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RECENSIONI FANS
da Jam - ottobre 2010
|
da Rockol
Elton John e i suoi abiti di Armani li conoscono tutti, ma chi è quel
tipo con il barbone bianco da santone e i capelli lunghi da vecchio
hippie che siede vicino a lui e al pianoforte a coda nella foto di
copertina? E’ un grande missing in action della musica rock, è il
“master of space and time”, lo stregone amico delle star che da giovane
suonò in centinaia di dischi di successo (da Frank Sinatra ai Beach
Boys, suo il piano elettrico in “Mr. Tambourine man” dei Byrds) come
membro di quella fantastica ciurma di session men losangeleni conosciuta
come The Wrecking Crew, per poi diventare il defilato direttore
d’orchestra di fantasmagorici spettacoli come il concerto per il Bangla
Desh voluto da George Harrison e il “Mad dogs and Englishmen” che
consegnò alla storia l’ugola ruggente di Joe Cocker. Insomma, è Leon
Russell, un mediomassimo del rock uscito dal ring di sua spontanea
volontà e che solo la cocciutaggine di Elton, suo devoto ammiratore e
discepolo, ha tirato fuori da un esilio autoimposto nel circuito dei
piccoli club prima che sia troppo tardi (è bastata una telefonata: i due
non si sentivano dalla bellezza di 37 anni!). Non se la passa troppo
bene, il sessantottenne Leon, se è vero che le sedute di incisione hanno
dovuto essere interrotte lo scorso mese di gennaio per permettergli di
sottoporsi a una delicata operazione di cinque ore e mezzo al cervello.
Ma è qui tra noi, e l’incontro tra lui, mr. Reginald Dwight, il
paroliere di fiducia Bernie Taupin e l’ormai ubiquo produttore T Bone
Burnett, negli Electro Magnetic Studios che quest’ultimo ha allestito a
Los Angeles, è un summit da consegnare alla storia. Il disco partorito
da questo epocale G4 è bello, ma – questione di gusto personale –
avrebbe potuto esserlo ancora di più: se solo Elton e Leon avessero
calcato meno la mano sul pop e più su quella “Cosmic American Music”
(come la chiamava il compianto Gram Parsons) che è sempre stata la
specialità di Russell, un minestrone saporito e genuino di blues,
country, soul, gospel e rock’n’roll che il cappellaio matto
dell’Oklahoma sa cucinare a meraviglia e che mr. Rocket Man ha
frequentato con profitto all’epoca dei suoi primi dischi anni ’70 per la
DJM di Dick James. Si dividono la ribalta da amiconi, i due: due voci
(quella di Elton sempre in forma smagliante, quella di Leon più fragile e
sofferente) e quattro mani sul pianoforte, strumento protagonista – non
è certo una sorpresa – di tutte le canzoni. E sono in ottima compagnia:
Neil Young presta la voce a “Gone to Shiloh”, epica ballata sudista che
rievoca una storica battaglia della guerra di Secessione e che sta
perfettamente nelle sue corde; Brian Wilson moltiplica la sua sullo
sfondo della malinconica “When love is dying”, canzone da crooner fuori
orario e con gli occhi stropicciati. La backing band è da sogno e
funzionale, senza smanie di protagonismo: Booker T Jones suona l’organo
come volesse riportare tutti nella congregazione, Marc Ribot pizzica la
sua chitarra magica con la solita parsimonia, Robert Randolph si tiene a
freno accarezzando la pedal steel, Jim Keltner pesta meno del solito
sui tamburi, Don Was si nasconde dietro il basso e un coro di voci nere
ammanta di gospel e spiritual l’album intero. “If it wasn’t for bad” non
è una partenza particolarmente memorabile, ma l’“Americana” in
cinemascope di “Eight hundred dollar shoes” e l’incalzante gospel funk
alla Staple Singers di “Hey Ahab” rimettono subito le cose a posto. C’è
un omaggio countreggiante al leggendario Jimmie Rodgers e un ruspante
r&b stile New Orleans che sembra firmato da Allen Toussaint (“Monkey
suit”), mentre un valzerone gotico che suona come una marcia funebre
(“There’s no tomorrow”) prende ispirazione dall’ “Hymn n. 5” di The
Mighty Hannibal e un trotterellante honky tonk come “A dream come true”
rievoca la stagione dell’outlaw country: riferimenti nobili e a tutto
campo, emozioni e divertimento assicurato anche se la scrittura qualche
volta è di di routine e proprio Leon ogni tanto fa fatica a tenere il
passo. Russell si mostra particolarmente a suo agio tra i morbidi ritmi
black di “Hearts should have turned to stone” e suona sinceramente
commovente nell’epilogo di “The hands of angels”, confessione disarmante
della sua fragilità e delle sue traversie di salute. Elton, al
contrario, sprizza energia e tira verso il lato più pop del disco dando
il meglio su “Never too old (to hold somebody”), una impeccabile ballata
nello stile classico di autori come Jimmy Webb. Dai tempi di “Songs
from the West Coast” (2001) e di “The captain and the kid” (2006) è un
po’ rinato anche lui, guardando al passato suo e altrui si è finalmente
smarcato dal pop vacuo e seriale di troppi dischi inutili. E dunque,
anche se “The union” non è forse tutto quel che prometteva d’essere,
grazie Elton. E grazie, Leon.
Alfredo Marziano
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da www.musicalnews.com
L’unione fa la forza: Elton John e Leon Russell insieme in un album
di Augusta Pippoli Mancini
L’album
dal titolo “The union”, in uscita il 19 ottobre, nasce
dall’apprezzamento di Elton John per Leon Russel e dal suo desiderio di
realizzare un disco lontano dai criteri della musica pop. Con questa
collaborazione sembra avere centrato questo obiettivo.
‘A 63
anni, rivela John, mi rendo conto che non sarò spesso nella classifica
dei singoli; adesso, per me, la cosa importante è comporre album e
cercare d’essere maturo. Leon è un mio idolo, lavorare con lui è stata
un’esperienza commovente. Fare questo disco è inutile se non metterà
sotto il riflettore il lavoro di Leon. Voglio che abbia una condizione
economica accettabile, voglio migliorare un pochino la sua vita. Tutto
quello che desidero per lui è quello di avere, nella sua vita, i
riconoscimenti che sembrano essere stati dispersi per lui negli ultimi
35 anni. Voglio che il suo nome sia sulla bocca di tutti, come lo è
stato.
