le recensioni di
Giorgia Turnone
(12)
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Elton John
2009
40 (+1) anni d’ispirazione 1970: LA TUA CANZONE
Il
primo album è il classico bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno, ma non
rispecchia appieno il talento intrinseco nella natura di Reginald e
Bernie. Solo due o tre canzoni spiccano alla grande, ma il risultato
non è il massimo. La seconda chance, abbiamo detto, è opera di Steve
Brown, che convince Dick James nel mettere a disposizione dei due
ragazzi un’attrezzatura seria. Questi accetta, riluttante, e così si
getta le basi per il secondo album, che sarebbe uscito l’anno dopo.
Intanto,
il destino continua a divertirsi con Reg e Bernie. Entrambi sono
infatti sconsolati, delusi e per certi versi già stanchi della carriera
musicale intrapresa. Muoiono di freddo e di fame sotto i ponti
dell’innebbiata Londra. Il loro primo singolo, Lady Samantha, non ha
intaccato le classifiche perché, pareva, troppo poco originale. Il
pubblico, ancora innamorato degli “Scarafaggi”, presta poco orecchio
agli esordienti. Invece, la critica ha espresso toni lodevoli nei
confronti dei due artisti, citando il testo di Taupin come “notevole”.
Ma è troppo poco per coloro che strapperanno lo scettro ai più grandi.
Poco
tempo dopo, i due amici ritrovano entusiasmo e cominciano i lavori per
il secondo album. Niente è come prima. Gli arrangiatori e i produttori
sono cambiati, adesso c’è gente professionale lì dietro. Paul
Buckmuster e Gus Dudgeon, due figure che segneranno il cammino musicale
di Reginald Dwight. Arriangiamenti taglienti come coltelli e dolci come
la seta saranno caratteristiche della seconda produzione.
Reg
canta le liriche del suo paroliere, che raccontano di re condannati al
patibolo sotto congiura familiare, autobiografiche esperienze sessuali,
un disperato bisogno dell’indeterminato, la voglia di non varcare i 60
anni di età… ma non sarà questo a far decollare il disco. Perché
l’album entri nella leggenda, serve una canzone portante. Anzi, più di
una canzone. La tua canzone.
In un’epoca lasciata vedova dei
Beatles, niente può più stupire. Niente può più vendere, andare alle
stelle. Tutto è già stato visto, e chissà quando ne nasceranno altri
come loro, si diceva la gente nei bar. Bè, gli eredi erano davanti ai
loro occhi.
Taupin era un adolescente pieno di belle speranze e
con una fidanzatina. Una mattina, decide di scrivere una lirica per
lei. Ma forse, trattava l’amore generico. Troppo idealizzato, colorato,
puro. Ma d’altra parte, il paroliere non era ancora maggiorenne. A
lavoro finito (leggenda narra: tempo 20 minuti), una macchia di caffè
sporca il bordo inferiore del foglio. “Mah, quasi quasi ora lo getto.”
avrà pensato Bernie. E invece, il destino ha voluto il contrario.
Taupin presenta il suo testo all’amico, che in poco meno di mezz’ora
crea il giusto affresco per quella meravigliosa cornice. Era la loro
canzone. La nostra canzone. La canzone di tutti. La canzone di chi è
innamorato. La canzone di chi vorrebbe esserlo. La canzone di chi ha
perso l’amore. La canzone di chi l’ha riconquistato. La canzone degli
omosessuali. La canzone di chi sogna. La canzone di chi ama la musica.
Era Your Song.
1970.
Possiamo considerare iniziata l’età dell’oro. Il secondo album ottiene
un successo che neppure il più ottimista degli ottimisti avrebbe potuto
immaginare. Qualcuno paventa la tempesta “Eccoli lì sono loro gli eredi
dei Beatles!”. Era ancora presto per dirlo. Nessuno ci ha creduto,
meglio così. Reginald e Bernie si sarebbero bruciati in soldi facili,
canzoni da classifica, concerti poco memorabili in piazzole
semi-deserte. Non basta scoprire l’hit del momento per essere dei geni.
E questo, lo sapevano benissimo. La scalata per l’Olimpo della Musica
era appena iniziata.
La copertina dell’album è tetra, buia,
cupa, mezzo volto del pianista illuminato da una luce fioca, la
perfetta contrapposizione di quello che diverrà dopo. Con un altro
nome. Il nome dell’album.
Signore e signori... ELTON JOHN.
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Tumbleweed Connection
2009
40 anni d’ispirazione -
1970: i signori della musica
Non
più tardi di Elton John, sempre 1970, i due artisti hanno creato più di
un album. Non lo sapevano, ma avevano creato il disco perfetto.
Qualcosa di superiore perfino ai loro miti. Le loro ispirazioni. Bè,
ora sono loro che devono osservare gli eredi superare i maestri.
Tesi,
antitesi e sintesi. Fate voi, anche perché ricorrere alla canonica
Trinità è facile oltre che dovuto. Amen. Comunque, il mondo è un posto
migliore quando Elton e Bernie compongono così (cioè sempre), e da quel
1970 tutti gli essere umani di buona volontà (cioè i fans) hanno più
motivi per essere ottimisti.
Seriamente: adesso sarebbe
ragionevole parlare di Maestri dei Beatles. Loro, John e Taupin, sono
così avanti che se si guardano alle spalle vedono il futuro. Che vuoi
dire sugli artisti del (recente) passato, quando quei due hanno una
classe che manco in oratorio con le squadre squilibrate hanno?
Silenzio,
non va sprecato niente di quel 1970. Tenete l’immagine del pianista e
del paroliere che vanno verso l’esplorazione di mondi ma visti prima:
un album perfetto, senza alcun singolo, non si era mai visto. Primizie.
Lodati
siano Elton John e Bernie Taupin. Hanno creato, quasi dal nulla, un
album da mille e una notte. Qualcosa come mappare un monte più alto
dell’Everest sulla cartina geografica. Esagerazioni simili. E’
difficile trovare termini di paragone, è facile ipotizzare il loro
futuro percorso, da predestinati, da geni. Cavoli, neanche Elvis era
così lanciato.
Questa è tutta una lode alla coppia. Parole,
parole vere, strutturate, davvero non riesco a trovarle per parlare di
questo album. Basta il titolo per capire che siamo di fronte a qualcosa
di più della musica, almeno da quando la musica è suono: Tumbleweed
Connection.
In fondo, due così, che fanno i cecchini sparando
fiori, possono anche meritare legittimamente il Nobel per la Pace.
Altro che immaginazione al potere, può essere questo lo slogan che
finalmente cambia il mondo: mettete dei fiori nei vostri album.
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Captain Fantastic And The Brown Dirt Cowboy
2010
40 (+1) anni d’ispirazione
1975: qui s’interrompe la Storia… ed
inizia la Leggenda
E mo? E adesso chi guarda la classifica di
Billboard? Qui è un problema pure pensare di finire l’ascolto
dell’album, se ci sono sopravvissuti alla prima canzone. Perfetta. Ed è
solo la prima traccia. Le seguenti sono sulla sua falsariga. Cinque
lettere, un amore, un lungo brivido in fondo al cuore. E-l-t-o-n. Dal
1975, in America è un nuovo modo per dirsi ti amo.
E sì, perché un
album così bello, così grosso, così “brown”, così “born in the USA”,
così eltoniano, ti porta a cose del genere, anche alla nascita di nuove
forme d’amore, quelle per esempio tra un essere umano e un LP. Dal 1975,
in America, potreste vedere la gente andare in giro baciando, ai
semafori, un vinile. Probabilmente con dolcezza. Sopra ci sarà la faccia
di Elton John. O quella di Bernie Taupin. O di Gus Dudgeon. O quella di
uno qualsiasi degli eroi di questo album.
Sarebbe un modo per
sopravvivere, per cercare di non pensare a quello che rappresenta quel
numero, sì, proprio QUEL numero, quello piccolo piccolo piccolo: uno.
