John doveva parlare di meno, quando parlava...
Mi avevano detto che Elton doveva fare 3 ore di concerto quando ne faceva 2...
Mi avevano detto che doveva essere più altruista dando spazio ai giovani…
Mi avevano detto che le liriche di Bernie erano “indigeste”…
Mi avevano detto che li pianista doveva cambiare paroliere…
Mi avevano detto che aspettarvi era da matti…

.........

Mi avevano detto che, cavolo, quand'è che se ne vanno in pensione?
Mi avevano detto che non avevate più voglia
Mi avevano detto che mentivate quando dicevate di averla...
Mi avevano detto che nel 2000 non avreste pubblicato alcun disco in studio…
Mi avevano detto che… dovevo smetterla di crederci…
Ma su Songs From The West Coast… bè, su questo album non dissero niente, cavolo…”.

Ai piedi di Elton John e Bernie Taupin. 4 stelle e, se possibile, ci aggiungo un mezzo. Disco eccellente, come non speravamo più di vederne. Poco meno di 20 secondi per verificare quanto la personalità, nel mondo della musica, resti un elemento distintivo per distinguere un bravo cantante da una geniale rockstar. La fotografia di SFTWC è tutta nell’abisso di un confronto con la musica moderna. 20 secondi, dicevo. Sì, giusto il tempo di sentire l’intro pianistica, così simile a quella del primo Elton. Mi chiedo “com’è possibile? E’ proprio lui!”. The Emperor’s New Clothes è uno di quei brani che ti va volare con la mente e richiama l’atmosfera “tumbleweediana”. E se non è un capolavoro questo… erano anni, almeno una 20ina, che il Nostro non si cimentava in qualcosa del genere. Siamo al secondo pezzo e questo si stacca un po’ dal motivo conduttore di tutto il brano, “Dark Diamond” ricorda stilisticamente un funky/soul che non può lasciare indifferente alcun ascoltatore (forse solo quelli di D’Alessio o Negramaro, ma questa è un’altra storia….). Si ode, inconfondibile, l’armonica del grande Wonder, e questo non può che confermare l’ottima riuscita della canzone. Il cui testo, insieme al primo, lascia trasparire l’ottima vena di un rtrovato Taupin, a dimostrazione del fatto che, ancora una volta (ma quante volte lo dovrò dire???), quando il paroliere torna ai suoi livelli (indiscutibilmente elevati), anche la musica di Elton si trasforma. “Look Ma, no Hands” riprende il filo conduttore dell’album, con un sound molto “West Coast”. Splendida in ogni sua nota, con quel ritornello che ti fa ballare al primo ascolto… un altro capolavoro, e siamo solo al 3° brano! Il testo tratta del cantante che chiede a sua madre se è fiera di suo figlio, dopo che questi ha realizzato una miriade di imprese da raccontare. Insomma, una grandissima canzone. Matthew Shepard era un giovane ucciso brutalmente perché omosessuale, lasciato moribondo legato ad uno steccato come un inquietante spaventapasseri. Questa è la terribile vicenda raccontata in “American Traingle”. Elton, che sicuramente sente in maniera particolare questo brano, ha una profondià vocale che, ormai, si diceva “fosse andata”. L’interpretazione del Nostro è da pelle d’oca, la sua musica affascina ed inquieta allo stesso tempo. Il passaggio “Somewhere that road forks up ahead to ignorance and innocence. Three lives drift on different winds, two lives ruined, once life spent” fa venire I brividi. Il testo, ma che lo dico a fare, risulta essere uno dei migliori scritti da Bernie Taupin. Quindi, musicalmente un bel 9,8, ma il voto scenderebbe globalmente senza il meraviglioso testo. Un’ennesima dimostrazione di come la melodia di John e le parole di Taupin si fondino perfettamente. Solo loro riescono a creare un’atmosfera così. A proposito di atmosfere, “Original Sin” ne crea una tutta nuova, e si basa sull’amore. E’ il pezzo, se vogliamo, meno impegnativo dell’album (ma non scende sotto l’8), il testo è dolcissimo che va a completare una ballata sicuramente ben riuscita, come non se ne vedevano da anni. Il brano tratta di una storia d’amore finita in malo modo, e il (la) protagonista riflette sul suo reale