I due artisti si stimano reciprocamente sin dal 1970
quando si sono incontrati per la prima volta. Dal suo sito ufficiale,
Elton scrive: ‘Non sottolineerò mai abbastanza quanto sia importante
l’influenza di Leon Russell sulla musica di Elton John e Bernie Taupin.
Nel 1970, quando siamo andati in America e ho suonato al Troubadour,
eravamo ossessionati dalla musica di Leon, e lo guardavamo come una
sorta di dio musicale. Nel secondo concerto al Troubadour Club di Los
Angeles lui era lì in prima fila, ma per fortuna non me ne sono accorto
fin quasi alla fine dello spettacolo, altrimenti sarei diventato
nervoso‘.
Leon Russel, 68enne con un originale look dovuto a
capelli bianchi candidi, barba lunga e un grande cappello da cowboy,
puro talento musicale, ha suonato per oltre 50 anni il suo rock, blues e
country infuso di gospel , ha collaborato con John Lennon, i Rolling
Stones, condotto il famoso tour di Joe Cocker “Mad Dogs &
Englishmen”, si è esibito con George Harrison al concerto di Bangla Desh
e nel 2006 ha ottenuto un riconoscimento alla carriera. Tra le sue
composizioni vengono ricordate la bellissima “A song for you”, “Delta
lady”, ripresa da Joe Cocker e “This masquerade”, incisa anche da George
Benson, interpretata in Italia da Mina nel suo cd doppio “Ridi
pagliaccio” e da Mia Martini in versione jazz.
Il disco “The
union” è stato registrato in sessioni dal vivo in studio con John e
Russell che fanno a gara con il piano, in una varietà di stili musicali
che spaziano dal soul al gospel con incursioni pop-rock e atmosfere
country. Si avvale di ospiti prestigiosi come Neil Young e Brian Wilson
con le loro partecipazioni vocali, preziosi musicisti e persino di un
coro gospel di 10 persone. Ai testi ha collaborato Bernie Taupin, da
anni il paroliere di fiducia di Elton John. Si dice che è un disco
bellissimo che raccoglierà molti consensi. Elton John spera che sia così
per potere dare seguito al progetto con un album successivo di cover.
Il
primo singolo estratto è “If It Wasn’t For Bad”, già disponibile su
Itunes. La produzione è di T-Bone Burnett: ha lavorato con Elvis
Costello, Tony Bennett e K.D. Lang. La copertina è stata realizzata da
Annie Leibovitz e Cameron Crowe che ha anche filmato le sessioni di
registrazione di un documentario, i cui dettagli sono ancora da svelare.
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Il Venerdì di Repubblica:
4 stelle
A quarant'anni dal loro pirmo incontro, i due artisti incidono un omaggio al blues
ELTON JOHN E LEON RUSSELL: PIù CHE AMICIZIA E "THE UNION"
La prima volta che
elton john incontra leon russel è l'agosto del 1970 : ha appena
23 anni ,è appena sbarcato negli USA con il primo tour
internazionale. Leon è al top della carrier ma, presto, lecose
si ribaltereanno: Elton diventerà il solista più
importante del decennio, Leon scomparirà.
C'è voluto
The Union perchè leon tornasse a fare musica " Era il mio idolo"
ha dichiarato Elton. E si capisce perchè questo cd, prodotto
magistralmente da T Bone Burnett e scritto in parte con Leon, suoni
come un album di quest'ultimo. La traccia che apre The Union, il
singolo If it wasn't For Bad, è di russell: è una ballata
con i fiati e cori gospel che ricordano quelli della sua band, gli
Shelter People. Tutto il disco,però, ha queste atmosfera: voci
nere, blues, fiati, piano. Il capolavoro è Gone To Shiloh,
cantata Elton, Leon e Neil Young (nel cd ci sono altri ospiti: Brian
Wilson e Booker T. in primis). E' una lenta marcia che racconta una
delle battaglie più sanguinose della Guerra di secessione.
Jimmie Rodger's Dream, dedicata a uno dei padri del country, ricorda
l'Elton di Dixie Lily; c'è l'Uptemo rollingstoniano di Monkey
Suit, il r&r di Hey Ahab e A Dream Come True. E, come si è
aperto, il cd si chiude con un pezzo scritto e cantanto interamente da
Leon, In The Hand Of Angels.
di Luca Valtorta
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da discoclub.myblog.it
Duelin' Pianos! Elton John & Leon Russell - The Union
Elton John & Leon Russell - The Union - Mercury-Decca/Universal CD+DVD
Non
sarà un capolavoro assoluto ma non è neppure un disco inutile. Una
giusta via di mezzo, un "Signor Disco" che riporta all'attenzione del
mondo quel signore dall'aspetto imponente giustamente definito un
incrocio tra "Dio e un profeta con un capello da cowboy" e quel "buffo"
inglese dalla capigliatura di un improbabile colore. E se poi, come ha
giustamente sottolineato Elton John, il disco servirà per assicurare a
Leon Russell una vecchiaia sicura, una sorta di meritata pensione, il
suo compito sarà stato svolto in modo egregio. Tutto iniziò un paio di
anni fa in un episodio della trasmissione Spectacle.
Anche se a
giudicare da quello che si ascolta in questo disco i due, Elton John 63
anni e Leon Russell 68 anni, sono quanto di più lontano ci si possa
aspettare da due "pensionati". Perché il disco è bello, molto bello:
sono quattordici brani (16 nella versione Deluxe) che ci riportano ai
gloriosi anni '70 quando Elton era un giovane pianista e compositore che
cercava fortuna in America e Leon era il suo modello, un grande
pianista già con una lunga carriera alle spalle come componente della
Wrecking Crew, il gruppo di musicisti che accompagnava abitualmente Phil
Spector nei suoi dischi, ma suonava anche con i Beach Boys, i Byrds,
Herb Alpert, aveva scritto Delta Lady per Joe Cocker, con il quale di lì
a poco avrebbe condiviso e guidato il tour di Mad Dogs And Englishman. E
tutto questo mentre gli anni '70 erano ancora ai loro albori. In quel
tour venne presentata anche Superstar che Leon Russell aveva scritto con
Bonnie Bramlett e la cantava Rita Coolidge che era stata la corista di
Delaney & Bonnie con cui Russell aveva lavorato (poi il brano
sarebbe diventato un grande successo per i Carpenters). Perché tutto ha
una sua sottile logica, come ho già detto in altre occasioni non sono
solo nomi buttati là, sono vite musicali intere che si dipanano davanti
ai nostri occhi, rappresentate da quei nomi.