Uno, anzi, primo. Nelle classifiche di Billboard. Mai nessun disco aveva
debuttato direttamente lassù. Ma sarebbe la cosa più normale per
portare rispetto a quella che è la perfezione di Captain Fantastic And
The Brown Dirt Cowboy: troppa. Straripante. È stato l’album più
eltoniano da realizzare. Non “eltoniano” di musica, eltoniano di essenza
e di spirito, perché è totalmente autobiografico. Perché rispetto a
capolavori (forse) superiori (MA DI QUANTO??!) come Tumbleweed
Connection e Madman Across The Water, tale LP è qualcosa di persino più
difficile, perché contrariamente ai primi lavori, questo ha battuto un
certo potere maligno e malefico che si chiama “pressione”. Perché dopo
il successo formidabile di Goodbye Yellow Brick Road, “tutti” (i “tutti”
che ti fanno re e nello stesso istante ti condannano ad uno stato di
perfezione assoluta che non dura mai) si aspettavano la riconferma. Ed è
questo il muro che i comuni mortali non superano. Producono album su
album che risultano essere solo pietre utili a costruire una struttura
(musicale) perennemente tendente verso il basso, una parabola
discendente che prosegue e conclude il suo cammino, inesorabile.
Elton
John e Bernie Taupin, no. Hanno abbattuto il muro della pressione
semplicemente soffiando, con la stessa semplicità di un bambino che
spegne le candeline della sua torta di compleanno. Perché in questo
album davvero non si riescono a cogliere punti deboli o mancanze, e
quella freschezza di inizio carriera pare sia rimasta inalterata. Come
l’acqua limpida delle sorgenti che ancora non è stata inquinata. Sì, la
loro classe è limpida così. Tanto limpida da potersi specchiare dentro.
Captain
Fantastic And The Brown Dirt Cowboy è la titletrack che rappresenta
l’album in tutte le sue sfaccettature. Sembra la descrizione dei
protagonisti di un romanzo: il “Captain Fantastic, raised and regimented
hardly a hero” ed il “Brown Dirt Cowboy, still green and growing”.
Splendida l’intro alla chitarra che richiama una certa atmosfera
country.
Con Tower of Babel si abbandona la perfezione e si passa
allo stratosferico. La Elton John Band è al suo picco. Il testo di
Taupin, forse allegorico, forse metaforico, in ogni caso superbo, è
senza dubbio alcuno uno dei più enigmatici del repertorio. Ma la voce
del Capitano Fantastico, così soave ed angelica, riesce a dare un senso a
quelle parole alle nostre orecchie incomprensibili, alle loro così
familiari. Snow… cement… junk… angel… come leggenda vuole, non sapremo
mai il reale significato.
Il terzo capitolo di questa splendida
autobiografia è Bitter Fingers. Musicalmente parlando, lo stratosferico
scema in sublime, ed il testo del Cowboy è, manco a dirlo, di difficile
comprensione, ma si può leggere, tra le righe, di certe abitudini
giovanili del paroliere (“I'm going on the circuit, I'm doing all the
clubs and I really need a song boys to stir those workers up and get
their wives to sing it with me, just like in the pubs when I worked the
good old pubs in Stepney”) quando era un ragazzino. Non che ora sia
molto più grande, visto e considerato che a soli 25 anni sta
contribuendo a fare la storia.
Elton John canta e racconta della
nostalgia di Bernie verso la sua terra, sentimento ampiamente trattato
in Goodbye Yellow Brick Road. Tell Me When The Whistle Blows è la quarta
traccia dell’album e qui il nostro caro pianista riesce ancora una
volta a deliziarci con una genialità che davvero trapela da ogni parte
del suo corpo: il suono del suo pianoforte (il cavallo del Capitano)
rende davvero l’idea di un “fischio” che suona, e crea un’atmosfera
veramente calda, richiamando alla mente di Taupin la sua vita da giovane
campagnolo.
Come in ogni libro (autobiografico o no che sia) che si
rispetti, non poteva di certo mancare la storia d’amore. Qui ce ne sono
addirittura due, ma non corriamo troppo, altrimenti ci roviniamo il
finale di questa splendida storia. Someone Saved My Life Tonight è stato
l’unico singolo tratto dall’album, perché effettivamente ha risvolti
più commerciali rispetto al resto della produzione. La produzione è
dolce, le parole di Bernie anche, la voce di Elton John ovviamente non
poteva differire e distaccarsi da questo filo conduttore. Il testo
racconta la fine dell’amore (in realtà mai provato) del Capitano verso
tale Linda Woodrow, che sarebbe dovuta diventare sua moglie.
Fortunatamente (per Elton e per la sua carriera) il matrimonio andò a
monte, in seguito ai consigli di Bernie Taupin e Long John Baldry. Il
geniale pianista tentò di togliersi la vita dopo aver dichiarato il suo…
“non-amore” alla ragazza, e indovinate chi ha impedito questo suicidio
alla Woody Allen? Taupin. Anche Lassù si sapeva: questo album doveva
nascere.
(Gotta Get A) Meal Ticket ha una trama frizzante ed
incredibilmente piacevole all’ascolto, quel buon vecchio “duro” rock che
ogni amante di buona musica vorrebbe sentire dal proprio idolo. Il
testo è, per non distaccarsi troppo dai canoni di scrittura seguiti fino
ad ora, di mille interpretazioni, di cui però solo una sarà quella
vera. Bisognerebbe entrare nella mente del paroliere per coglierla,
quella mente così inaccessibile, così elevata, quella mente che conosce
tutti i segreti di Elton John e di quel mondo a noi, per forza di cose,
sconosciuto.
Non più sublime, ma capolavoro assoluto Better Off Dead,
assolutamente un pezzo per cuori forti. Nigel Olsson alla batteria crea
un’atmosfera lugubre, catapulta l’ascoltatore in vecchie strade
londinesi mal frequentate. Live poi, questo pezzo è una meraviglia
(soprattutto con il funambolico Cooper alle percussioni! Roba da
svenire). Le parole probabilmente fanno da cornice ai bassifondi
londinesi cui Elton e Bernie erano soliti recarsi in gioventù. Questi
sono i piccoli segreti di grandi geni.
Che dire del penultimo
capitolo, Writing? Fa da prologo al meraviglioso finale che seguirà.
Writing, “scrivere”. L’attività principale di Taupin, senza la quale
probabilmente non sarebbe nato Elton John. O meglio, forse Elton John
sì, ma il Capitano Fantastico di sicuro no. Forse musicalmente risulta
inferiore rispetto ai precedenti (e successivi) pezzi, ma cavolo in
questo album niente può essere criticato. Quindi… eccellente anche la
traccia numero 8.
E. E adesso?
Adesso che facciamo? Come ci
arriviamo alla fine del romanzo? L’unica soluzione è andare, in apnea,
eltoniani come sempre.
E dunque scorrono i titoli di coda su questo
meraviglioso capolavoro, che senza dubbio rappresenta il picco della
seconda parte di carriera di Elton John e Bernie Taupin. We All Fall In
Love Sometimes/Curtains non si possono dividere, sono come i loro
autori, gemelli, complementari, un tutt’uno. Dividere queste due canzoni
significa spaccare a metà LP, cosa che MAI i nostri occhi (e più in
generale quelli di ogni signore con un minimo di lucidità mentale da
saper cogliere la differenza tra “musica” e “rumore”) vorrebbero vedere.
L’ultimo capitolo dunque racconta dell’amore tra Elton e Bernie. Sì,
proprio “amore”. Perché l’amore non è solo quello fisico, sessuale,
Taupin racconta tutte le sfaccettature di questo sentimento che in
minima parte è presente in ogni essere umano, e trattandosi di album
autobiografico, non vi è dubbio alcuno che l’amore raccontato sia quello
fraterno tra il Capitano ed il Cowboy. Per stessa ammissione di Elton
John, questo testo è uno dei più belli e commoventi mai scritti dal suo
paroliere, tant’è vero che anche a lui sono scappate le lacrime… ma non
solo. Pure a noi. Udire la sua splendida voce, angelica (questa volta)
come non mai, decantare quel legame indissolubile con l’abbronzato
Cowboy, e soprattutto al termine di un album così, è da pelle d’oca.
Captain Fantastic And The Brown Dirt Cowboy dura esattamente 47 minuti e
2 secondi. All’incirca un’ora. E’ un bene che il disco abbia debuttato
direttamente al numero 1 delle classifiche. Così è Leggenda. E
l’ascoltatore, quando ode tale perfezione concentrata in un solo LP,
cerca di recuperare quel pezzo di vita che ogni fan di Elton John e
Bernie Taupin ha lasciato lì. Non è un’ora (di ascolto) in meno, ma
un’ora in più, che avvicina il confine tra il terreno ed il divino.