sentimento, che non cessa di esistere, che non è morto con la relazione. Per la cronaca, è la sola intro priva di pianoforte, ma si lascia ascoltare benissimo. Lo scenario “cullante” viene sovrastato dalla frizzante “Birds”. Andamento “country” e ritmo assai movimentato, in questo Elton ha fatto un ottimo lavoro. Così come il suo paroliere, che ha scritto delle parole molto belle per fare da cornice a questo pezzo riuscito ottimamente. “I Want Love” potrebbe parlare della situazione passata del pianista di Pinner, o di quella di Bernie, che ha perso fiducia nell’amore dopo aver provato solo rammarico, delusioni e rabbia (con questo sono 3 i divorzi) sposando questo sentimento. La musica richiama un’atmosfera Lennoniana ai limiti del plagio, ma, non me ne vogliano i fans dei Beatles, Elton ha qualcosa in più dei ragazzi di Liverpool… il brano è diventato subito una hit, molto orecchiabile ma che lascia intravedere la ritrovata ispirazione del duo che, in passato, non conosceva il secondo posto. “The Wasteland” tratta la vicenda del geniale bluesman Robert Johnson, il quale, leggenda dice, pare avesse stipulato un patto con il diavolo barattando la sua anima con un’abilità chitarristica fuori da ogni termine di paragone. Grande testo, musica azzeccatissima, è uno dei brani portanti dell’album, a mio avviso, aggressivo e graffiante, dal sound “rock”. La voce di Elton John mai così in forma negli ultimi due decenni. Ma se vogliamo trattare l’ottima fusione tra testo e musica, non possiamo che apprezzare e splellarci le mani per applaudire il capolavoro assoluto che è “Ballad Of The Boy In The Red Shoes” . Maestosa, imponente, strepitosa. Le parole scritte da Taupin condannano l’ignoranza del governo americano retto da Ronald Reagan, che prese sottogamba l’allora nascente problema dell’AIDS. La vicenda parla di un ballerino, appunto, malato che vorrebbe tornare a fare ciò che ama… cioè ballare. Ma è conscio che la sua vita sta per terminare sotto i colpi di un male incurabile… e prega che qualcuno indossi le sue amate scarpette rosse al suo posto. L’atmosfera di condanna si rompe con “Love Her Like Me”, brano ben strutturato, interessante e il cui testo si adatta perfettamente alla voce di John, che come sempre riesce a dare emozioni indescrivibili. Un 8,5 non glielo toglie nessuno. Forse, questo, è il vero capolavoro dell’album, “Mansfield”. Mozzafiato, davvero, una canzone splendida e riuscitissima, il pianoforte di Elton John ti catapulta all’interno della canzone e la voce della rockstar è cullante come poche volte. A 25 anni di distanza da “Blue Moves”, Bernie Taupin racconta la fine del suo 3° matrimonio sotto i versi di una canzone. Il risultato è incredibile! “This Train Don’t Stop There Anymore” chiude l’album. E’ un pezzo, questo, che richiama particolarmente “Sweet Painted Lady”, splendido brano (dimenticato dal pubblico, indimenticato dai fans) di GYBR. Molto riflessivo il testo, che tratta delle vicissitudini della vita di Elton John, anche il videoclip è particolare. Nel pianista si ri-intravede tutta l’ispirazione che sembrava volata via con il vento e quella genialità pianistica che nessuno potrà togliergli. Nessuno, neanche se stipulasse il patto con il diavolo.

Grande merito per la riuscita dell’album va, oltre che al mitico produttore Pat Leonard, anche al paroliere Bernie Taupin, per cui, si è capito, provo un’ammirazione particolare. Senza i suoi testi, la produzione di Elton sarebbe stata per forza di cose meno ispirata e lo stesso Genio di Pinner ci tiene a ricordare come la sua carriera, priva delle splendide parole dell’amico-collega, sarebbe stata diversa. Molto diversa. Parecchie, forse troppe, persone interpretano questa mia osservazione come una presa di posizione, e tendono a sminuire gli enormi meriti del paroliere. Boh. Secondo me, se un Genio è affiancato da un secondo Genio, tutto non può che essere migliore. Invece, pare che questo secondo Genio sia di impaccio. O scomodo.