Quando i due
incrociano le loro strade per la prima volta è sul palco del Troubadour
dove prenderà il via la clamorosa carriera di Elton John in America: in
quei concerti che diventeranno il Live 17-11-70 (e nei quali presentava
il materiale di Elton John e Tumbleweed Connection) Leon Russell era
l'artista che apriva i concerti ma nello stesso tempo era già un
"musicista per i musicisti", amato da Bob Dylan, George Harrison e Frank
Sinatra che l'avrebbero voluto con loro (per esempio nel famoso
concerto del Bangla Desh).
Quella geniale fusione tra rock,
canzone popolare americana, country, soul, musica di New Orleans che
scorreva nei solchi dei dischi di Leon Russell si sarebbe riversata in
quelli di Elton John che attraverso la mediazione dei testi di Bernie
Taupin avrebbe fatto quell'ulteriore scatto qualitativo che lo ha reso
in quegli anni uno dei pochi musicisti che faceva musica di grande
qualità vendendo tonnellate di dischi. Ma anche Leon Russell non
scherzava. Nel 1972 il suo album Carney sarebbe arrivato al secondo
posto delle classifiche USA (era quello con Tight Rope e This
Masquerade), ma poi contrariamente a quanto hanno riportato molti non è
iniziato l'oblio, i suoi dischi hanno continuato a vendere (meno) e ad
entrare nelle classifiche di vendita, per esempio il doppio dal vivo con
Willie Nelson, One For The Road è ancora entrato nei Top 30 delle
charts nel 1979.
Secondo le cronache questo è il 30° disco per
Elton John, ebbene se non ho fatto male i calcoli (raccolte escluse)
questo è il disco n°35 per Russell, quindi vedete che non era scomparso.
Certo, la vita non era più facile, se una volta suonava al Fillmore o
al Troubadour, ora per mantenere la famiglia si doveva accontentare
dello Snorty Horse Saloon di Springfield o del Gater's Sports Bar and
Grill di Gun Barrel City (giuro che esistono!) mentre ora per lanciare
il nuovo album si annuncia un concerto all'Hollywood Pavillion. E tutto
questo come ha riconosciuto Russell è tutto merito di Elton John. E di
T-Bone Burnett che ha prodotto questo disco in modo perfetto, adeguando i
suoi stilemi produttivi alla musica dei due. Quindi sempre quel suono
molto "vivo", organico, da registrazione Live, ma meno scarno e asciutto
del solito, più espansivo, con il giusto spazio per i pianoforti
"duellanti" dei due protagonisti ma con un suono molto arioso ed
avvolgente, quattro chitarristi tra cui Marc Ribot e la pedal steel di
Robert Randolph, una sezione fiati di quattro elementi, mandolino, altre
tastiere e alcuni ospiti di pregio, oltre ad una serie di voci
femminili (non accreditate e di cui non so dirvi il nome perché non ho
ancora il CD in mano) che creano quel sound da gospel secolare, bianco
che tanto caratterizzava i vecchi dischi di Leon Russell. Di cui ho
molto parlato ma di Elton John tutto si sa perciò era inutile
sottolinearne ancora una volta la bravura che, non è riuscito a
rovinare, con una serie di album imbarazzanti sparsi tra gli anni '80 e
'90 prima della rinascita artistica dell'ultima decade.
Qualcuno
ha detto che l'album in certi momenti ha un suono "commerciale" e non ci
vedo niente di male fino a che si rimane in questi limiti. Nessuno fa
dischi per non vendere (almeno credo, ma ci devo pensare). Se il disco
deve vendere per permettere quella vecchiaia serena a Russell cui si
accennava prima, che senso avrebbe avuto fare un disco solo elitario
destinato ad avere critiche fantastiche (e comunque le ha avute) senza
vendere una copia, con le pacche sulle spalle non si mangia, detto in
modo brutale, quindi non temete, non è una sòla pazzesca, T-Bone Burnett
ha mantenuto inalterate le capacità melodiche di Elton John e le ha
fuse con lo stile più ritmico di Leon Russell che peraltro è in grado di
scrivere ballate fantastiche come ha dimostrato in passato con la
meravigliosa A Song For You.
Mandalay Again che è una delle due
bonus nella versione Deluxe ne è un esempio: un brano cantato a due voci
e suonato a quattro mani, è una canzone commerciale, facile ma di
grande fascino (c'è un bel mandolino) , mentre la bellissima Gone To
Shiloh rappresenta il lato più ricercato, una canzone che non ha nulla
da invidiare alla A Song For You citata prima, una ballata pianistica
sulla Guerra Civile Americana dove le voci di Russell, prima e quella di
Elton John poi si amalgalmano a meraviglia con quella di Neil Young che
canta alcuni versi del brano. Occhio a questa versione dal vivo
registrata il 16 ottobre con la partecipazione di un altro "biancone",
il grande Gregg Allman. Lo spettacolo, di T-Bone Burnett, si chiama, The
Speaking Clock Revue e su Youtube ne trovate parecchi altri brani!
Ma
anche Hearts Have Turned To Stone con la sua andatura gospel-rock
sottolineata dalle voci femminili e dai fiati è un ritorno alla miglior
forma degli anni '70, per non parlare dello stupendo brano country con
tanto di pedal steel intitolato Jimmie Rodgers' Dream (non dimenticate
che Leon Russell, nel suo alter-ego Hank Wilson ha dedicato 4 dischi
alla musica country oltre alle sue collaborazioni con Willie Nelson e
Elton John ha dedicato alla musica americana quella meraviglia che si
chiama Tumbleweed Connection).
Ma tutto inizia bene sin dal primo
brano If It Wasn't For Bad, introdotta da un piano solitario e dalle
voci delle coriste, poi entra la voce di Russell sostenuta da quella di
Elton e ti rendi subito conto che sarà un bel viaggio per l'ascoltatore.