Perché qui si interrompe la Storia. Ed inizia la Leggenda.
Curtains
si conclude con la voce di Elton John che fa da eco ai cori della sua
band. Quella voce che simula davvero il fischio del vento che scuote il
Vecchio Spaventapasseri lasciato lì, in un campo che non sarà seminato
mai più.
Mai più così bene. Mai più da quei Due.
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Blue Moves
2009
40 (+1) anni d’ispirazione -
1976: addio, bernie
Diciamolo
chiaramente: ripetere la stagione 74/75 e bissarne le vendite sarebbe
stato umanamente impossibile, anche per il duo che in poco più di 6
anni rivoluzionò la storia del rock,
Triste come una foglia
morta. L’ultimo album John/Taupin anni 70s è la fotografia del loro
autunno. Il successo non aveva fatto altro che mascherare le debolezze
di entrambi, posticipando un declino fisiologicamente normale, ma
psicologicamente davvero drastico. Troppo, per chi era abituato a
incassare il doppio dei soldi che spendeva.
L’album alterna
colpi geniali a pezzi poco memorabili, come a voler dire: “basta, non
ce la faccio più”. Elton John era ormai schiavo delle proprie
dipendenze, per anni aveva sfornato dischi come e meglio di una
fabbrica, anche per lui arrivò il momento di tirare il fiato. La
lucidità e la freschezza erano andate. L’atmosfera era cupa, un alone
di oscurità fece da culla al disco che stava nascendo. Nigel Olsson era
già stato rimpiazzato alla batteria da Roger Pope, e Kenny Passarelli
aveva preso il posto di Dee Murray al basso. Il solo Johnstone risultò
essere il superstite della vecchia band. Il lancio dell’album non potè
che sancire la fine di un ciclo.
E’ stata una semplice “B” a
complicare tutto. Il pianista compromise irrimediabilmente il bilancio
delle vendite quando rilasciò la famosa intervista in cui dichiarava la
propria bisessualità.
Anche Bernie Taupin, l’alter-ego di Elton,
non era esente da problemi: in piena crisi coniugale, iniziava a
condurre uno stile di vita non proprio salutare. Questo turbolento
stato d’animo, inevitabilmente, si rispecchiava nei testi. Tristi,
malinconici, rassegnati. Il paroliere non riusciva ad accettare la fine
del suo matrimonio, e da lì a poco sarebbe arrivata anche quella della
sua collaborazione con John. Forse ciò fu opera del destino, certo è
che sarebbe stato più probabile l’allineamento della Terra con Giove
che una separazione tra il Capitano Fantastico e il Cowboy Impolverato.
E invece, Blue Moves sancì la (presunta) fine della collaborazione..
Qualcosa di impensabile fino a pochi mesi prima, quando Captain
Fantastic & The Brown Dirt Cowboy sbancò le classifiche americane.
Senza
Taupin, dunque. Dopo una vita. Dopo album memorabili. La stima,
l’amicizia non vennero mai a mancare, ma Elton John voleva rifare il
pieno a quella macchina, la sua musica, che doveva ripartire, anzi
riprendere a camminare, per usare parole più appropriate al caso. Il
cambio di paroliere non sembrava così imminente, e nemmeno così
necessario, si è trattato di un puntello in corsa, un ennesimo rimedio
perché qualcosa davvero non andava, perché ormai anche lo zoccolo duro
dei fans si era accorto di cantare qualcosa che non c'è più.
E
così, inevitabilmente, il nome di Bernie si slegò da quello di Elton
per anni. Il paroliere, notoriamente la parte più debole, cadde nel
trauma del divorzio e della dipendenza. Il genio di Pinner si
auto-convinse che Gary Osborne, il nuovo compagno di scrittura, fosse
la persona giusta con cui ritornare grande. Ci riuscì, in parte.
D’altronde, un posto nella Storia del rock l’aveva. Ma per entrare
nella Leggenda ed essere il numero 1 indiscusso, occorreva quella
credibilità, quella sicurezza che solo un nome amato poteva dare,
quella solida base che Elton John aveva costruito solo e unicamente con
Taupin, quando i due erano solo ragazzini.
Un anno, il 1976, all’insegna della “B”.
B come bisessualità. B come Blue Moves.
B come “Bye bye, Bernie Taupin”.
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A Single Man
2010
40 (+1) anni d’ispirazione -
1978: John vs Taupin
Splendido.
E’ un aggettivo che si addice perfettamente ad un album, questo, che
sancisce il definitvo tramonto dello strapotere Eltonjohniano anni 70s.
L’ultimo vero capolavoro. Brani delicati ed energici, che forse peccano
solo nei testi, altrimenti sarebbero davvero a livelli stellari. La
canzone “Madness” è particolarissima e spumeggiante, l’intro al
pianoforte è da brividi. Buon accordo tra testo e musica in “Shine On
Through” . Si lascia ascoltare senza troppe pretese la calda “Georgia”,
che tratta dell’omonimo stato d’America. Ma tra tutte spicca una gemma.
E’ la splendida “Song For Guy”, interamente strumentale. Però, sul
finale, quel “life isn’t everything” racchiude in se tutta la
particolarità della vita che può farti sentire un re e un attimo dopo
può affossarti. Perché, è vero, non basta una vita per cancellare un
attimo, ma a volte basta un attimo per cancellare una vita.
Che
si può dire, su un album così? Niente, è tutto perfetto. O quasi. Ormai
spremuto come un limone, Elton affoga la sua depressione in una dose
che spesso risulta essere di troppo. E non inganni la splendida
riuscita di questo disco: passeranno due decenni prima di vederne altri
così.
Si sono amati, poi “detestati”, ora il rapporto è di
totale indifferenza. Però si parlano. Poco, ma si parlano. Ciao, come
va? Tutto a posto? Così, poche parole ormai tra Elton John e Bernie
Taupin. Due che hanno fatto divertire parecchia gente da queste parti
(e non solo): un pianoforte lì, un pennino di là, una musica pazzesca,
un testo fantastico. E ora? Niente o quasi.
Distanti. E’ rimasto
il ricordo di una vecchia amicizia, nata nel lontano 1967, quando Reg
Dwight conosce il 17enne Taupin. Entrambi protetti dal loro talento.
Tutti al fianco del pianista, il paroliere invece solo come un lupo.
Così simili, così diversi. Album spettacolari, tour fantastici, un
grande rapporto di amicizia. Poi, le dipendenze della rockstar, il
trauma matrimoniale di Taupin, Blue Moves, quindi il vuoto. Un fatale
battibecco per questioni private, l’allontanamento l’uno dall’altro con
la conseguente scomparsa di Bernie nella carriera di John.
Era
bello vederli comporre con il sorriso sulle labbra, non il massimo
osservare che ora si citino solo nelle interviste. Su richiesta, per
giunta. Da lì, la decadenza di Taupin coincideva addirittura con la
crescita di Elton. Mi spiego. Il primo, perso nei guai del divorzio e
dell’alcool, era a stento ricordato per il celebre passato, il secondo
stappava applausi convinti alla critica con questo album, appunto,
scritto senza il suo principale paroliere. Poi i rapporti sono
leggermente migliorati. Come detto, almeno si parlano.
Tutti
parlano di Elton John, di Bernie Taupin no. Una sorta di bello e brutto
anatroccolo. Il paroliere, nello stesso anno, scrive i testi per un
album di Alice Cooper, “From The Inside”, e si parla già di concorrenza
agguerrita con il pianista di Pinner. Magari vi era solo rivalità
commerciale, ma nulla di più. Qualitativamente, non è mistero che “A
Single Man” sia nettamente superiore. Forse, il John avrà pensato ad un
nuovo volto della sua carriera, con Gary Osborne. Perché il primo album
insieme è stato davvero un capolavoro, superiore forse all’ultimo
scritto con Taupin. Ma si sa, una rondine non fa primavera.
E il
prossimo album? Chissà. Chi vivrà, vedrà. L’eco dei vecchi successi
della coppia scoppiata non è del tutto scomaprso, ed è probabile che
Elton e Bernie si siano incontrati. Si riparte da questo. Come va?