Mi accingo a concludere la recensione, quando una lettera scivola sotto la porta della camera. Chi scrive sono “due vecchi amici”.

“This Train Don’t Stop There Anymore… We’re Still Standing !!”.

Bè, più chiaro di così…  


The Captain And The Kid

2010

40 (+1) ANNI D’ispirazione -
2006: un allungo nella leggenda



Nel 2006, Elton John e il suo collaboratore storico, Bernie Taupin, hanno fatto più di un album che da gioia a loro e a tutti i vecchi fans. No, molto di più.
Nessuno se n’è accorto, ma i due hanno fermato il tempo. Magari saranno stati agevolati dagli anni, ma sissignori hanno fatto proprio questo: non era il 2006, ma un giorno qualsiasi della musica quando era soave, limpida, pulita, “vera”, insomma. Era quel tempo in cui se si dava un’occhiata alle classifiche americane (ma non generalizziamo più di tanto), si notava un solo album. Per settimane. “Captain Fantastic & The Brown Dirt Cowoby”. Solo lui. Era la solitudine dei numeri uno. E nel 2006 è successo qualcosa di meraviglioso, almeno per chi ama la musica e più specificatamente Elton e Bernie.
Elton John e Bernie Taupin avevano già deciso il nome, e questo era già epica. Ricordi d'immagini di un Capitano tutto occhiali e pellicce che cavalcava un pianoforte, sbalordendo tutti e infastidendo parecchi. Ricordi d’immagini di un Cowboy introverso con una colomba sulle sue gambe, che altri non era che la personificazione del suo amore, mentre intorno a lui si staglia un mondo… fantastico. Fantastico come il Capitano, e la favola che stavano vivendo insieme. Il mito vuole che in quel momento i due passarono da storia a leggenda. Anni dopo, 2006, Elton e Bernie sono diventati qualcosa di grosso e la gente che puntualmente segue le loro storie se n'è accorta. Già prima, senza dopo, perchè il tempo era fermo.
Ecco perché questo album ha poco da invidiare ai suoi predecessori. Mai come questa volta il paragone con il primo Elton è vicino. Passi la qualità (sempre altissima), ma le analogie sono tante. Un modo per ricucire quella fama di personaggio da TV, da gossip, da omosessuale impenitente. Sartoria dei sentimenti. Suonano allora a pennello le parole di Taupin.
Non ci sono gli altri. In questo tappeto rosso di emozioni, l'oro, oro puro: le canzoni così belle che le vendite sono state pessime. Sì, non è una contraddizione. Proprio come a dire: "basta così". Per suggerire: "al giorno d’oggi la musica vera non è riconosciuta".
Bè, che John e Taupin siano bionici è comprovato: nonostante i 40 anni di carriera, mantengono al seguito fans da fare invidia a tutti gli pseudo-artisti degli ultimi decenni. A proposito. Quando il tempo si ferma è un déja-vù ed è stato proprio così: "Avevamo pensato ad un sequel di CFABDC", hanno detto gli uomini che non hanno avuto paura delle mode. In rima, per la musica.
La copertina. Diversissima da quella del “genitore”. Sobria, non eccessiva. Niente piume, sfarzi, show. Solo un pianoforte nero da compagnia per John e un cavallo per Taupin. Sì, proprio a dire “siamo già leggenda, non dobbiamo dimostrare più nulla: questo è per i fans”.
Al giorno d’oggi, non si può capire un album così. Non è ai livelli degli anni 70s (quelli sono irraggiungibili… per chiunque), ma un vero e proprio capolavoro degli ultimi 20 anni. Si preparano ponti con l'immortalità per questo disco che se non avesse avuto un precedente così… “fantastic”, sarebbe stato privo di senso per molti.







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