La
melodia di Eight Hundred Dollar Shoes scorre dalle mani di Elton John (
e di Russell) e dal suo piano con la fluidità delle armonie dei brani
di Madman Across The Water, veramente una delizia sonora. Hey Ahab con
quei due rolling pianos che si rispondono dai canali dello stereo
conferma la ritrovata vena di Elton John che sembra avere anche a
livello vocale la convinzione di un tempo e non si preoccupa più di
dover creare l'hit single, la Crocodile Rock del momento, ma solo della
buona musica e ci riesce alla grande. La bluesata I Should Have Sent Her
Roses scritta dall'inedita coppia Russell-Taupin è un altro ottimo
esempio della ritrovata vena compositiva dei due vecchi amici mentre
Elton John indica in There's No Tomorrow il suo brano preferito del
disco e chi siamo noi per opporci. In effetti è un altro di quei brani
che ti fanno capire quanto bravo sia stato il Signor Reginald Dwight nel
passato e quanto possa esserlo ancora. Credo che quella sorta di slide
che si sente verso metà brano sia creata dall'infernale pedal steel di
Robert Randolph mentre le voci maschili e femminili "testimoniano" da
par loro.
Brani brutti non mi pare di ricordarne, per cui direi
che l'imperativo è acquistare, acquistare, acquistare e fare felice (e
più ricco) Leon Russell e per proprietà transitiva anche il buon Elton
John. Veramente un Signor Disco.
Ultima curiosità, il regista del DVD allegato al CD è il famoso regista (e appassionato di musica) Cameron Crowe.
Bruno Conti
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da www.ilsussidiario.net
ELTON JOHN & LEON RUSSELL/ "The Union", l'eco di un'America che non
esiste più
Paolo Vites lunedì 25 ottobre 2010
L’immagine
è ben nota, almeno a tutti quelli di una certa età. I capelli lunghi,
anzi lunghissimi, tra l’argento scintillante e l’azzurro dato dalla luce
dei riflettori. La barba, il ghigno demoniaco e la canottiera. La voce
graffiante, nasale, non una bella voce, ma una “voce”, di quelle che si
imprimono nel cuore. La musica che aumenta sempre più il ritmo e lui che
si alza in piedi dal pianoforte dove sedeva, e battendo le mani si
lancia in una danza esaltata ed esaltante.
Sono le immagini di
cui ci siamo nutriti ai tempi in cui i grandi della musica rock in
Italia non ci venivano e quando ci venivano si beccavano una molotov tra
i piedi, sul palco. Erano gli anni 70, e per chi amava la musica rock
toccava andare al cinema per averne la giusta dose. Il signore di cui
poc’anzi era Leon Russell, colto nella pellicola del memorabile "Concert
for Bangladesh" organizzato nel 1971 dall’ex Beatle George Harrison.
Leon
Russell in quel primo scorcio dei 70 fu straordinario interprete,
compositore (la sua Delta Lady fu incisa anche dalla nostra Mina),
ispiratore: guidò - per quei pochi anni che durò - la folle carovana del
cosiddetto “country soul”, il soul dei bianchi del sud degli States.
Un
intelligente e trascinante cocktail dei migliori umori musicali di
quella parte d’America tra musica country e dosi stordenti di soul dei
neri. Russell in quel periodo è la guida spirituale e artistica del Mad
Dog and Englishmen Tour, quello che consacra il giovane e selvaggio Joe
Cocker, e poi va con Delaney And Bonnie, duo moglie e marito che incantò
grandi musicisti come Eric Clapton e George Harrison tanto che
lasciarono la fredda Inghilterra per esibirsi con loro.
Un
momento musicale esaltante, ma Russell era un nome noto agli intenditori
già dagli anni 60, quando come session man lavorava per Phil Spector.
Addirittura, è lui che suona nel primo singolo dei Byrds, Mr. Tambourine
Man, perché loro erano troppo impacciati per farlo.
Più di
trent’anni dopo, l’incontro, magico e meraviglioso, accade di nuovo. E
scocca la scintilla della grande musica. Oggi di Leon Russell non si
ricorda quasi più nessuno, è stato anche gravemente malato, il music biz
lo ha lasciato indietro. Di Elton John invece ancora tutti, o quasi, si
ricordano. Ed è proprio Sir Reginald, da sempre innamorato della musica
dell’America più profonda e genuina (non pensate all’Elton John
ridicolo e cocainomane degli anni 80 e 90, per favore; cercate di
pensare a quello straordinario autore di canzoni formidabili che fu nei
primi anni 70) che è andato a riscoprirlo e lo ha invitato a incidere un
disco di purissimo country soul.
Si chiama “The Union”,
l’unione, ed è un tuffo nel passato ma con la freschezza di chi ha
ancora il cuore spalancato alle gioie della musica. Elton John,
dicevamo: quello di dischi come “Tumbleweed Conenction”, “Madman Across
the Water”, “Honky Chateau”, “Caribou”, tutti incisi in una manciata di
pochissimi anni, tra il 1970 e il 1974. Opere dove la genialità di Elton
John pescava nella musica dixie di New Orleans, nel folk, nel
rock’n’roll primigenio, nel soul, nel gospel. E con “The Union” tutto
questo torna mirabilmente alla superficie.
Accompagnati da un
sontuoso coro gospel, da ospiti eccellenti come Neil Young e Brian
Wilson, i due lasciano fluire una capacità di creare grandi canzoni
ancora incredibilmente intatta. Non c’è più la giovanile esuberanza
naturalmente (anche se la coda strumentale della trascinante Moneky Suit
farebbe l'invidia a tanti giovinetti della musica d'oggi): entrambi
over 60, offrono una serena meditazione su quello che la vita ha offerto
e ancora ha da offrire. Fondamentale l’aiuto di un produttore
eccezionale come T Bone Burnett, recentemente anche con Robert Plant. Su
tutte la malinconica ballatona Gone to Shiloh, quella dove appare Neil
Young.
Una malinconia bellissima, autunnale, persa nello scorrere
del tempo, per rievocare la pagina di una storica battaglia della
guerra di Secessione. Altri ospiti che appaiono nel disco sono lo
straordinario suonatore di “sacred pedal steel”, la pedal steel che si
suona in chiesa, il nero Robert Randolph e nientemeno che il re del pop,
mr Brian Wilson, il genio dietro ai Beach Boys. Ma anche l’eclettico
chitarrista Marc Ribot,il tastierista Booker T e il batterista Jim
Keltner.