Tutto a posto? Poi ognuno per la sua strada, con il ricordo di quando e
quanto si erano amati. E con la speranza per John di continuare la sua
serie positiva con Osborne. Taupin muore con il suo matrimonio e con il
primo Elton.
Il destino di due fenomeni, un tempo così vicini, ora mai così lontani.
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Victim Of Love
2010
40 (+1) anni d’ispirazione -
1979: Elton John, come una pietra scalciata
Cosa
accade quando si arriva ad un punto di non ritorno? E quando cerchi di
spingere la tua carriera al limite delle tue potenzialità rischiando di
bruciare il tuo talento?
E’ il caso di Reginald Dwight, meglio
conosciuto come Elton John. La sua carriera potrebbe essere riassunta
in un’unica frase: fiducia, ma troppo amore.
Di fiducia , il
pianista ne ha ricevuta molta, fin dai tempi in cui non componeva ad
altissimi livelli. Perché il suo talento era una finestra che si apriva
su un mondo fantastico. Non poteva restare inesploso.
Ma qui si
esagera. Passi la rottura con Bernie Taupin, se le esigenze personali e
professionali volevano questo. Passi la dipartita della sua band. Passi
la produzione di alcuni brani non proprio (per nulla) esaltanti. Qui,
però, si crea un vero e proprio crac.
Cosa ha spinto il più
geniale artista del secolo a gettarsi a capofitto in questo squallido
progetto dance, senza né capo né coda? Di certo non poteva rilanciarsi,
poteva solo peggiorarsi. Non avrebbe tratto alcun beneficio da questa
assurda collaborazione. Che Elton John stia pagando dazio ai suoi vizi
e ai suoi ececssi, bè, questo gli si legge negli occhi. La figura del
ragazzo allegro che cantava perché gli piaceva farlo, non perché doveva
farlo, si dirada silenziosa… lentamente… proprio come cantava in
“Goodbye”… sparisce come una pagina senza testo.
Ora, Elton non
è né il più ricercato, né il più ignorato. E’ Reginald Dwight, con
tutte le sue paure e debolezze. Messo a nudo, il guscio del successo si
è sgretolato lentamente sotto i colpi sempre più incessanti delle
dipendenze, della fama, dello stress. Semplicemente Reg Dwight, dunque.
O
no? A pensarci bene, niente affatto, tanta roba, in musica (ma
ultimamente poca) e nell’anima, perfino tormentata a volte. Che fare?
Che sentire? Lasciarsi andare o frenarsi? Ma forse il genio, sì, anche
lui che prima non ne sbagliava una, ha chiesto troppo a se stesso.
Gettarsi in una simile produzione che è all’estremo opposto dal suo
genere… però, la gente non riesce a capire che il suo talento non è
andato perduto. Invece, tutti i critici che un tempo lo ammaliavano se
la sono letteralmente data a gambe levate. Ed ora quale futuro per
John? Per un pianista ormai adulto che aveva tutto ma che chiedeva di
più, cosa si prospetta? Chi vivrà vedrà. Ma una scena (ormai troppe
volte ripetutasi) sarà rimasta impressa di sicuro nella mente di tutti:
Elton che, crogiolandosi nei suoi vizi, si compiace delle vendite
redditizie di singoli o LP, in cui non c’è neanche un po’ “di lui”. Nei
suoi occhi velati dal desiderio e dalla dipendenza si legge una gioia
immensa, ma… cosa si prova a godere del successo di un prodotto che non
si è creato con il proprio sudore, la propria gioia, con il proprio
modo di fare musica? Forse questo, Elton non lo pensa: i soldi che
arrivano dalle vendite sono molti, abbastanza per far dimenticare ogni
problema. Una cosa è certa: lui non è un artista mancato, come molti, è
uno serio, un genio, un fenomeno. Ma nel periodo che corre è davvero a
pezzi, ha chiesto troppo e non è stato ricompensato con niente tranne
che con soldi “sporchi” e “finto” successo massacrante.
Coincidenza
per i nostalgici. 1969-1979. Fosse rimasto con Taupin, avrebbe
festeggiato 10 anni di collaborazione e amicizia. Adesso, di uno si
sono perse le tracce (fine ingloriosa) e dell’altro invece si hanno
troppe notizie… negative. Forse Elton non lo sa, ma in questo momento è
una pietra scalciata.
Ed ora, cosa ne sarà di lui?
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The Fox
2010
40 (+1) anni d’ispirazione -
i 70 non torneranno più
I 70
non torneranno più.
Con questa massima nella testa, Elton John
decide di tornare a fare la persona seria, un anno dopo lo scempio di
“Victim Of Love”. Per fortuna, quel “disco” non è interamente roba sua,
anche se persino il più ottimista dei fans faticava a riconoscere nel
cantante di VOL il compositore di “A Single Man”, grande album che vide
la luce solo un anno prima.
I 70 non torneranno più, dunque. Come
per magia, in “The Fox” non c’è alcun pezzo “spacca-classifica”. I
cosidetti “singoloni” erano stati un marchio di fabbrica del mercato
eltoniano, sono pezzi come “Rocket Man” e “Crocodile Rock” che hanno
consacrato il John ai vertici della musica mondiale, non i capolavori
assoluti dei primissimi anni (purtroppo).
Ma cavoli, ragazzi, qui
la voce gioca un ruolo fondamentale. E quella del geniale compositore
di Pinner resta calda, graffiante e soffusa al contempo. Riesce a dare
un senso vero e profondo ai testi non proprio eccelsi del suo songwriter
Gary Osborne, il cui talento non è nemmeno minimamente e lontanamente
paragonabile a quello di Taupin. Non li si deve mettere a confronto
neanche per scherzo, né il primo Aprile, né a Capodanno, né a
Ferragosto, né il giorno della festa del Santo Patrono. Massimo rispetto
per l’Osborne, ma il paragone è impietoso.
Signori, questo è un
album bellissimo. Voce a parte, sono altre le componenti che rendono
questo disco l’ultimo grande lavoro di Elton da qui fino ai ’00. Rock
frizzante mescolato a cori gospel e qualche passaggio “blues” è il tema
portante che ci accompagna per tutto l’ascolto. La prima traccia è
musicalmente molto allegra e vivace, con un testo (di Gary Osborne) che
non ha nulla da chiedere. “Heart In The Right Place” si rifà ad un rock
con accenni di blues, che mette molto in risalto la graffiante chitarra
di Zito. Anche questo testo è però poco pretenzioso.
“Just Like
Belgium” non sarà un capolavoro ma è davvero piacevole all’ascolto,
perfettamente in linea con la tendenza che il Nostro ci propone in
questo album. Per la prima volta dopo 1 anno fa capolino Bernie in un
lavoro di Elton, anche se il suo testo non è degno del paroliere che
conosciamo. D’ispirazione casuale è “Nobody Wins”, originariamente
cantata in lingua francese da Jean Paul Dreau (il pezzo si chiamava
“J’veux de la Tendresse”) e riadattata dal pianista di Pinner, con il
tema del testo che differisce totalmente dall’originale. La coppia
John/Taupin si riaffaccia nell’album con “Fascist Faces”, un rock bello
duro che tratta di una chiara presa di posizione politica.
Arriva
forse il pezzo migliore dell’album: la strumentale “Carla Etude”,
splendida nella sua semplicità pianistica con un retrogusto classico che
rinfresca la memoria di un pubblico che non riconosceva più Elton John
come “il più grande”. Il brano poi si snoda nella più banale “Fanfare” e
successivamente in “Chloe”, in cui Reg Dwight torna a cantare, e lo fa
seguendo un testo firmato Osborne che lo rimanda con la mente ad un suo
amante dell’epoca. “Heels Of The Wind” non regge il passo di questi
ultimi tre pezzi, ma si conferma brano piacevole e in qualche modo
“frizzantino”, con il testo di Taupin d’impronta (al solito) pessimista.
Tom
Robinson ha scritto la decima lirica dell’album, “Elton’s Song”, che
tratta una storia omosessuale in un college, ma non inganni il nome
della canzone: è stato scelto solo perché a commissionarne la scrittura
era stato, appunto, Elton John. Musicalmente forse è un po’ troppo
“caramellosa”, ma resta un grande pezzo, niente di paragonabile al
“miele” in cui saranno intrise “Sacrifice” e “Can You Feel The Love
Tonight”.
