di Stefano Orsenigo (2012)
Ogni
tanto, le popstar di un certo tipo danno in pasto ai fans oltranzisti
un album di remix, ma a quali fans può interessare un simile progetto a
firma Elton John? Oddio, spesso gli si rimprovera di aver flirtato con
l’elettronica negli anni 80 e 90, in realtà il fatto è che, a parte
qualche caso isolato, in quei dischi la si è usata nel modo più banale
e modaiolo, senza la minima creatività. Un album di remix poteva anche
avere un perché ai quei tempi, ma ha senso realizzarlo dopo The Union?
Anche al sottoscritto, che considera l’eclettismo una virtù, pare una
scelta demenziale.
Good Morning to The Night però è cosa altra e diversa: svariati brani
degli anni d‘oro, celebri o meno, vengono smembrati e remixati tra loro
in modo da formare composizioni del tutto nuove; si tratta di dettagli
sonori impercettibili (riconoscere tutti i singoli elementi è a volte
impossibile) come di interi ritornelli e strofe. L’idea, va detto, è
originale e innovativa, probabilmente senza precedenti nella storia del
pop: e qui sta l’inghippo, perché Elton fornisce solo la materia prima,
ma il lavoro sporco lo fa il duo australiano Pnau. Eppure il disco è
ufficialmente accreditato come “album di Elton John”, che da vecchia
volpe lo aggancia alle olimpiadi di Londra e lo fa uscire in piena
estate. Risultato: la prima #1 nell’album chart inglese dal 1990 (!),
una vittoria di Pirro che nel resto del mondo passa del tutto
inosservata.
Opera creativa e furbata commerciale in parti eguali quindi, dove, più
della title-track che macella Mona Lisas and Mad Hatters con Tonight in
un brano dance-house piuttosto raffazzonato, e del singolo Sad che
trasforma Curtains in un sottofondo da cocktail, vanno apprezzati altri
mostri di Frankenstein più simpatici: Black icy stare, in cui la solo
curiosa Solar prestige a gammon acquista punti con la nuova veste;
Foreign fields, gustoso impasto della meravigliosa High flying bird con
scaglie di Cage the songbird; Telegraph to afterlife, cioè Harmony e
Love song in versione trip-hop; Phoenix e la più azzardata Kamatron,
che rifanno rispettivamente Grey seal e Madman across the water senza
scandalo. Il fanalino di coda Sixty, mix strumentale di tre differenti
versioni di Sixty years on, sembra più che altro uno sbrigativo inchino
al pianoforte, strumento in grado di sopravvivere a ogni diavoleria
tecnologica.
Geniale o insopportabile a seconda dei gusti, il disco è perfetto per
un ascolto estivo spensierato (la media di questi otto brani è sui tre
minuti scarsi); bravi Pnau, hanno lavorato con passione e competenza,
ma questo NON è un album di Elton John, a meno che non lo si voglia
considerare un’appendice al suo ultimo periodo: dopo il ritorno al
passato, si riparte dal materiale classico e si crea qualcosa di
futurista. Volendo…volendo…
Voto 6+
|