Quello che fuoriesce è musica dalle mille sfumature,
profondamente americana, soprattutto negli accenti gospel, ma mediata
dalla attitudine pop di Elton John. Lui e Leon Russell si scambiano le
parti, duettano sui tasti dei pianoforti e alle voci, creano canzoni
solide come una quercia del vecchio Sud. In Eight Hundred Dollar Shoes
Elton John si permette anche il lusso di citare “The winter of my
discountent”, l’ultima novella di John Steinbeck - che a sua volta
citava Shakespeare, peraltro - a dimostrazione di come questo disco sia
un tributo a un’America che non c’è più. La stessa Gone to Shiloh, per
musicalità e ambientazione lirica, ricorda i capolavori che incise un
tempo The Band, il gruppo spalla di Bob Dylan, che cantavano appunto
dell’America sbandata del dopo guerra civile.
Un disco che si
apre con la bella If It Wasn’t For Bad, di Russell, e prosegue tra
sonorità un po’ bluesy, un po’ da crooner (la bellissima When Love Is
Dying che riaccende le luci di una New York al neon di fine degli anni
40). Ci sono gli incalzanti rock’n’roll che grondano sentimento New
Orleans (Monkey Suit), funk trascinanti come Hey Ahab, divertenti
incursioni nell’honky tonk, e finanche il tributo alla leggenda della
country music in Jimmie Rodger’s Dream.
E tanto altro come la
commovente The Best Part of the Day, idealmente dedicata allo socmparso
pianista di The Band, Richard Manuel. Fino al finale - da paura - di The
Hands of Angels: solo Leon Russell, la sua voce, il suo pianoforte e un
coro gospel che sembra essere quello dei santi dell’ultimo giorno e
davvero le mani degli angeli sembra di toccarle. E si capisce allora il
senso di parole come quelle che ha detto lo stesso Leon Russell a Elton
John dopo avergli permesso di incidere insieme questo disco: “Grazie per
avermi salvato la vita”.
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da http://www.ilgiornale.it
Così Elton salva l’amico Russell, ex star che suona per due soldi
di Antonio Lodetti
Tramontato
il mito di sesso droga e r’n’r, ora c’è chi fa buona musica per
riconoscenza verso un vecchio idolo-amico che non se la passa troppo
bene. Lo fa Elton John lanciando l’album Union insieme al glorioso e
scombiccherato genio Leon Russell. Le due star l’hanno presentato dal
vivo l’altro ieri al Beacon Theater di New York. Elton ha esordito
dicendo: «Da giovane Leon era il mio idolo e mentore, volevo diventare
come lui». Poi, in un trionfo di applausi, è arrivato Leon, lentamente,
appoggiandosi ad un bastone. Una bella storia di riconoscenza. L’allievo
che rilancia il maestro dopo quarant’anni. Il prode Elton lo conoscono
tutti e non ha mai fatto nulla per passare inosservato; Leon è stato il
cappellaio matto del rock. Oggi, a 68 anni, lo vedete panciuto e provato
dalla vita ma dai lunghissimi capelli candidamente bianchi. Gli
appassionati d’antan lo ricorderanno vigoroso polistrumentista, magro
come un chiodo, con improbabili tube sulla testa, animare
donchisciottesche avventure con Joe Cocker come Mad Dogs & The
Englishmen, scrivere successi come Delta Lady (sempre per Cocker),
colorire con piano e chitarra - ma non solo perché era una specie di
direttore d’orchestra rock - i brani di John Lennon, Tina Turner, Bob
Dylan, Frank Sinatra, Beach Boys e mille altri (lo trovate dappertutto,
per esempio suona il piano nella celeberrima versione dei Byrds di Mr.
Tambourine Man).
Eminenza grigia del mondo rock, Russell ha stregato
il pianista inglese fin dal 1970, quando Elton debuttò fragorosamente in
America a Los Angeles, Leon era già quello da imitare. «Non
sottolineerò mai abbastanza quanto sia stata importante l’influenza
della musica di Leon su di me - dice Elton -; quando sono arrivato in
America ero ossessionato da lui e lo guardavo come un dio. Nel secondo
concerto al Troubadour lui era là in prima fila, per fortuna non me ne
sono accorto fin quasi alla fine dello show, altrimenti mi sarei
innervosito». «Andai ad ascoltarlo - sottolinea Russell - perché non
esistevano cantanti soul bravi dopo i Righteous Brothers, e lui era
incredibile». Poi l’incontro, la tournée insieme, e due strade che si
biforcano, una verso il glamour e la gloria, l’altra verso l’impegno (ad
esempio il Concerto per il Bangladesh con Harrison), entrambe verso gli
eccessi. Ma Elton, 63 anni - nonostante crisi e guai che non si fa mai
mancare - è sempre sulla cresta dell’onda. Leon Russell invece, una vita
vissuta sulla corsia di sorpasso, rischiava di cadere nell’oblio. Un
tempo riempiva il Madison Square Garden e le sale più prestigiose, oggi
va in giro su un pullman scassato con la sua band e si esibisce in
oscuri e selvaggi club della provincia americana, dove birra e whiskey
scorrono a fiumi, come il Knuckleheads di Kansas City o il Tavern On the
Maine a Wise, nel profondo Wisconsin.
Elton non poteva permettere
tutto ciò. L’anno scorso, mentre trascorreva il consueto capodanno in
Africa, riascoltò un cd di Leon e scoppiò a piangere. Dopo qualche
giorno gli telefonò dicendo semplicemente: «Facciamo un cd insieme?».
Con lo stesso candore Leon rispose: «Ero a letto nella mia casa di
Nashville e non avevo nulla da fare se non guardare la tv, dissi subito
sì». Così è nato un cd - con la collaborazione tra gli altri di Neil
Young, Brian Wilson, Marc Ribot - che con la forza dell’amicizia e
dell’ispirazione ha superato qualunque avversità: anche la malattia di
Russell che durante la registrazione è stato operato al cervello ma ora è
di nuovo lì, che canta In the Hands of Angels mentre Elton si commuove.
È un gran disco, che unisce i generi dribblando il pop di facile
ascolto: «Qui non ci sono brani da classifica - puntualizza Elton - è un
album per adulti. Una serie di brani di qualità che spero garantisca un
futuro migliore a Leon; voglio che guadagni tanti soldi e che non debba
più viaggiare cinque giorni la settimana per far sentire il suo rock a
poca gente. Deve tornare una star conosciuta da tutti». Intanto la
strana coppia è partita in tour, e Elton progetta già un cd con
orchestra, brani degli anni ’50, lui al canto e Leon alla voce. Una
storia da libro Cuore, e in più la qualità c’è, e tanta.