Mettiamola così: Elton è come un grandissimo calciatore
da 200 gol in carriera, ma alla soglia dei 34 anni. Sa che ha già dato,
sa che il suo tempo è passato e sa che il meglio, i suoi sostenitori,
l’hanno già visto, ma ci tiene a sparare le ultime cartucce per
ricordare al pubblico chi è, il fuoriclasse che è stato. Ecco: il genio
londinese è conscio che non tornerà più a vendere come nei gloriosi
70’s. Probabilmente sa anche che non scriverà più capolavori mostruosi,
ma con “The Fox” chiude un’epoca, anche se già con “A Single Man” c’era
stato un netto taglio con il passato. Il sorriso spento sul retro della
copertina e quegli occhi ormai dipendenti lo certificano in maniera
inconfutabile.
E arrivò il momento della titletrack, “The Fox”,
appunto. Per chiudere un bellezza un grande disco, Elton non può che
rivolgersi ad un grande paroliere. Il testo, signed by Bernie Taupin,
denota una leggera malinconia, accompagnata da un sound tipicamente
eltonjohniano, che rimanda con la mente ai primi album e richiama
un’atmosfera unica che nessun altro artista sarebbe mai riuscito a
creare.
In ultima analisi, what more can I say?...
… Ah,
sì.
I 70 non torneranno più.
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Jump Up!
2010
40 (+1) anni d’ispirazione -
1982: dov’e’ elton john?
Non è
più lo stesso sorriso. Di facciata, al suo pubblico, nelle interviste.
Non si vede la gioia, la freschezza, la spontaneità. Perché possono
esserci mille motivi per spiegare la deprimente flessione della musica
che è stata l’unica ascoltata per 10 anni. Motivi che possono essere
opinabili, ma uno di sicuro no. Elton John, appunto. Che fine ha fatto
il pianista tutto genio per il quale il pubblico impazziva? Cosa sta
succedendo a questo uomo che in passato si metteva al pianoforte, in
conservatorio, e capiva tutto prima degli altri? Dove è finito
quell’occhialuto che in studio era cuore e cervello, genio e
sregolatezza, elegante e cafone, musucista d’élite e commerciale, il
pianista incredibile? Non sono domande figlie di questo album, tutto
sommato sulla sufficienza (c’è di peggio, suvvia). Fosse così,
sarebbero pretestuose, ingiuste e fuori tempo. Sono, al contrario,
domande che rappresentano l’inevitabile e naturale conseguenza di un
Elton John che da tempo, troppo tempo, non riesce a comporre e
incantare come può e sa. E il problema è solo di album, nel senso che
poi quando il genio va sul palco spesso e volentieri lo si vede tornare
il migliore performer live a cui si erano abituati negli anni scorsi.
Questo
Elton, in studio, non si vede da tempo. Sono i suoi occhi, nei post-
concerto, a certificarlo in maniera inconfutabile, occhi tristi,
dipendenti, che dicono come per lui in questo momento sia meglio non
parlare, altrimenti sarebbe costretto a raccontare qualche bugia.
Dunque, cosa gli sta succedendo? In una mondo come quello della musica,
arricchito (o inquinato, fate voi) dall’enorme successo, dove la
chiacchiera di bocca in bocca trasforma una porta in un portone, una
fessura in una voragine, un granello di sabbia in un macigno, c’è chi
risponde con frasi scomode, pettegolezzi e… sì, anche “cattiverie” che
sono accompagnate dalla sempre fastidiosa dicitura “si dice che il
John…”. Sarebbe perlomeno ingiusto nei confronti di un uomo che ci ha
sempre messo la faccia, che è sempre stato se stesso, che ha avuto
un’etica del lavoro al di sopra di ogni sospetto e che da quando ha
iniziato la carriera è andato avanti a quasi due album all’anno, sempre
e comunque, pure quando non sarebbe stato il caso.
Certo, una
brusca separazione professionale e le enormi dipendenze gli hanno fatto
scoprire il lato oscuro della vita, il “bad side of the moon”, e su un
ragazzo che ha sempre vissuto con la gioia come pelle, questo non
poteva che ripercuotersi anche nel suo rendimento in studio.
Il
motivo per il quale Elton John sembra un corpo estraneo, ma non solo
alla musica, alla sua musica, è quindi da ricercare soprattutto in
difficoltà personali, ambientali, che il pianista fa fatica a
comprendere ed accettare. Il genio di Pinner vive in prima persona il
calo (non troppo rilevante, per la verità) delle vendite e il mutato
pensiero che la critica esprime nei suoi confronti, così come una
realtà che da un paio d’anni a questa parte gli ha fatto toccare con
mano che il progetto e il futuro, a meno di colpi di scena, non è che
potranno cancellare un presente anonimo e senza prospettive. Ormai, ha
dato il meglio di se e non capisce come possa tornare indietro e
riconquistare l’amore di quei fans che gli hanno voltato le spalle
appena scoperta la sua tendenza bisessuale, o la stima di ogni critico
che solo fino a qualche anno prima lo decantavano fino all’esaurimento
nervoso. Un amante sedotto e abbandonato.
Ecco, le prospettive
sono il pensiero che nella testa di John è fisso e non trova risposte.
Facile, non trovare risposte. Per il semplice fatto che non ce ne sono.
Non esistono. Sente parlare di un declino, lui non ci crede e vuole
dimostrare di essere ancora carico. Vede le immagini del nuovo,
ipotetico, concerto, bellissimo, ma si domanda pure quale pianista ci
arriverà a suonare. E quale (quanto) pubblico ancora avrà.
E’
felice che tutto sommato le vendite non siano precipitate del tutto,
con il singolo Blue Eyes che tiene ancora vivo questo bilancio, ma sa
anche che la stessa cosa succede agli emergenti, che compongono solo
per questo scopo, che non cercano la perfezione stilistica né un suono
pulito e degno di essere chiamato tale. Lui no, non vuole essere come
loro, lui è diverso, lui è Elton John. Forse, però, è qui che pecca.
Prima di essere Elton John, lui è Reggie Dwight. Quando la semplicità è
virtù invisibile agli occhi, specie se barrati da soldi, fama e gloria.
E
poi, una componente fondamentale: questo album è stato scritto assieme
a due parolieri. Osborne e… Taupin. Vede i testi che gli si presentano
davanti: un po’ (troppo) incolori quelli di Gary. Mentre constata che
Bernie fa… il Bernie, ma sa anche che ormai non è più solo il “suo”
paroliere. E’ solo una (s)comoda costante. Quindi.
Quale futuro lo aspetta?
Cerca una risposta, ma l’unica che trova, lo spaventa.
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Too Low For Zero
2010
40 (+1) anni d’ispirazione -
1983: il passato riaffiora
L’ascensore
Elton John davvero non sa a che piano fermarsi: alterna grandi
pennellate da artista a motivetti creati solo per far cantare il
pubblico. Live, certo, è sempre carico come una molla. Stiamo parlando
di un artista al di sopra delle righe, una star così mostruosa il
genere umano non l’aveva mai conosciuta. Ma a rendere grande il
pianista occhialuto non è stato solo il proprio talento, così puro e
genuino che se fosse disceso dal cielo Amedeus Mozart avrebbe
esclamato: “ecco come sarei diventato con qualche anno in più”.
No,
c’era dell’altro. Una band fantastica, un gruppo unito, gente che
disegnava e insegnava l’arte della musica. E poi… in mezzo a tanti
profittatori, un amico vero da cui provengono le parole più belle della
produzione di Elton John.
“Dobbiamo parlare”. Bastò una
telefonata. Il successivo incontro, a Nizza, con l’altra metà di se
stesso. Non più un ragazzo, adesso era un uomo con alle spalle una
straziante separazione (anzi, due) e sulle spalle il peso di un secondo
matrimonio, i capelli un po’ più lunghi del solito e delle mani che
potevano scrivere solo per un artista.
Elton John e Bernie
Taupin sono tornati, come sanno, come possono, come dovevano. Con
l’antica band. Il gruppo era di nuovo unito. Il nuovo album rispecchia
le mode anni 80s, periodo in cui la musica stava subendo una
metamorfosi. Armonia e melodia stavano diradandosi a favore del “suono”
orecchiabile e commerciale.