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da http://blog.ilgiornale.it/giordano/2010/10...oba-da-giovani/
Se la musica per vecchi è roba per giovani
di Paolo Giordano
No,
no, di più non si può fare. Questo è un album suonato sostanzialmente
dal vivo, con quel brivido che solo il frizzicare di un amplificatore
acceso provoca in qualsiasi musicista. In questi, poi: Elton John ha
perso il barocchismo stantio su cui si crogiola da un bel po’ (a parte
nella manieristica When love is dying con troppo Bernie Taupin dentro). E
Leon Russell, praticamente una leggenda e praticamente ormai un
fantasma (visto che capelli bianchi e lunghi??), suona e canta come un
esordiente, frenetico e vibrante e ben consapevole che la va o la spacca
e lui, dopo esser stato sottobraccio quarant’anni fa a Jerry Lee Lewis e
Bob Dylan, rischia di tornarsene a suonare in localetti scrostati tipo
il Snail Pie Lounge di Glenville. Ecco, questa è la chiave di The Union:
la resurrezione, la catarsi, il bisogno insomma di togliersi di dosso
paure, rimorsi, condizionamenti, noia. Insomma, The Union è potente e
libero perché se ne frega dei generi musicali e li mescola tutti, specie
quelli nati di qua e di là dal Mississippi, il country, il gospel,
naturalmente il soul e poi il rock’n’roll ma solo quello honky tonk, uh
mamma mia, con la timbrica dei pianoforti verticali suonati dai pianisti
spiegazzati nei saloon del Far West. E sembra proprio di entrarci con
gli speroni ancora impolverati, mentre inizia l’incontenibile Hey ahab,
che piacerebbe pure agli Allman Brothers, oppure quando il coro
accompagna le voci di Hearts have turned to stone, con quel suono
bruciante che solo dischi come Exile on main street dei Rolling Stones
sono riusciti ad afferrare. Dai, se non è una gioia questa. E un po’
(solo un po’) del merito è del cast stellare che accompagna questi due
sessantenni. Fosse un film, ci sarebbero Meryl Streep, Robert De Niro,
Leonardo Di Caprio, Robert Redford, Al Pacino tutti insieme. Qui c’è un
produttore favoloso, T Bone Burnett, strumentisti fuori dal comune come
il geniale chitarrista Marc Ribot o il batterista Jim Keltner, in Gone
to Shiloh canta anche Neil Young e Brian Wilson (dicesi Brian Wilson dei
Beach Boys) fa i cori in When love is dying. E poi sì, poi basta.
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da www.menstyle.it
Elton John e Leon Russel: The Union
di Carlo Mandelli
Incontro,
o meglio unione, tra giganti della musica che se le suonano in note, ma
allo stesso angolo del ring. L'incontro in questione è quello tra Sir.
Elton John e Leon Russel, ovvero due mostri sacri della musica mondiale
che per una volta hanno deciso di unire le forze e vestire i panni dei
collaboratori per dare alle stampe The Union, fatica discografica
firmata a quattro mani dai due artisti della musica suonata e cantata.
L'album in questione è uscita il 26 ottobre.
A produrlo ci ha
pensato il premio oscar T-Bone Burnett, che poi è lo stesso che negli
scorsi anni ha messo mano alla produzione di altri duetti tanto inediti
quanto di successo, su tutti quello tra Robert Plant ed Alison Krause
per Raising Sand. Se per Elton John non sono necessarie presentazioni, è
utile invece ricordare chi è Leon Russel, ovvero uno tra i nomi di
culto del rock staunitense, barbuto cantante, musicista e compositore in
attività dagli anni Sessanta e, per capirci, lo stesso che ha messo la
firma su un pezzo come Stranger In A Strange Land, la stessa che poi è
finita anche in un espisodio della serie tv Dr.House.
In realtà, i
due si conoscono da un bel pezzo, esattamente dal 1970, quando Russel
mise piede come musicista sul palco del primo tour americano del nuovo
"socio" Elton. "Nei tardi 60 e primi 70 - ha raccontato a proposito
l'autore di Rocket Man - il pianista e cantante che mi influenzò più di
chiunque altro fu proprio Leon Russell. Era il mio idolo".
Per
mettere su nastro le registrazioni del nuovo album, i due si sono
ritrovati in studio, entrambi al pianoforte, pensando a una serie di
brani che spaziano tra i generi, dal soul all'r'n'b, passando dal
gospel, dal country, dal pop e fino al rock più classico. Tanti anche
gli ospiti chiamati per l'occasione a mettere lo zampino tra una traccia
e l'altra: tra i tanti ci sono anche Neil Young, Brian Wilson,
l'organista Booker T. Jones, il chitarrista di steel Robert Randolph e
un coro gospel al gran completo.
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da www.ilfattoquotidiano.it
Elton John & Leon Russell: Unici & rari
di Sergio Mancinelli
“Grazie per avermi salvato la vita”. Con queste parole, guardandolo negli occhi il vecchio Leon Russell ha espresso a Elton John la sua gratitudine.
Ma dietro a un’affermazione così forte e sincera c’è anche una
reciproca mutualità. Elton John ha ridato speranza a Leon, non solo
artistica, ma anche economica e di serenità e quest’ultimo ha ridato un
senso alla musica di Elton John.
Si erano conosciuti 40 anni fa. Leon Russell era all’apice della sua
parabola, suonava nei dischi di Sinatra come in quelli dei Beach Boys,
di Eric Clapton, come in quelli di Bob Dylan, accompagnava la voce di
Joe Cocker e dirigeva il suono per il Concerto del Bangladesh di George
Harrison.
Elton John era appena sbarcato in America per cercare
di dare avvio alla sua carriera in terra americana e doveva aprire il
concerto di Russell, di cui era grande ammiratore, al Fillmore East, il
tempio rock di New York.
Dopo quella sera non si erano più
visti, nel frattempo Elton John ha venduto oltre 250 milioni di dischi,
mentre Leon Russell è entrato nel cono d’ombra dei reduci del rock, fino a una mattina di pochi mesi fa.
Dal Sudafrica Elton John ha chiamato il “cappellaio pazzo
dell’Oklahoma” proponendogli di realizzare un disco
insieme. “40 anni fa ascoltandoti, ha esordito, hai dato un
senso alla mia musica, adesso è giunto il momento di ridare un
senso alla tua”.
In sala di registrazione accompagnati dalle chitarre di Marc Ribot, la
batteria di Jim Keltner e il basso di Don Was, praticamente il meglio
del meglio, c’erano questi due pianoforti, uno di fronte all’altro e
quattro mani. Due morbide, due ancora funamboliche inseguivano note su
note.
Ne è venuto fuori un disco: “The Union”
che sa tanto di anni 70, un disco fatto in libertà e per il gusto di
fare musica, due modi diversi di suonare, quello più gospel e soul di
Russell e quello più pop ed europeo di Elton John. Un disco che più di
“unione” sa tanto di “fusione”.
In sala tanti amici sono andati
a trovarli, Dylan, Mc Cartney e Ringo, Brian Wilson e Neil Young che si
è anche fermato a cantare questo pezzo, uno dei più intensi dell’album,
tutto incentrato sulla più famosa battaglia della Guerra di Secessione.
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da /www.xtm.it
Elton John & Leon Russell
The Union
2010
Mercury
Ivan Nossa
Circa un anno fa durante un safari in Africa Elton John ascolta dall’Ipod del suo compagno una canzone di Leon Russell,
suo idolo negli anni ‘70 ed oggi pressoché dimenticato dal music
business. Elton si emoziona profondamente e decide di telefonare a Leon,
che si trova in condizioni disagiate sia economiche che di salute, e
gli chiede “che ne dici di fare un disco assieme?”. Più o meno
l’avventura è iniziata così, telefona poi ad uno dei produttori che più
ammira, T Bone Burnett, vincitore di infiniti premi ed
anch’egli si dice entusiasta e pronto a partecipare. Questa
collaborazione porta alla pubblicazione di “The Union” un album a due voci e due pianoforti.
Tutte le canzoni sono scritte da Elton, Leon e Bernie Taupin,
storico paroliere di Elton, ed un paio con il contributo di T Bone
Burnett. E’ un disco profondamente umano, vissuto, sudato. A tratti
malinconico, a tratti romantico, a tratti incazzoso. La vita e le
esperienze di due grandi musicisti sembrano esplodere in un disco che
tira le somme di quella che è stata la loro storia personale e che ora
sembra ritrovare voglia di vivere e sognare tra i tasti di ebano ed
avorio. Generi musicali diversi passano attraverso questo album, dal
blues al soul, dal country al rock, dall’r&b al gospel. Le influenze
del sud degli Stati uniti si percepiscono ovunque. Fondamentalmente è
il disco di due pianisti che amano e vivono il loro strumento. Ogni
canzoni ha una propria anima vibrante nata e cresciuta al pianoforte.
Il disco viene registrato in presa diretta, con due pianoforti e un coro gospel di 10 elementi. Neil Young e Brian Wilson
sono ospiti illustri. I brani migliori sono quelli dove Elton da libero
sfogo al suo magistrale piano playing con ritmi rock e gospel. “Hey Ahab” è un pezzo trascinante, con un finale memorabile, e sulla stessa scia sono “Monkey Suit” e la straordinaria “There’s No Tomorrow”. Canzoni che vivono di voci gospel ed emozioni direttamente uscite dalla pancia.
Altre sono molto più simili al repertorio più recente di Elton, la trasognante “The Best Part Of The Day” e “When Love Is Dying” sfoggiano armonie dolci e voci calde. “Gone To Shiloh” è una poesia in musica che ci riporta ai migliori testi di Bernie Taupin. Chiude l’album “In The Hands Of Angels” commovente brano del solo Leon scritto per ringraziare chi gli ha donato nuova vita riportandolo a suonare e comporre.
Le
due voci, sebbene molto diverse tra loro, si amalgamano perfettamente,
profonda quella di Elton, tagliente quella di Leon. Due vecchi amici
ricchi di storie da raccontare tra il piano bar e una chiesa del sud
degli Stati Uniti. Sabbia del deserto che si appoggia su un vecchio
pianoforte, voci che escono urlando dal delta del Mississippi. Questa è
l’immagine che lascia il disco.
Se avete la possibilità guardatevi i
clip live su Youtube che rendono giustizia alle canzoni ed allo spirito
con cui sono state create.
Il disco è bello, la produzione
superba riesce a dargli una caratterizzazione unica. Attenzione:
potrebbe non piacervi al primo ascolto, ma ad ogni ascolto successivo
rischiate di innamorarvi di un disco, che seppur privo di novità, porta
la musica che già conosciamo a livelli altissimi. Il debutto al 3° posto
della classifica Billboard americana ci annuncia il successo di un
disco molto atteso e di due artisti molto amati. Sicuramente la migliore
musica di Elton da anni.
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da http://www.chiesacattolica.it
di Franz Coriasco
Amici
fin dai primi anni ’70, Elton e Leon (quasi 130 anni in due…) hanno
sfornato uno dei dischi più belli di questi ultimi tempi: tredici nuovi
brani, vestiti di suoni antichi e sempiterni: blues e boogie, country e
gospel. Un disco al di là del tempo e delle mode, inciso quasi dal vivo,
prodotto da quel “moderno tradizionalista” che è T. Bone Burnette ed
impreziosito da eminenze come Neil Young, il leggendario organista
Booker T. Jones, e Brian Wilson.
Da un tale ensemble non poteva che
uscire un capolavoro di straordinaria energia, passione, classe e
purezza: capace di dimostrare meglio di mille parole come la vera musica
non abbia bisogno di chissà quali novità o effetti speciali per passare
dalle orecchie al cuore.
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Onda Rock
“The Union” meriterebbe il sottotitolo di “la
classe operaia va in paradiso”; difatti Leon Russell è una delle
storiche manovalanze del rock, un fantasioso e dotato polistrumentista,
compositore e arrangiatore che ritorna sotto i riflettori grazie
all'amico Elton John.
Scoperto da Phil Spector, non mancò di onorare
la sua fiducia con splendide intuizioni che resero immortali le
performance di molti artisti come Joe Cocker (sua la celebre “Delta
Lady”), Bob Dylan, Eric Clapton, B.B. King, Byrds, Frank Sinatra, Beach
Boys, Badfinger etc, etc….