Ne consegue che per le tendenze
dell’epoca, i contenuti del disco risultano essere roba fine del
repertorio John/Taupin, 10 brani che fanno musica, numero, cronaca e
anche storia. Perché quello che fa il duo non è mai un asterisco, mai
nota a margine. Che si tratti di album, di concerti, di un matrimonio,
di un tour, di un divorzio, di due mogli bellissime, di avventure
omosessuali, di una serie di irresistibili interviste, di una genialità
che ormai appartiene loro più ogni altro artista.
Too Low For
Zero, dunque, è un vero e proprio segnale perchè chi sa sa e chi non sa
non saprà mai. John e Taupin sapevano, sanno e sapranno. D’altronde, si
parla di due figure che sono da anni il “best” musicale, la loro
visibilità continentale e mondiale non è mai stata limitata dalla
sempre più scialba concorrenza.
Se Elton avesse continuato la
collaborazione con l’anonimo Osborne, sarebbe celebrato da tutti i
giornali e le televisioni come “big”, ma non come “biggest”, la sua
carriera non sarebbe stata ricompensata da riconoscimenti personali e
adulazioni. Fino all’anno prima, Elton John era alla ricerca di se
stesso e Taupin solo una sbiadita incognita, nemmeno ipotesi. Era
fondamentale ritrovare la collaborazione, con un passo indietro. Il
pianista è un genio, ma un altro fenomeno accanto cambia la vita a
chiunque, figuratevi a una produzione piena di guai come quella di
John. Monumentale è l’aggettivo giusto per questi due talenti.
Prendete
una foto che li ritrae insieme: sembrano una coppia di eroi sul
piedistallo, lungo i Fori Imperiali. Eppure, 7 anni fa sembrava la fine
di un amore eterno: Elton che lancia sul mercato Blue Moves, poi un
album forse superiore, A Single Man, scritto con Gary Osborne: sembrava
l’inizio della fine. Epilogo impossibile.
Elton è Bernie e
Bernie è Elton. Loro sono quello che vediamo ma non sappiamo
completamente. L’impegno di scrivere testi e musica, la felicità di uno
sguardo al pubblico, ai fans, mille modi di comporre, per commercio,
per gioia, per svago, per le classifiche, di stile, di eleganza, un
filo di seta, una frusta di cuoio.
Insieme sono una miscela
micidiale, incredibile, un concentrato assurdo di genialità. Dice uno
che l’altro fa da sempre parte della sua vita, e viceversa. Forse
dovremmo credere a queste parole. Anche se non ci sarà più gusto a
seguire nuovi esordienti.
Saranno, per forza di cose, “Too Low For Zero”, no?
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Live In Australia
2010
40 (+1) anni d’ispirazione -
1986: don’t cry, reg
Non
piangere, Reg. Anche se le lacrime vengono giù da sole, impossibile
fermarle o nasconderle dietro un sorriso di facciata o un’ennesima
dose, perché tu non sai fingere, davvero, non ci riesci. Mentre ti
dirigi dal tuo pubblico, che soffre con te, sapendo del terribile male
che affligge la tua splendida voce.
Quella voce con cui hai
trasportato le anime del Paradiso dentro ogni tuo album, quella voce
con cui hai fatto sognare tutti, quella voce che ha permesso alla morte
di danzare accanto all’amore, che ha unito il tutto al nulla, e
viceversa.
Non piangere, Reg. Anche se hai paura, perché sai
della tua precaria condizione fisica, e sai anche che altri, prima di
te, non ce l’hanno fatta a superare l’ostacolo. Sai di non essere né il
primo né l’ultimo. E stai tremando.
E così, dopo aver
“rassicurato” il tuo amico Davey con la solita ironia che ti
contraddistingue (“Ma no, bastardo, mi sono innamorato del primo
violino”), sali sul palco, pronto a tenere il tuo (ultimo?) concerto.
Un boato esplode con fragore. Tutti si alzano in piedi e ti applaudono.
Sì, i tuoi fans sono in pensiero per e con te, cercano di tirarti un
po’ su con il loro amore, ancora una volta, forse per l’ultima volta.
Tu ti poni con il solito atteggiamento allegro e sbarazzino, guardi
tutta la tua gente negli occhi, proprio come a dire “io sono qui,
ancora una volta”.
Attacchi “Sixty years on”: mentre il pubblico
applaude entusiasta, nella tua mente si scolpiscono le parole del brano
“non desidero essere vivo a sessant’anni”. Suonano come profetiche? O
ce la farai ancora una volta? Immagini di un rosario rotto accanto ad
un fucile… intanto i violini dell’orchestra creano un’atmosfera
malinconica che poi si riversa in contrasto con la delicatezza
dell’arpa… pazzesco. E interpretazione perfetta, avvantaggiata da una
voce sicuramente meno potente dei fasti che furono ma davvero… magica.
Non piangere, Reg, nota il boato alla fine del brano.
Decidi di
deliziare la tua gente ancora una volta, pescando dallo stesso album
un’altra gemma, “I need you to turn to”, splendida in ogni suo accordo.
Il titolo non potrebbe davvero rendere al meglio il tuo stato d’animo.
Ti guardi intorno, e vedi tanta, ma davvero tanta gente che ti adora,
ti osanna, ti venera, e ti accorgi che è questo l’amore puro e vero.
Vuoi lasciarti alle spalle, almeno per una notte, la tua notte, tutto
il mondo sporco e falso di cui però ormai fai parte. Il maestoso
suonare dei violini echeggia per tutto il palco, fondendosi alla tua
voce in maniera strabiliante. Non piangere, Reg, perché sei strepitoso
e in fondo lo sai.
Poi. Altro brano e altre immagini in mente.
“The greatest discovery” è di quelle canzoni che porterai per sempre
nel tuo cuore: esecuzione eccellente, e vedi passarti davanti agli
occhi immagini di un bambino che nasce, proprio come stava nascendo la
tua carriera, contestata solo dagli ignoranti, quando componesti il
brano. L'arrangiamento di questo concerto fa poi il suo: il tuo
pianoforte, fuso con il delicato suono dei flauti e quello tagliente
dei violini, è fantastico. Ma ci fosse una, e dico una, volta che non
lo sia stato. Non piangere, Reg, perché qui tutti sono in estasi per te.
Segue
la struggente “Tonight”, 7 minuti in cui negli occhi di ogni persona
leggi l’odio del tuo paroliere per il mondo quando una straziante
separazione l’aveva dilaniato e annientato. Non piangere, Reg, anche se
questo momento, sì, è commovente davvero.
Dallo stesso, triste
album tiri fuori una versione incantevole di “Sorry seems to be the
hardest word”, la cui esecuzione perfetta è tradita, forse, da un
finale troppo rapido. Ma va bene così. Mentre i tuoi fans si spellano
le mani a furia di omaggiarti, tu ti rituffi nel passato, intonando
“The king must die” (pezzo già di per se divino, ma quest’oggi con un
arrangiamento maestoso) e nella tua mente assisti ad una crudele
congiura. Il Re è morto, Lunga vita al Re. Non piangere, Reg, perché
King John I scamperà al patibolo.
I cortigiani e i cospiratori
scompaiono per fare posto a figure animate e non, si staglia uno
scenario senza senso e tu ti cimenti in una divertente “Take me to the
pilot”, per scacciare la malinconica degli ultimi pezzi. Non piangere,
Reg, perché il pilota della tua anima sei proprio tu.
Scocca
l’ora di “Tiny dancer”. Un brano che dovrebbe andare di pari passo con
l’amore, ma tu chiudi gli occhi e sai che non è così, perché
quell’immagine del paroliere che danza con la sua donna è illusoria
come potrebbe esserla quella di un diavolo seduto su una nuvola. Ma la
canzone è stupenda. Non piangere, Reg, perché il tuo amico Bernie è
fiero di te.
“Have mercy on the criminal” è maestosa in tutta la
sua ermeticità. Anche se la tua voce inizia a perdere colpi, non ti
abbatti, come sempre d’altronde. Cadi e ti rialzi. Non piangere, Reg,
perché guardati, non ti sei fatto neanche un’ammaccatura.