Nonostante un grande successo (“A Song
For You” inclusa nel suo primo album) e un eccellente album solista
(“Carney”), la sua fama si eclissò; dopo oltre trent'anni, una
telefonata di Elton John strappa il velo di abulia che aveva oppresso
Leon e con l’aiuto di T-Bone Burnette prende corpo il progetto “The
Union”.
Nessuna operazione-nostalgia in queste sedici canzoni
(quattordici nell’edizione retail), nessuna parodistica esibizione di
cliché o luoghi comuni del rock, ma sedici canzoni dalla scrittura
intensa e raffinata, tra pianoforti piroettanti ricchi di ritmo e brio,
con robuste atmosfere country blues imbrunite da cori gospel e
performance strumentali di grande ingegno (Marc Ribot, Jim Keltner, Jay
Bellerose).
Un nugolo di preziosi ospiti (Booker T. Jones, Neil
Young, Brian Wilson, Don Was) contribuisce a rendere “The Union” non
solo uno dei migliori album di Elton John e Leon Russell, ma anche uno
dei migliori album degli ultimi tempi.
"The Union" non è un atto
di riconciliazione con il pubblico, è invece un vero pugno nel cuore, un
coacervo di intensa musicalità che raramente si associa ai vecchi
protagonisti della epoca d'oro del rock.
Sedici delizie, a partire da
“Jimmie Rodgers’ Dream”, un puro country alla “Tumbleweed Connection”
reso ancor più incisivo dal delizioso duetto vocale e dalla splendente
steel-guitar di Russ Pahl; eccelle anche “Hey Abab”, vigoroso
rock'n'roll che rende esplicito il debito artistico di Elton per Leon,
con la voce di Reginald che si tinge di scuro mentre la musica rinnova
il sex-appeal artistico di Russell con un grintoso mix di gospel,
rock’n’roll e blues che sfiora l'estasi da jam-session.
Il timore che
l’album crolli nei momenti più romantici viene soppresso dalle note di
“When Love Is Dying”, che reclama lo status di instant classic e gode
dei vocalizzi di Brian Wilson, ma ancor di più stupisce e incanta “Gone
To Shiloh”, una delle più belle canzoni scritte da Elton John in tutta
la sua carriera, un malinconico blues sulla guerra civile americana
cantato a tre voci con Neil Young: l’atmosfera drammatica non concede
tregua emotiva, l’incedere solenne e un intenso corpo armonico,
raccontano con acuta sincerità l’America dei losers, delle strade di New
Orleans, dei piccolo eroi quotidiani che animavano le canzoni della
Band.
Non va dimenticato il prezioso contributo del produttore T-Bone
Burnett, la sua passione per un suono puro e naturale fa vibrare anche
le ballad dai confini più prevedibili, come il flusso gospel-pop di
“There’s No Tomorrow” e il romanticismo alla Taupin-John di “Eight
Hundred Dollar Shoes”, ma è innegabilmente il suono orchestrato da
T-Bone Burnette che tira fuori l’anima boogie-woogie di “Monkey Suit”,
incalzante e robusto rock alla Rolling Stones, ed estrae altresì il
corpo funky-New Orleans di “If It Wasn’t For Bad”, rendendo poi
policromo lo splendido tocco shuffle della contagiosa e irrefrenabile “A
Dream Come True”.
La genesi dell'album è molto stimolante e
interessante, l'affiatamento tra i due musicisti e il produttore T-Bone
Burnett ha spinto Elton e Leon a registrare gran parte dell'album live
in studio, recuperando le sonorità e l'ispirazione che ha reso celebri
le due star del rock.
Suona perciò ancor più corposo e palpitante il
mix di basso (Don Was) e fiati nel festoso country-blues "Hearts Have
Turned To Stone" - scritto dal solo Leon Russell - dove i cori e
l'organo di Booker T. Jones profumano di riscatto storico e culturale.
Tra
ceneri e spettri, si snoda il gospel funebre "There’s No Tomorrow", che
prende spunto da un brano di James Timothy Shaw del 1966 (Hymn N°5) e
archivia un'altro trionfo dei due pianisti, che fanno vibrare le loro
voci all'unisono in uno splendido gospel-blues, rendendo difficile per
l'ascoltatore coglierne le peculiari differenze vocali.
Mentre "The
Best Part Of The Day" scivola con classe e senza brividi, "I Should Have
Sent Roses" colpisce per la grazia da romanza spalmata su strali di
soul alla Stax e per l'interpretazione svogliata e nostalgica di Leon
Russell.
Con la stessa leggiadria e indolenza si distende "In The
Hands Of Angels", il cui impianto emozionale è integralmente sorretto
dal piano.
Due tracce sono state sacrificate per l'edizione
retail dell'album (mentre sono presenti nella versione cd+dvd e in
quella in vinile): il primo " My Kind Of Hell" è un divertente
gospel-boogie mentre il secondo "Mandalay Again" è un altro gioiellino
country-pop, armonico e solare come l'amicizia dei due protagonisti.
Last
but not least, "Never Too Old (To Hold Somebody)", ovvero il brano
perfetto per immedesimarsi in quest'album; punto di partenza della
collaborazione tra i due musicisti, raccorda tutti gli elementi che
caratterizzano l'album: la forza, la disperazione e l'incanto.
Sedici
brani che fondono country,gospel, rock e blues, sfidando la
prevedibilità stilistica con un feeling straordinario, "The Union" non è
solo un buon album, ma un trionfo della genialità di due vecchie anime
del rock.
(25/11/2010)
|
dal Corriere Della Sera del 14/11/10
Elton John e Leo Russell con lo spirito degli anni 70
di Mario Luzzato Fegiz
Si
sono conosciuti negli anni 70, poi le loro strade si sono divise. Elton
John è diventato una star internazionale, Leon Russell è rimasto
artista di culto e ha lavorato come autore e session-man (fra gli altri
con Joe Cocker, Rolling Stones ed Eric Clapton). Il risultato è un disco
in cui Elton mette da parte le melodie patinate e recupera un amore per
la tradizione musicale americana. C'è il gospel, il soul, il r&b,
il sound evoca lo spirito degli anni Settanta, con quella gioia di
improvvisare e far nascere le canzoni scambiandosi idee e intuizioni. I
brani hanno un andamento lento per poi crescere nel finale. Gone To Shiloh
vede la partecipazione di Neil Young. Il contrasto fra le loro diverse
voci e l'impasto delle parti di piano ne fanno un disco unico e senza
tempo.
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