La tua
gente sta toccando il cielo con un dito, e te ne compiaci. Vivi per
loro. Il prossimo brano è “Madman across the water”. A dispetto
dell’originale, questa versione è più lunga. Sì, non nasconderti, si
vede che cerchi di ammazzare la malinconia, su quei tasti che ti sono
cari come genitori, prima che la malinconia ammazzi te. Non piangere,
Reg, perché tu sei più forte di qualsiasi demone.
Arriva “Candle
in the wind”. Pezzo, questo, di una bellezza inaudita, resa immortale
dalle sfumature della tua voce, non più chiara ma profonda e cupa,
proprio come si addice al testo così caro al tuo amico Taupin. Mentre
suoni, si vede nei tuoi occhi il sorriso angosciato di Marylin. Non
piangere, Reg, la tua carriera non finirà dopo questa notte.
“Burn
down the mission” è splendidamente arrangiata, ma inutile sprecare le
parole, non c’è un singolo brano a cui tu non abbia reso onore,
stasera. Non piangere, Reg, perché le tue lacrime sono le lacrime di
tutti.
Ad un certo punto, l’apice del tuo splendido spettacolo.
Quando intoni le note finali del brano e ti giri verso il pubblico, ti
accorgi che questo non c’è più. Il palco è scomparso. Sei immerso nel
vuoto. All’improvviso, e non ti spieghi come, vedi davanti a te uno
specchio. Ti alzi, gli vai accanto, ma non riflette la tua immagine.
No, i tuoi occhi vedono un ragazzino con un foglio in mano. “Questo è
per te, Reg”. Te lo pone in mano, tu leggi il titolo e capisci ogni
cosa. “Your song”. “Bernie!” ti volti e vedi il tuo paroliere, sbucato
dal nulla, diverso da come lo era nello specchio. Il volto è segnato
dagli anni, ora è un uomo, i capelli un po’ più lunghi. “Non so più chi
sono! Non voglio più essere Elton John! Voglio tornare Reginald
Dwight!”. Lui ti guarda e sorride. “Suona, ti stanno aspettando”. Tu,
sbalordito dalle parole di Taupin, inizi un brano che è leggenda. E
senti di nuovo gli applausi e il boato, mentre innanzi al tuo volto
vedi immagini di fans vestiti come te, proprio come te, la tua band
divertita in tour, tu e il tuo amico paroliere che fantasticate su un
futuro da star quando eravate poco più che ragazzini. Finisci questo
capolavoro e torni a rivolgerti a Bernie “Bernie, davvero non so più
che fare!” “Io ti sarò accanto per sempre… ma ricordati… tu sei Elton
John!”. La figura del poeta si dirada come una nuvola in cielo… “Non
andare via Bernie!” gridi, disperato, ma ti accorgi di parlare al
nulla. Ricordandoti delle ultime parole di Taupin, concludi cantando e
suonando un MUST di ogni tuo concerto, “Don't let the sun go down on
me”. Da brividi. Quando tocchi la nota conclusiva chiudi gli occhi e ti
perdi in un mondo fantastico… ma il fragore degli applausi ti riporta
alla realtà. Sei sul palco, di nuovo, acclamato come un Dio
dell’Olimpo. Saluti tutti, commosso, e vai via, pensando all’imminente
operazione alle corde vocali. La tristezza è grande, il magone di più,
temi di non poter più riprovare simili emozioni.
Non piangere, Reg.
Sii fiero di essere… Elton John.
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Songs From The West Coast
2010
40 (+1) anni d’ispirazione -
2001: DUE FENICI RISORTE
Lettera a due vecchi amici:
“Mi avevano detto che ormai Elton John non era più un
granchè. Che non poteva più ritornare come prima.
Mi avevano detto che i testi di Bernie Taupin non erano poi così geniali.
Mi avevano detto che la vostra è stata solo fortuna.
Mi avevano detto che non eravate all’altezza dei Beatles.
Mi avevano detto che non eravate geniali.
.........
Mi avevano detto che se la musica si era commercializzata era solo per colpa vostra...
Mi avevano detto che, comunque andasse a finire, avevate fatto qualcosa di sbagliato...
Mi avevano detto che Taupin doveva parlare di più, quando stava zitto...
Mi avevano detto che John doveva parlare di meno, quando parlava...
Mi avevano detto che Elton doveva fare 3 ore di concerto quando ne faceva 2...
Mi avevano detto che doveva essere più altruista dando spazio ai giovani…
Mi avevano detto che le liriche di Bernie erano “indigeste”…
Mi avevano detto che li pianista doveva cambiare paroliere…
Mi avevano detto che aspettarvi era da matti…
.........
Mi avevano detto che, cavolo, quand'è che se ne vanno in pensione?
Mi avevano detto che non avevate più voglia
Mi avevano detto che mentivate quando dicevate di averla...
Mi avevano detto che nel 2000 non avreste pubblicato alcun disco in studio…
Mi avevano detto che… dovevo smetterla di crederci…
Ma su Songs From The West Coast… bè, su questo album non dissero niente, cavolo…”.
Ai
piedi di Elton John e Bernie Taupin. 4 stelle e, se possibile, ci
aggiungo un mezzo. Disco eccellente, come non speravamo più di vederne.
Poco meno di 20 secondi per verificare quanto la personalità, nel mondo
della musica, resti un elemento distintivo per distinguere un bravo
cantante da una geniale rockstar. La fotografia di SFTWC è tutta
nell’abisso di un confronto con la musica moderna. 20 secondi, dicevo.
Sì, giusto il tempo di sentire l’intro pianistica, così simile a quella
del primo Elton. Mi chiedo “com’è possibile? E’ proprio lui!”. The
Emperor’s New Clothes è uno di quei brani che ti va volare con la mente
e richiama l’atmosfera “tumbleweediana”. E se non è un capolavoro
questo… erano anni, almeno una 20ina, che il Nostro non si cimentava in
qualcosa del genere. Siamo al secondo pezzo e questo si stacca un po’
dal motivo conduttore di tutto il brano, “Dark Diamond” ricorda
stilisticamente un funky/soul che non può lasciare indifferente alcun
ascoltatore (forse solo quelli di D’Alessio o Negramaro, ma questa è
un’altra storia….). Si ode, inconfondibile, l’armonica del grande
Wonder, e questo non può che confermare l’ottima riuscita della
canzone. Il cui testo, insieme al primo, lascia trasparire l’ottima
vena di un rtrovato Taupin, a dimostrazione del fatto che, ancora una
volta (ma quante volte lo dovrò dire???), quando il paroliere torna ai
suoi livelli (indiscutibilmente elevati), anche la musica di Elton si
trasforma. “Look Ma, no Hands” riprende il filo conduttore dell’album,
con un sound molto “West Coast”. Splendida in ogni sua nota, con quel
ritornello che ti fa ballare al primo ascolto… un altro capolavoro, e
siamo solo al 3° brano! Il testo tratta del cantante che chiede a sua
madre se è fiera di suo figlio, dopo che questi ha realizzato una
miriade di imprese da raccontare. Insomma, una grandissima canzone.
Matthew Shepard era un giovane ucciso brutalmente perché omosessuale,
lasciato moribondo legato ad uno steccato come un inquietante
spaventapasseri. Questa è la terribile vicenda raccontata in “American
Traingle”. Elton, che sicuramente sente in maniera particolare questo
brano, ha una profondià vocale che, ormai, si diceva “fosse andata”.
L’interpretazione del Nostro è da pelle d’oca, la sua musica affascina
ed inquieta allo stesso tempo. Il passaggio “Somewhere that road forks
up ahead to ignorance and innocence. Three lives drift on different
winds, two lives ruined, once life spent” fa venire I brividi. Il
testo, ma che lo dico a fare, risulta essere uno dei migliori scritti
da Bernie Taupin. Quindi, musicalmente un bel 9,8, ma il voto
scenderebbe globalmente senza il meraviglioso testo. Un’ennesima
dimostrazione di come la melodia di John e le parole di Taupin si
fondino perfettamente. Solo loro riescono a creare un’atmosfera così. A
proposito di atmosfere, “Original Sin” ne crea una tutta nuova, e si
basa sull’amore. E’ il pezzo, se vogliamo, meno impegnativo dell’album
(ma non scende sotto l’8), il testo è dolcissimo che va a completare
una ballata sicuramente ben riuscita, come non se ne vedevano da anni.
Il brano tratta di una storia d’amore finita in malo modo, e il (la)
protagonista riflette sul suo reale sentimento, che non cessa di
esistere, che non è morto con la relazione. Per la cronaca, è la sola
intro priva di pianoforte, ma si lascia ascoltare benissimo. Lo
scenario “cullante” viene sovrastato dalla frizzante “Birds”. Andamento
“country” e ritmo assai movimentato, in questo Elton ha fatto un ottimo
lavoro. Così come il suo paroliere, che ha scritto delle parole molto
belle per fare da cornice a questo pezzo riuscito ottimamente. “I Want
Love” potrebbe parlare della situazione passata del pianista di Pinner,
o di quella di Bernie, che ha perso fiducia nell’amore dopo aver
provato solo rammarico, delusioni e rabbia (con questo sono 3 i
divorzi) sposando questo sentimento. La musica richiama un’atmosfera
Lennoniana ai limiti del plagio, ma, non me ne vogliano i fans dei
Beatles, Elton ha qualcosa in più dei ragazzi di Liverpool… il brano è
diventato subito una hit, molto orecchiabile ma che lascia intravedere
la ritrovata ispirazione del duo che, in passato, non conosceva il
secondo posto. “The Wasteland” tratta la vicenda del geniale bluesman
Robert Johnson, il quale, leggenda dice, pare avesse stipulato un patto
con il diavolo barattando la sua anima con un’abilità chitarristica
fuori da ogni termine di paragone. Grande testo, musica azzeccatissima,
è uno dei brani portanti dell’album, a mio avviso, aggressivo e
graffiante, dal sound “rock”. La voce di Elton John mai così in forma
negli ultimi due decenni. Ma se vogliamo trattare l’ottima fusione tra
testo e musica, non possiamo che apprezzare e splellarci le mani per
applaudire il capolavoro assoluto che è “Ballad Of The Boy In The Red
Shoes” . Maestosa, imponente, strepitosa. Le parole scritte da Taupin
condannano l’ignoranza del governo americano retto da Ronald Reagan,
che prese sottogamba l’allora nascente problema dell’AIDS. La vicenda
parla di un ballerino, appunto, malato che vorrebbe tornare a fare ciò
che ama… cioè ballare. Ma è conscio che la sua vita sta per terminare
sotto i colpi di un male incurabile… e prega che qualcuno indossi le
sue amate scarpette rosse al suo posto. L’atmosfera di condanna si
rompe con “Love Her Like Me”, brano ben strutturato, interessante e il
cui testo si adatta perfettamente alla voce di John, che come sempre
riesce a dare emozioni indescrivibili. Un 8,5 non glielo toglie
nessuno. Forse, questo, è il vero capolavoro dell’album, “Mansfield”.
Mozzafiato, davvero, una canzone splendida e riuscitissima, il
pianoforte di Elton John ti catapulta all’interno della canzone e la
voce della rockstar è cullante come poche volte. A 25 anni di distanza
da “Blue Moves”, Bernie Taupin racconta la fine del suo 3° matrimonio
sotto i versi di una canzone. Il risultato è incredibile! “This Train
Don’t Stop There Anymore” chiude l’album. E’ un pezzo, questo, che
richiama particolarmente “Sweet Painted Lady”, splendido brano
(dimenticato dal pubblico, indimenticato dai fans) di GYBR. Molto
riflessivo il testo, che tratta delle vicissitudini della vita di Elton
John, anche il videoclip è particolare. Nel pianista si ri-intravede
tutta l’ispirazione che sembrava volata via con il vento e quella
genialità pianistica che nessuno potrà togliergli. Nessuno, neanche se
stipulasse il patto con il diavolo.
Grande merito per la
riuscita dell’album va, oltre che al mitico produttore Pat Leonard,
anche al paroliere Bernie Taupin, per cui, si è capito, provo
un’ammirazione particolare. Senza i suoi testi, la produzione di Elton
sarebbe stata per forza di cose meno ispirata e lo stesso Genio di
Pinner ci tiene a ricordare come la sua carriera, priva delle splendide
parole dell’amico-collega, sarebbe stata diversa. Molto diversa.
Parecchie, forse troppe, persone interpretano questa mia osservazione
come una presa di posizione, e tendono a sminuire gli enormi meriti del
paroliere. Boh. Secondo me, se un Genio è affiancato da un secondo
Genio, tutto non può che essere migliore. Invece, pare che questo
secondo Genio sia di impaccio. O scomodo.
Mi accingo a
concludere la recensione, quando una lettera scivola sotto la porta
della camera. Chi scrive sono “due vecchi amici”.
“This Train Don’t Stop There Anymore… We’re Still Standing !!”.
Bè, più chiaro di così…
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The Captain And The Kid
2010
40 (+1) ANNI D’ispirazione -
2006: un allungo nella leggenda
Nel
2006, Elton John e il suo collaboratore storico, Bernie Taupin, hanno
fatto più di un album che da gioia a loro e a tutti i vecchi fans. No,
molto di più.
Nessuno se n’è accorto, ma i due hanno fermato il
tempo. Magari saranno stati agevolati dagli anni, ma sissignori hanno
fatto proprio questo: non era il 2006, ma un giorno qualsiasi della
musica quando era soave, limpida, pulita, “vera”, insomma. Era quel
tempo in cui se si dava un’occhiata alle classifiche americane (ma non
generalizziamo più di tanto), si notava un solo album. Per settimane.
“Captain Fantastic & The Brown Dirt Cowoby”. Solo lui. Era la
solitudine dei numeri uno. E nel 2006 è successo qualcosa di
meraviglioso, almeno per chi ama la musica e più specificatamente Elton
e Bernie.
Elton John e Bernie Taupin avevano già deciso il nome, e
questo era già epica. Ricordi d'immagini di un Capitano tutto occhiali
e pellicce che cavalcava un pianoforte, sbalordendo tutti e
infastidendo parecchi. Ricordi d’immagini di un Cowboy introverso con
una colomba sulle sue gambe, che altri non era che la personificazione
del suo amore, mentre intorno a lui si staglia un mondo… fantastico.
Fantastico come il Capitano, e la favola che stavano vivendo insieme.
Il mito vuole che in quel momento i due passarono da storia a leggenda.
Anni dopo, 2006, Elton e Bernie sono diventati qualcosa di grosso e la
gente che puntualmente segue le loro storie se n'è accorta. Già prima,
senza dopo, perchè il tempo era fermo.
Ecco perché questo album ha
poco da invidiare ai suoi predecessori. Mai come questa volta il
paragone con il primo Elton è vicino. Passi la qualità (sempre
altissima), ma le analogie sono tante. Un modo per ricucire quella fama
di personaggio da TV, da gossip, da omosessuale impenitente. Sartoria
dei sentimenti. Suonano allora a pennello le parole di Taupin.
Non
ci sono gli altri. In questo tappeto rosso di emozioni, l'oro, oro
puro: le canzoni così belle che le vendite sono state pessime. Sì, non
è una contraddizione. Proprio come a dire: "basta così". Per suggerire:
"al giorno d’oggi la musica vera non è riconosciuta".
Bè, che John e
Taupin siano bionici è comprovato: nonostante i 40 anni di carriera,
mantengono al seguito fans da fare invidia a tutti gli pseudo-artisti
degli ultimi decenni. A proposito. Quando il tempo si ferma è un
déja-vù ed è stato proprio così: "Avevamo pensato ad un sequel di
CFABDC", hanno detto gli uomini che non hanno avuto paura delle mode.
In rima, per la musica.
La copertina. Diversissima da quella del
“genitore”. Sobria, non eccessiva. Niente piume, sfarzi, show. Solo un
pianoforte nero da compagnia per John e un cavallo per Taupin. Sì,
proprio a dire “siamo già leggenda, non dobbiamo dimostrare più nulla:
questo è per i fans”.
Al giorno d’oggi, non si può capire un album
così. Non è ai livelli degli anni 70s (quelli sono irraggiungibili… per
chiunque), ma un vero e proprio capolavoro degli ultimi 20 anni. Si
preparano ponti con l'immortalità per questo disco che se non avesse
avuto un precedente così… “fantastic”, sarebbe stato privo di senso per
molti.
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